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Lo Stato Sociale – Turisti della Democrazia

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Lo Stato Sociale nasce nell’estate del duemilanove grazie ad Alberto Cazzola, Alberto Guidetti (Bebo) e Lodo Guenzi tornato a Bologna. Nel rifugio i tre decidono di dare sfogo alla loro creatività senza troppo pretendere dalla vita e probabilmente senza rendersi veramente conto di quello che stava nascendo. Grazie anche alla collaborazione con Paolo Torreggiani (My Awesome Mixtape) pubblicano il loro primo Ep, Welfare Pop. Da allora il progetto nato tra qualche birra e tante risate diventa serio. Il gruppo si amplia e nel duemilaundici la band divulga una coppia di singoli (in digitale) in concessione per Italian Embassy e per Rockit prima dell’EP “Amore ai tempi dell’Ikea” (Garrincha Dischi). Ora la storia è questa:

Turisti della Democrazia è il racconto di un ragazzo nel pieno del fervore giovanile, che urla le sue passioni carico di vita, ma finisce col ritrovarsi solo in cerca di una libertà che forse non sa nemmeno cosa significa se non speranza in un’illusione. Nel fare la conoscenza del mondo, finisce con scontrarsi con una realtà falsa, fatta di persone che per quanto possano apparire diverse le une dalle altre, gli sembrano solo estranee e aliene e una società in continua lotta contro il buonsenso. Comincia a riversare la sua animosità che un tempo era grinta verso tutto quello che c’è di sbagliato. Anche le piccole cose. Il prezzo di un aperitivo o una politica di ladri, la mancanza di lavoro o la falsità delle ideologie o ancora l’ipocrisia della chiesa cattolica. In questa lotta contro tutto, finisce col ritrovarsi ancora più solo, annoiato, senza neanche più la forza di lamentarsi, invischiato in un lavoro inutile e debilitante. Non ha più una ragazza e senza accorgersene si rifugia nelle piccole cose, senza i vecchi struggimenti adolescenziali. Si rintana nella musica (Blur, Apparat, Offlaga Disco Pax, Felix Da Housecat) ma si rende conto che la scena alternativa che tanto ama in fondo non è altro che l’ennesimo prodotto del sistema. Capisce che la pseudo indipendenza non fa altro che trasformare i giovani in dipendenti da un certo modo di essere diverso per forza. Essere vero diventa impossibile. Un’infinità di delusioni sfocia nella totale disillusione, e lui quasi incapace di vivere decide di farlo a modo suo. Capisce che nella sua testa tutto è più semplice. Anche amare. Perché lì le persone sono come le vuole. Anche la donna tanto bella e desiderata può reggere il confronto solo nella sua immaginazione. E le donne finiscono per scorrere nella vita come personaggi a caso, banali, pieni di sé, in fondo inutili perchè quello di cui ha bisogno è fuori dal mondo. Alla fine si ritrova a pensare meno per vivere serenamente.  Diventa, almeno all’apparenza, come tutti lo vogliono, ma non fa altro che farsi ipocrita. Non è capace di sorreggere la sua stessa falsità. Finisce per lasciar correre tutto e alla fine, quando ogni cosa sembra dover andare per un verso, probabilmente trova l’amore, di quello che in fondo hai sempre li, ma non vedi mai con gli occhi languidi.

A essere sinceri, quello che vi ho raccontato non rappresenta proprio la verità perché Turisti della Democrazia non è certo un concept album e soprattutto di storie ne racconta un’infinità, tutte diverse. A ogni ascolto sta a noi decidere se e come farci trasportare da una parola, una frase, una battuta, un’accusa o una nota. A ogni ascolto decidiamo noi quale storia vivere che sia di sdegno, d’amore, di musica passione o amicizia. Le storie sono infinite. Scegliete voi.

Le canzoni in sé sono tutte hit Electropop escluse rare eccezioni in cui è l’anima indierock a prendere il sopravvento o altri episodi più intimi. Non ci sono strade senza uscita. Un album vigoroso e trascinante, con ritmi ipnotici per quanto semplici e melodie ricercate senza suonare pompose e soprattutto orecchiabili. Un mix che ricorda in parte quello de I Cani ma che si presenta più ironico, più melodioso e con testi più simpatici e diretti oltre che ricco di frasi a effetto (“Il lavoro debilita l’uomo”, Ti donerei il mio cuore ma non si butta via niente del maiale”, ecc…). Sicuramente poco utili allo scopo e poco riusciti sono riferimenti politici che a volte sfiorano il qualunquismo (“Cromosomi”). I rimandi a brani di altri artisti sono volutamente innumerevoli e in alcuni casi esageratamente palesati (Girls and Boys dei Blur in “Vado al Mare”) o molto soffusi (La batteria di “Ladro di Cuori col Bruco” è stata mixata pensando a Like Something 4 Porno di Felix Da Housecat). La musica per quanto ripeta ossessivamente un certo cliché electropop riesce sempre a non annoiare, grazie a continui cambi di ritmo e inserti sonori che riescono a rendere l’atmosfera creata da tastiere, drum machine e voce, linea portante del genere, mai ripetitiva. A parte le piccole cose, se c’è un pezzo che non convince, potrei dire solo “Seggiovia sull’Oceano”. Il resto non ve lo leverete dalla testa. Un tripudio di citazionismo, ritornelli spettacolari, elettronica e chitarre, voce che quasi recita invece che cantare e parole brillanti. Questo è l’ultimo lavoro de Lo Stato Sociale. Un disco che, nel nome del Dio (Indie) Pop, si rivolge a tutti gli ultimi d’Italia, che in fondo non si sentono tali, ma si ritrovano sotto accusa solo perché autoesclusi dal sistema socio-culturale di casa nostra. Lo Stato Sociale, per quanto popular, non rappresenta direttamente un prodotto di questa cultura di merda che ci avvinghia tra tv spazzatura, politica meretrice, ignoranza esasperata, aperitivi a dieci euro, abiti firmati, macchinoni, repressione intellettiva. O meglio né è un prodotto come fiori nati dai cadaveri putrefatti sul terreno di battaglia. Spesso dal peggio nascono le cose più sensazionali. Tutto questo male italico genera il bene quando di mezzo c’è l’intelligenza e la passione. Passione che per i cinque turisti nello stato sociale significa anche amicizia, vero legante di una band che sembra non aver troppi problemi a dire quello che pensa senza facili paraculate e senza voler essere a tutti i costi contro. Nonostante lo Stato Sociale non rappresenti niente di mai sentito, di geniale, di nuovo, musicalmente parlando, dentro la loro musica e le loro parole c’è qualcosa che si lega alla nostra anima e ci forza all’ascolto continuo. Traspare sicuramente che quello che ascolti è vero frutto del sudore e delle coscienze di cinque ragazzi come te. Ma c’è altro. Senti di amarli perché capisci che loro sono come te, in tutto. Anche se forse, sei tu a non essere come loro. Cosa posso dirvi ancora. Non voglio rovinarvi la sorpresa. Ladro di Cuori col Bruco non mi ha fatto dormire, anche stanotte.  Se ancora non li conoscete, sappiate che sono piaciuti a chiunque io li abbia fatti ascoltare. Dite che a voi non piaceranno? Non mentite.

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Madonna – MDNA

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Madonna, l’imperatrice del Music Business è qui a subissare se non addirittura triplicare il giro di boa dollaroso conquistato dodici anni orsono con Music, e a quanto pare dalle statistiche,  c’è già riuscita con questo suo dodicesimo album in studio “MDNA” – che ad una prima svista pare il nome di una pasticca illecita – disco che la ricolloca (speriamo che non si accorga Lady Gaga) a regina dei club discotecari, quel sound tamarro e glitterato in cui l’artista fonde o confonde remix e la preghiera dell’Atto di dolore “Give me all your luvin’ ” mentre cerca la luce della sua eterna giovinezza che man mano va a sciogliersi come un ghiacciolo al sole estivo.

Cinquantuno minuti di anni Settanta e filodiffusione da Esselunga, volumi al massimo e stunz stunz danzereccio che opacizzano l’immagine oramai abusata di “regina del pop” d’acciaio e muscoli, un mischiume pazzesco di sacro e profano senza capo né coda ma che i numerosissimi (milioni) di fan innalzano a miracolo reale in riscatto della loro vita miserrima e sfigata, ed è ciò che fa dubitare sull’effettiva intelligenza umana a discapito di quella animale.
Internet è impazzito quando Lady Ciccone ha annunciato la tracklist di questo “brodo primordiale” e sempre internet si è fatto carico di un downloading mostruoso da parte di mila e mila utenti letteralmente usciti di testa per queste “confessioni ebeti” che l’artista sciorina e sbologna come dettagli di poco conto, dai problemi dei suoi matrimoni falliti “Best friend”, “I fucked up”, Sant’Antonio, San Cristoforo e San Sebastiano evocati per i suoi peccati da redimere “I’am sinner”, arie irlandesi “Falling free”, un pizzico di country con OrbitLove spent” e quella “Girl gone wild” arrangiata dagli italiani Benny e Alle Benassi, reggiani doc alla corte della Dea del commercio sonoro.

Quasi quaranta minuti di inconcludenze seriali e frivolezze poppyes che hanno come culmine “Superstar” traccia in cui la figlia quindicenne Lourdes canta e si prenota come ballerina per il mega tour mondiale che tra poco muoverà gli ingranaggi macroscopici; l’ex Material Girls – ora Mum appagata – torna a fa bollire acqua calda con poche e abusate cose che comunque – tra il serio ed il faceto – producono per le sue casse miliardi su miliardi alla faccia di chi la vuole finita da un pezzo.

Altre parole non vengono fuori se non….e la Madonna!!!

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Il Disordine delle Cose – La Giostra

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Una lacrima scende sulla guancia fino ad arrivare sulle labbra, un sapore bellissimo, il cuore si stringe. Siamo ancora capaci di piangere, non è affatto roba da poco. Il Disordine delle Cose arriva al secondo album La Giostra confermando ampiamente (e ancora di più) i consensi caricati sulle spalle due anni prima con l’omonimo esordio discografico. Questa volta si registra in Islanda con autonoma produzione (Cose in Disordine) nello Sundlaugin Studio con la complicità di Birgir Jòn Birgisson, il fonico e manager dei Sigur Ros. Tutto detto, artisticamente c’è solo da guadagnare.

Il suono intimo e tondo de Il Disordine delle Cose scardina subito il male dalla mia vita, si entra velocemente a contatto con qualcosa di interiormente valido, il sentimento comanda sempre e comunque le nostre azioni, non siamo mai stronzi abbastanza. Lascio andare il disco desiderando fortemente di ascoltarlo e riascoltarlo ancora senza tregua perdendo il contatto logico con la realtà, i suoni sono strutturati e legati tra loro in maniera dolce, un bacio sussurrato sulla bocca, la salivazione azzerata. Ho voglia di innamorarmi ancora. Si parla di promesse non mantenute e rapporti finiti ma tirati avanti per inerzia nel singolo/video anticipa disco Sto Ancora Aspettando, interpretazione concreta quella del cantante Marco Manzella che si butta nel mezzo di vortici infiniti mantenendo alto il profilo della canzone d’autore. “Il tuo respiro è un attimo tra il dire e il fare” in Mi Sollevo la dice lunga sull’incertezza delle decisioni, sulle scelte che contano nella vita. Qual è la scelta giusta? Avere il coraggio di lasciarsi andare? Quattordici brani per dare vita a La Giostra, passione da vendere e testi da cucirsi sulla pelle, il dolore insegna la vita, ho paura a esternare le mie emozioni. Un disco che aiuta a ritrovare quello che abbiamo celato nell’ipocrisia di una società infame e priva di cuore, l’amore è il bene ma anche il male. Il Disordine delle Cose ritrae indubbiamente una delle migliori band dell’attuale scena italiana, loro prendono questo posto con una deliziosa prepotenza, il loro disco suona come pochi altri in questo malinconico periodo. Da rivelazione diventano conferma. Con loro si potrebbe diventare persone migliori e tornare a piangere senza avere vergogna.

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Mark Stewart – The politics of envy

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Il grande sciamano del Pop Group, l’anarchico d’eccellenza del post-punk, il rasoio letterario del rock è tornato in grandeur, Mark Stewart è di nuovo in giro con un bel lavoro “The politics of Envy” , un disco a tassello dove il pop elettronico prende spazio totale pur conservando le spigolosità caratteriali, quell’impronta sociale, umana e comunista di sempre; undici anthem song che suonano come cazzotti sul muso, ed il tutto condiviso con una schiera di super ospiti ragguardevole.
Il musicista inglese, pioniere dell’industrial hip hop, è in straordinaria forma, e lo dimostra con una sempre migliore efficacia a colpire il bersaglio giusto della sua poetica contro, a mettere in circolazione il lusso di una o più parole d’ordine per scardinare il potere, l’ingiustizia e nefandezze varie; è un esperimento che fa subito scintille con l’esplosione di beat e theremin giostrato da Kenneth AngerVanity kills”, il rap focoso in onore di Carlo GiulianiAutonomia” che vede straordinari Primal Scream all’opera, il tocco magico di Lee “Scratch” Perry che sporca di dub ed urban style le frequenze elettroniche di Tessa PollittGang war” o i ritornelli a presa rapida che “Want”, e “Codex” imprimono nella testa.

Stewart si è circondato di amici per mettere ancor più in risalto la narrazione di un quotidiano che diventa la porta d’accesso ad un’introspezione di carattere totale, dove il testo imprigiona la rabbia privandola di quelle tipiche “offese” vissute, e quello che n’esce è un singolare intensity di sonorità anni 80/90 che fanno accento e forza allo stile narrativo; magari delude un po’ Daddy G che in “Apocalypse Hotel” pare vegetare, ma il tono torna su con la rilettura di un hit di BowieLetter to Hermione” e con la chiusura affidata alla fumigazione rock-wave in cui i vocalism di Gina Birch e il chitarrismo di Keith Levene (Pil) la fanno da padrone e in bella misura “Stereotype”.
Il grande sciamano Stewart gioca bene nei circondari dei nostri tempi, la sua vena “urlatrice” anti-misfatti è ancora ben dilatata ed il suo hip-hop pensiero sempre teso ed aggiornato. Lunga gloria a questo combattiero eroe critico e “sinistro” come pochi.

    

 

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Still Leven – Cases of bluntness

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Non si esce vivi dagli anni ’80, ammoniva Manuel Agnelli, come a dirci che possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo anche storcere il naso per certe sonorità e un certo look, concedetemelo, barocco, ma quella decade lì ci si è tatuata addosso  e non possiamo che accettarlo.
La questione, certo, è come ci si rapporta ed essa. Non se ne esce vivi se non si fa altro che continuare a scimmiottare le glorie Eighties, ma ci si sguazza con grandissima dignità se si fa proprio quel mood e quelle atmosfere tasti erose, se le si ricontestualizza al presente, se le si ammoderna.
Ecco cosa hanno saputo fare sapientemente gli Still Leven, trio genovese (Giacomo Gianetta, Greta Liscio, Matteo Spanò) che non guarda alla new wave e al dark fingendo che non ci siano stati il grunge e il post-rock e la house, ma che anzi, fa proprio della commistione con sonorità più moderne, la loro fortuna.
Immancabili le tastiere, sintetiche, fredde e quasi asfittiche, come un approccio fedele richiede, ma smorzate dalle chitarre, decisamente più recenti per ispirazione, con distorsioni piene e rotonde, che impastano le basse frequenze e aiutano il basso nella creazione di un groove caldo nonostante le premesse.
Cases of Bluntess riassume benissimo quello che sono stati gli anni ’80 per la dark e l’elettronica, in otto tracce tutte tiratissime e potenti. Il disco apre con la cassa in quattro di “Soulserching” e una voce che ricorda vagamente quella di Dave Gahan e prosegue con un tripudio di piatti e la voce di Greta sporca, metà punk e metà Siouxsie and the Banshees in “No moleskine”. Decisamente più tipicamente new wave e danzereccia, anche per il ritornello martellante, ripetuto allo stremo, è “Forever is just for a while”, mentre “Sex we can” e “Bring the cold war kids home” sono decisamente più elettro-dark: ricordano molto i tedeschi Arcana Obscura e i belga Kiss the anus of a black cat: voci e tastiere guidano la melodia e le tracce si fanno eteree e impalpabili, nonostante la marcata corporeità suggerita dalla sezione ritmica.
Lost in texture” è forse il brano meno riuscito del disco, tutto spinto all’acuto, con una quantità di tastiere quasi eccessiva, tutto troppo, troppo, Eighties (e per più di sette minuti, oltretutto).

Perdoniamo subito, però, questa momentanea e apparente perdita della loro cifra stilistica grazie a “Possession”: apertura in fade in, lenta e meditativa, che esplode in un ritornello dance con chitarra e tastiera che dialogano a suon di riff, la voce femminile dietro, mero strumento musicale che potrebbe dire qualunque cosa senza che questa abbia importanza, e quella maschile, grindcore e quasi parlata. Senza dubbio è la traccia più elaborata e complessa per quanto riguarda gli arrangiamenti e la cura dei dettagli melodici di ogni singolo strumento. The Cure e Depeche Mode sono prepotentemente i riferimenti di “Weekends of spring”: troviamo i primi nello scarto armonico costante maggiore-minore e nelle sonorità del basso, mentre i secondi sono stati perfettamente assorbiti nella realizzazione dell’arpeggio circolare delle tastiere.
Gli Still Leven hanno le potenzialità per riuscire a conquistare i nostalgici e ad emergere nei club, soprattutto d’oltremanica: sembrano averlo capito anche loro, visto che il 20 aprile terranno un concerto a Genova in anteprima al tour che li vedrà impegnati in Gran Bretagna.
Non resta che augurar loro buona fortuna.

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So Much For Nothing – Livsgnist

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Dalla Norvegia arrivano questi oscuri So Much For Nothing e con loro portano il  disco d’ esordio intitolato “Livsgnist”, uscito per la nostrana My Kingdom Music. Dietro i So Much For Nothing si celano il polistrumentista Erik Unsgaard ed il batterista Uruz, il sinistro duo ha posto il proprio stile di musica come Decadent Black Art e forse non dobbiamo dargli tutti i torti, anche se il loro è stato un azzardo bisogna da un lato riconoscere le loro atmosfere unite a riff che danno l’ impressione di essere graffianti e baritonali allo stesso tempo. Ed è proprio con questi elementi che si presenta il primo disco del gruppo, in “Livsgnist” troviamo sette tracce di buona fattura e suonate con una certa discrezione. “Livsgnist” non è un disco aggressivo tipico del Black Metal, detto brevemente Erik ed Uruz non si accostano affatto ad un tipo di musica come quello dei Taake, dei Gorgoroth, dei Dark Funeral o altri macigni del genere, i So Much For Nothing  strizzano l’ occhio ai polacchi Nomad, agli Altar Of Plagues  ed agli Shining. Potete ascoltare “Livsgnist” in qualsiasi momento tanto per farvi capire il nocciolo, anche stesi sul letto ad occhi chiusi; gli amanti delle sonorità forti apprezzeranno senza alcun dubbio questo lavoro perché racchiude e il motivo sta proprio nel fatto che nella potenza della band si celano quelle atmosfere che attutiscono e alleggeriscono il suono. In questo disco bisogna anche rendere omaggio a special guest come Niklas Kvarforth e Peter Huss degli Shining, a Live Julianne Kostol membro dei Pantheon I, Trondr Nefas degli Urgehal ed Aethyris McKay ex chitarrista degli Absu. C’è da dire che il disco ha acquisito un certo colorito anche grazie all’ operato di questi noti artisti che in un modo o nell’ altro ci hanno messo lo zampino ma è un fattore secondario perché chiaramente e logicamente il più è stato fatto dai So Much For Nothing e nessuno gli toglie il merito. La caparbia My Kingdom Music ci ha visto giusto un’ altra volta, il rooster della label si fa sempre più interessante, non ci resta che attendere il seguito di “Livsgnist” e quindi vedere dove andrà ad impastarsi la band in futuro.

 

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X-Mary – Green Tuba

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La prima cosa che picchia nella testa, quando ci si ritrova davanti ad un gruppo come gli X-Mary è sicuramente un certo tipo di attitudine propria dei folli. Loro sono come quell’amico squilibrato che tutti abbiamo, che non si rade la barba da mesi, che si lava poco, che si sfonda di birra e poi si mette a far casino; che prende per il culo tutti ma devi sforzarti per capire se sta prendendo per il culo proprio te; quello sagace che sembra un ebete; quello che fa l’idiota con intelligenza; quello che non riesce a trovare una ragazza perché forse non esiste una che riuscirebbe a stargli dietro; quello che è sempre ilare e ti mette incessantemente di buon amore; quello che se c’è da prendere a calci nel culo uno stronzo, non si fa complicazioni. Tutto questo sono gli X-Mary. Sono anche una band di San Colombano al Lambro (Lombardia mica la California) che crea caos e musica da quasi vent’anni e che nel frattempo ha pubblicato diversi lavori tra cui “Day Hospital”, “A Tavola con il Principe”, “X-Mary al Circo” e “Tutto Bano” prima di “Green Tuba” appunto, coprodotto da Another Shame, Dischi di Plastica, Escape from Today, Le Arti Malandrine, Lemming Records, Noiseville, Smartz Records, Wallace Records. L’ingegnere del suono è Fabio Magistrali, che a detta della band ha rappresentato un valore aggiunto ben oltre le sue mansioni (“ci ha dato da mangiare, ha detto la sua e dato un sacco di idee (ultima ma non ultima quella dell’albero senza tronco in copertina” (foto di Davide Maione)). Per quanto riguarda la musica, gli X-Mary sono ancora più inenarrabili. Nel rispetto nella loro indole beffarda ma mai allontanandosi dalla realtà, indicano come loro generi di riferimento Rock, Pop, Punk, Bossa Nova, Pianobar, Latina e tra le principali influenze Luca Carboni, Henry Rollins, Ruben Camillas e Zagor Camillas.

Siamo vicini alla verità, più di quanto possiate pensare. Gli X-Mary propongono una miscela che ricorda lo stesso famelico spirito degli Ween, band statunitense formatasi a metà anni ottanta, caratterizzata proprio dalla capacità di fagocitare una miriade di generi diversi risputandoli poi con violenza in un Art Pop dissimile dagli elementi primari. Cosi come per gli Ween il risultato è un sound onirico e mordace. Una sorta di geniale e bonaria presa per il deretano di generi musicali diversi che nel caso degli X-Mary, sono rappresentati dalla tradizione della musica leggera italiana, la musica brasiliana, il Punk. Nello stesso tempo, nella capacità di ricerca di suoni e nelle sperimentazioni folli, la band lombarda ricorda (scusate se esagero) The Residents, anch’essi capaci di nascondere sotto una luce fatta di sarcasmo e divertissement un’analisi della musica, moderna e non, che puntualmente sfocia in una distruzione dei miti, in un anti-fanatismo di massa, ricco di estetica e pieno di sostanza, senza alcun didascalico citazionismo. Volendo invece fare un paragone tutto italiano, è sufficiente aggiungere alla capacità di ricerca di Freeman e Melchiondo e alle sperimentazioni dei bulbi oculari più famosi del mondo il punk demenziale degli Skiantos. Mi assumo la responsabilità piena di quello che dico e confermo che in molti punti la somiglianza è evidente sia nella composizione sia nella voce, cosi come nei testi. La discrepanza vera rispetto agli emiliani è che è maggiore la portata musicale, più ampia la lista dei generi toccati e forse gli X-Mary presentano la loro irriverenza in maniera meno aggressiva e più ricercata. Inoltre, l’aspetto demenziale del rock è meno evidenziato.  Quindi mescolate Ween, The Residents e Skiantos alle prese col Pop, la musica brasiliana, l’HardCore  e forse avrete capito di che parliamo. In realtà è impossibile capirlo (e descriverlo) senza ascoltare. “In Prima Fila”, brano che apre Green Tuba, vi darà un’idea migliore di quel paragone con la band di Freak Antoni fatto in precedenza. Stesso dicasi per “La Piazza Non C’è Più” anche se il testo e la musica si addolciscono fino a rendere plausibile la vicinanza con il Pop di Luca Carboni. La leggerezza sarcastica degli X-Mary continua con “Solo Mattia Mi Dà” e sfocia presto nel delirio. I quarantadue secondi di “Pasticciotti” sono la porta che apre sulla pazzia. “Gigia, il Cane di Cristiano, si è Persa nel Bosco del Castello”. Il nome non dice niente. E proprio per questo sembra dire tutto. I primi richiami alla musica sud americana si hanno con “La Rivista” che sembra sempre tuttavia indissolubilmente legata alla nostra penisola cosi come in “Tiziano Iron” si fanno sentire più prepotentemente le (s) porcherie noise, punk hardcore della band.

Con “Badula” siamo ancora oltre. Un sound tex-mex che sembra tirato fuori dall’intro di un duello Western fatto di tromba, pistole e Tequila. “Viados de Porao” prima de “La Giornata del Nuovo Pizzaiolo” rappresentano un’accoppiata da delirio puro. Metal, scream scaraventato nelle orecchie prima di un pezzettino Pop reso impazzito da un testo talmente concreto da sfiorare il surreale. Uno dei miei brani preferiti è la traccia tredici, “Racconti dell’Africa Nera” uno dei passaggi meno sperimentali del disco, eppure carico d’idee. Da segnalare anche “Io Amo Te” nella quale abbiamo scoperto non esserci seconde voci. Non l’avreste detto, vero? Il resto prosegue tutto sulla stessa reiterazione alternata fino alla traccia ventuno. Scatti veloci da un continente all’altro, urla, spettacolari passaggi pseudo Pop (“Alle 18 le Capre Bevono”), tutto frullato in un vorticoso ensemble di schegge che vanno dai ventinove secondi ai tre minuti e diciannove.  Insomma, gli X-Mary sono tanta roba e spero abbiate la curiosità, non solo di ascoltare quest’ultimo lavoro, ma anche di riprendere i vecchi e soprattutto di andare a vederli dal vivo, magari insieme ai Camillas (X-Marillas), in uno spettacolo indimenticabile per gli amanti del casino puro, delle illogicità musicate e dei punkabbestia. Avete presente quelle band che non vi entusiasmano su disco eppure live vi fanno uscire pazzi? Potrebbe essere questo il caso. Dalle mie parole non avete capito molto, suppongo. Non è solo colpa mia, credetemi e comunque, meglio cosi. Se li conoscete già, vi basterà sapere che c’è molto meno Hardcore del passato, che sono stati aggiunti i fiati e che dentro ci sono potenziali pezzi da radio le cui possibilità sono mandate a puttane dagli stessi X-Mary quando decidono di non superare qualche decina di secondi (è il loro stile (purtroppo, in questo caso, giacché alcune sembravano poter veramente diventare grandi pezzi) e se non avessero avuto queste caratteristiche, staremmo ascoltando altro). Se non li conoscete, cercate di non perdervi questa fintantologia di storie irrazionali in bilico nella storia dell’ arte dei suoni. Vi lascio con le stesse parole della band. Vi potrebbero aiutare a capire. “Se cerchi un singolo, ascolta “Mi Sento Solo”. Se cerchi una pseudo cover dei Camillas, ascolta “Picante”. Se cerchi grane, hai sbagliato gruppo”.

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The R’S – Empire Mickey

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Tra spirito e sensualità  amplificata nel segno del linguaggio del rock psichedelico – o almeno – in quei paraggi metedrinici che hanno il numero sessanta come targa di “circolazione”, i The R’S pubblicano “Empire Mickey”, un Ep di cinque tracce che parla al mondo ad alta quota, una tracklist che cattura, fotografa ed accartoccia dettagli e atmosfere di quell’epopea ma con una spiazzante ed imprevedibile colorazione sonica, un’identità personale che indaga, smanetta e freme come un’eccentrica favola elettrica.
Hanno uno, mille e nessun modello di riferimento, ma anche l’attitudine di una grande libertà a frullatore, senza quegli immensi scaglionamenti dell’indie generazionale o le turbe asmatiche dello ieri, la loro è una musica che fa irruzione all’ascolto come un filo scoperto pericoloso e allettante nel contempo, dai galloni argentati di un Marc Bolan vezzoso “Pictures on the water” alle fumisterie dei ByrdsBrainwaves”, arrivano con gli shuffle da bagnasciuga “Unkind” e ripartono con le proporzioni azzeccate di un  “rollen”  becchettato di chitarra che fa molto East-CoastJo”.

La band bresciana si rivolge principalmente a quegli ambienti appaganti e sornioni di un certo “modernariato” sonoro, che senza tanto scavare indietro ritrovano intatto il calore e l’afflato dell’entusiasmo post-beat e di quei fulgidi bagliori luminescenti che si allungavano ben oltre la scapigliatura per intravedere – col senno di poi – un futurama brit di tutto rispetto “In heaven I used to believe”.

Ascoltare questo bel disco ed uno di quelli che si cospargono di stilemi è una bella differenza, specialmente quando i The R’S intrecciano le loro voci ammalianti e “vintagiosamente” cool (in qualche modo mi devo pur definire) per dare fiato e corpo ad un rock di razza pura.
Empire Mickey, e sai cosa vai ad ascoltare.

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Entropia – Il tempo del rifiuto

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Il giovane rock è davvero sempre votato all’autodistruzione? Ma chi cavolo lo ha detto, sempre più band hanno rivoltato la curva del vizio per quella della responsabilità d’idee, per mettere all’aria i loro istintivi esclamativi senza dare corso alle innumerevoli cazzate sparate da chi nel rock spera,vede e cerca solo un metodo scientifico per eliminarsi intellettualmente, e gli Entropia questo lo hanno imparato e si sente .

Il tempo del rifiuto” è l’EP della freschezza ritrovata e il quartetto biellese riesce a mettere insieme gli strumenti per un buon rock “all’italiana” che è il punto di forza delle sei tracce registrate, apparentemente aggressive e scioccanti, quando invece è il tenerume di cuore a pomparle a manetta, tracce che hanno molti punti di riferimento, lontane dall’arrivismo dell’indie e molto vicine alle planimetrie “On Air” radiofoniche: il quartetto è molto concentrato sulle sue storie e pene, quel drammatico sonoro generazionale che è componente insostituibile per gli step futuri – sperando che ce ne siano – e per quell’energia che ora mettono in circolazione con l’urgenza di tutti i giorni insieme al malessere represso che finalmente sfoga tra pedaliere, poesia a vene gonfie e sensualità amplificata.

Se è vero che l’entropia è una grandezza che viene interpretata come una misura del disordine presente in un sistema fisico come anche l’universo, gli Entropia potrebbero esserne un’infinitesimale cifra scappata per errore da quest’interpretazione, e un’indicazione ce la fornisce lo shuffle isterico che vibra in “Da qui”, l’unico appezzamento sonico in cui la band maneggia il loud come una febbre da rincorrere, poi il disco si  “acquieta”  nel rock-beat alla Formula TreQuesta notte”, nelle ballate a mattonella pop “Io &me”, “Quella che”, per arrivare alle due parentesi centrali “Il tempo del rifiuto (Atto I° e II° )” , un pathos diviso a metà, sole e temporale, un sogno malinconico da una parte e un’incazzatura elettrica dall’altra che mettono l’intero registrato al centro di una soddisfacente convulsione a quattro, tra sventure sentimentali ed intensità di riflessioni.

Sei tracce per un EP “entropico” che si alza una spanna sopra quelli di tanti altri “colleghi” usciti allo scoperto in questi ultimi frangenti; una forte ricetta sonora contro la noia del – in taluni momenti – del vivere.

 

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Herself – Herself

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Tutto sta a capire cosa uno si aspetta  dalle proprie canzoni. Se uno si prefigge, con i propri suoni e musica, di portare novità o innovazioni importanti o, più semplicemente, di scrivere belle canzoni, magari nella speranza, neanche troppo segreta, che restino nel tempo. Gioele Valenti, in arte Herself, vive nella seconda ipotesi, vive, galleggia e fa galleggiare in un sogno musicale e poetico che punta all’eternità delle piccole cose per cui ascoltare musica è beatitudine e privilegio assoluto; un musicista folkly delicato, alto, un musico a tutto tondo che si candida a lasciare segni profondi nei nostri ascolti.

Questo nuovo ed omonimo disco dell’artista siciliano è un cento per cento di foschia e grazia lo-fi, una commuovente precisione di creazioni mid-acustiche che, tra un impianto classico di cantautorato inglese e le forme d’arte che solo l’intimità riflessa può disegnare, dimostrano una peculiarità ricca di dettagli e passioni come in certi allunaggi poetici di Sparklehorse “Funny creatures”, Paul SimonTempus fugit” con il violoncello di Aldo Ammirata, Nick Talbot e Third Eye Foundation Here we are”, quelle quadrature suadenti pop che collimano e si strusciano con un post-rock vellutato, ballate di divina flemma oziosa “The river”, “Tempus fugit #2”, e tutti gli armamentari che portano l’ascolto sulla vetta di un’intesa splendida quanto immaginifica.

Un piccolo Paradiso in un tondo di plastica? Sicuramente, tredici tracce di dolce malinconia tutta Inglese che si tagliano con un soffio d’aria, un qualcosa che gira e che quest’artista mette in ordine come un abbecedario di poesia cristallina da sentire e non toccare, il caracollare soffice “Passed away”, il vuoto espressionista di “Sugar free punk rock”, la profondità di una spennata acustica di una notte al confine con l’alba “How you killed me”, si l’effetto di stare dentro una cristalleria è forte e l’attrazione di volare per non rompere nulla è ancor più forte, viva.
Anche Amaury Cambuzat degli Ulan Bator e Marco Campitelli dei The Marigold sono della partita, condividono con Herself queste stille di suoni e parole che cadono senza mai stancarsi, una pace che traspira gioia ma anche dolore e solitudine.
Emozioni e brividi assicurati.

 

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Frida Neri – Frida Neri

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“Chiamate vi prego, il mondo, la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo”, aprendo questo EP, si legge un fantastico verso di John Keats. Lo sfondo che lo accoglie è un panorama innevato, glaciale, disarmante ma per nulla inespressivo.
Come se si scavasse lentamente fino in fondo, con una piccola pala a rompere lo strato di giacchio in superficie, fino ad arrivare al centro del nostro “mondo”, che nessuno garantisce sia più caldo ma solo più onesto.
Proprio così: questo disco di Frida Neri, giovane cantautrice di Fano, è gelato. La sua voce venata di jazz è fredda. In realtà non mi piace attribuire l’aggettivo “freddo” ad una voce, mi pare di dare una concezione negativa, inespressiva ma semplicemente non ha il naturale calore di chi alla sua giovane età sprigiona rivoluzione. E questo la rende sicuramente rara nel panorama. Le sue canzoni sono un soffice movimento d’aria, una lieve condensa che esce dalla bocca in un timido e soleggiato pomeriggio di Febbraio. Niente bandiere al vento, nessun ruggito e nulla di più intimo e di più diretto all’anima insomma.
“Alle soglie dell’aurora”, apre l’EP e si dimostra il miglior episodio. E’ un perfetto paesaggio  digerito e rappresentato dalla voce lontana e soave di Frida. Si passa poi alla soffocata solitudine di “Sara Sottile”, storia cruda che si risolve con una vena di gratuito ottimismo: “La luce più forte sul limite, splenderà. Le sue mani, mondi nuovi da inventare”. Parole più forti di qualsiasi grida rivoluzionaria.

Il jazz poi prende il sopravvento in “Al matrimonio”, canto dove carne e spirito si lanciano in una sensuale danza. Qui Frida (un po’ in versione Carmen Consoli) dimostra di essere davvero una grandissima cantante, dove oltre alla tecnica sfodera matura espressività. Si scalda un po’ l’atmosfera, la danza non è indiavolata ma i bollenti spiriti fanno cadere la gocciolina di sudore dalla fronte dei due ballerini.
Il finale è dedicato a “Siberiana”, il gelo e le distanze ritornano a governare e gravitano intorno alla “valle del fare anima”. I paesaggi ritornano introspettivi e lo spirito qui continua a ballare mentre la carne è sconfitta dal fiatone. La voce ritorna fresca (non ce la faccio proprio ad usare l’aggettivo “fredda” per Frida), ma comunque viscerale.
Questa ragazza è un’altra grande promessa del cantautorato italiano, non ci sono dubbi. Una grande lezione di poesia che di certo non muta l’atmosfera, ma riesce a scaldare anche senza il comune gesto di accendere un falò.

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Eusebio Martinelli and the Gipsy Abarth Orkestar – Gazpacho

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Voglio trasferire la mia mente lontano da queste situazioni grigie con cui tutti i giorni sono costretto a fare i conti, ho voglia di stramazzare per alcol, di danzare, di lasciarmi andare. Di una continua e instancabile festa, dalla sera alla mattina e poi ancora, fino a impazzire. L’esordio discografico di Eusebio Martinelli and the Gipsy Abarth Orkestar  con Gazpacho arricchisce di molto le mie conoscenze musicali facendomi apprezzare e non poco quella musica gitana con la quale non avevo mai stretto un dignitoso rapporto. Amore e odio. Avevo fatto le mie prime conoscenze tramite Goran Bregovic e la sua Orchestra per Matrimoni e Funerali ma niente era andato a toccare il cuore come in questo caso, sarà merito della stupenda chitarra flamenca, sarà l’umore favorevole ad accettare certe note.

Fatto sta che questa volta imparo piacevolmente una lezione di musica nuova, dove lascio da parte l’indiscutibile capacità tecnica dei musicisti e mi lascio strapazzare lasciandomi andare a improbabili quanto ridicoli balletti. Non è musica d’ascolto questa, bisogna viverla in pieno cogliendone i contrastanti sentimenti di felicità e tristezza che riesce a trasmetterci, un sound destinato a tutti quelli che vogliono afferrarlo senza distinzioni. Gazpacho mi è arrivato naturale senza che io gli destassi un attenzione particolare, musica balcanica fusa con quella andalusa, ritmi incessantemente belli, una pesca spaccata nel vino. Eusebio Martinelli dopo una ricchissima carriera artistica dove collabora anche con Vinicio Capossela, Kocani Orkestar, Mau Mau e Modena City Ramblers mette in piedi un orchestra di musicisti italiani e stranieri (Serbia, Bosnia e UK), lo fa con le intenzioni giuste dando vita a Gazpacho, il disco gitano dai sapori indie rock, un album alternativo con i suoni immortali del passato.

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