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The Villains – Here Comes the Villain

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Arriva la bomba. Tre, due, uno… Boooooommmmm! E certo, non siamo mica così stupidi da farci saltare in aria all’improvviso. Decidiamo noi quando lasciarci lacerare la pelle fino a ridurla a brandelli, non importa dove andremo a finire. L’inferno sarebbe il posto migliore, il paradiso cerca eroi. Arrivano i The Villains con il loro esplosivo EP Here Comes the Villain, cinque pezzi senza respiro da spararsi a ripetizione, ancora una volta, e poi ancora, ancora fino allo sfinimento. Si perché vi verrà voglia di ascoltarli sempre e di maledire quell’ep da solo cinque misere canzoni! Forse un album avrebbe saziato quell’improvvisa fame oppure avrebbe deluso alla distanza ma abbiamo voglia di goderci quello che ora ci passa per le orecchie. Frustrazione del rock paranoico in chiave alternative wave, il garage rock, Giorgia canta e fa la differenza nonostante un mastering che spinge decisamente bene l’intero lavoro, musica attuale con l’occhio strizzato al passato, il bello e il cattivo tempo. Gli abiti sporchi del rock hanno il loro peso, i The Villains sembrano indossarli con una cialtrona eleganza figlia dell’irriverenza artistica, la bellezza della musica che libera la mente. Loro simpatizzano Patti Smith ed esorcizzano la voce inarrivabile di Siouxsie, loro sono una bellissima scoperta, loro meritano seriamente di essere considerati a dovere in un mondo musicale pieno di merda. Non voglio aggiungere altro, poche parole belle, sincere e senza peli sulla lingua, cercateli dove potete, sono la band che vi cambierà l’umore della giornata.

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Margaret Lee – La ballata di Belzebù

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Satanasso! Si questo verrebbe da dire se il  disco in questione “La ballata di Belzebù” dell’artista ferrarese Giacomo Marighelli in arte Margaret Lee, si mettesse in moto all’improvviso e senza avviso di cautele; di primo sentore sembra di ravvisare un Samuel Katarro del noise-rock, un pensiero elettrico ed urlato che sfoga attraverso la chitarra elettrica una poetica malata e assai incazzata, teatrale sulle fumisterie di un Carmelo Bene con la spina e luciferina sulle tracce dell’umorismo drammatico sperimentale, non male per chi odia ascoltare qualcosa che faccia pugni e schiuma con le logiche commerciali.
Imbarcato in quest’avventura sonica anche Luca Martelli batterista già al servizio di Giorgio Canali e Rossofuoco, e tutto s’infiamma in dinamiche caotiche, casinistiche, intellettuali,  citazionistiche che – se all’inizio destano sospetti – poi sorprendono e si percorrono a lungo, a fondo, con la bava alla bocca.

E il Diavolo, con la d maiuscola – che   qui si potrebbe imparentare con le follie del Joker psicho-delirante di Heart LedgerIl Cavaliere Oscuro – la fa da padrone o meglio fa il diavolo a quattro lungo le otto tracce che stigmatizzano sprint prog, esigenze punk, acidità ed insofferenze sociali e tutte le maledizioni di un immaginario avviluppato da torpore, scosse epiche e quant’altro; Belzebù t’insegue senza affanno in una corsa aggressiva lungo scale di metallo per catturarti e ghermirti “La ballata di Belzebù”, ma poi a prenderti veramente alle spalle sono le abrasioni di una chitarra elettrica siderurgica “Il nano”, il fiatone ska di “Il pensatore”, tratto liberamente dal Faust di Pessoa, come del resto il poeta portoghese è virtualmente evocato anche nella spennata indie di “L’illusionista” tratta da L’Ora del Diavolo, e dall’ossessione ritmata per le streghe che stanno per arrivare “Le streghe”.

Disco contro, accuse, malaffare, pedofilia, amarezze, apocalissi formato tascabile e noise, noise, noise  per accompagnare l’urlo demoniaco di Lee che fa a pezzi ogni forma-canzone nel senso stretto del termine, uno sbraito  scomposto e veritiero alla CCCP che si ammanta – nel finale – di un velo low-brow che ti entra in corpo come una dannazione inflitta da un’entità dotta quanto malefica “Giuda o la notte della Luna vergine”.
La Ballata di Belzebù di Margaret Lee è un disco nero, e se anche nel deserto più deserto la sua azione si perde nella sabbia, la sua ombra sopravvive per sempre, alla faccia di chi ama la luce.

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Shinin’ Shade – Slowmosheen

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Non si finisce mai di scovare grandiose band, l’ Italia è piena di strepitosi gruppi che hanno tanta voglia di mostrare le proprie qualità. E’ il caso degli Shinin’ Shade che pubblicano sotto Moonlight Records il loro EP “Slowmosheen”. Anzitutto vorrei partire dall’ etichetta, la Moonlight Records appunto, che predispone di un particolare rooster che farà gola a tutti gli amanti del Doom, dello Stoner e della musica sperimentale. Dando un occhiata sul loro sito, diverse sono le band che hanno una certa attrazione e proprio per questo un occhiata al sito della label è obbligatorio. Gli Shinin’ Shade   come abbiamo già accennato fanno parte di questa etichetta, e tramite questa sfornano l’ EP “Slowmosheen”, ovvero un dischetto di quattro tracce che mette in mostra l’ affascinante Stoner Rock  miscelato ad un acido suono Psichedelico degno degli anni 70. Non per altro, i sei ragazzi sono riusciti a tenere su un bellissimo spettacolo insieme a band come gli Electric Wizard e i nostrani Doomraiser. “Slowmosheen” è un disco dalle mille sfaccettature, suonato in maniera magistrale e strutturato su livelli lenti-aggressivi. Il disco per esser concreti ha materiale a sufficienza per tirare le somme e vedere di che pasta sono fatti gli Shinin’ Shade e senza alcun dubbio hanno talento da vendere. Se vi piace lo Stoner e la Psichedelica non potete farvi scappare “Slowmosheen”, è un EP di buona qualità, perderselo sarebbe davvero un peccato.

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Michele Di Toro – Echolocation

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Recensire un disco strumentale e suonato interamente al piano potrebbe risultare a volte difficile.
Tuttavia qui la musica è talmente dolce e delicata che evoca il lento sorgere dell’alba, la leggera brezza mattutina che accarezza il volto, ma può far anche pensare al rumore delle foglie in un bosco.
Sembra già di intravedere l’erba ed i fiori che si adagiano e risorgono al leggero vento primaverile…
Una primavera imminente e una luce immensa che ci ricordano il lento ritmo che è talvolta interrotto da lunghe accelerazioni evocanti l’impassiva entrata di ricordi passati che caricano un animo sensibile (ma non per forza fragile) in attesa di un futuro di gioia e di felicità.

Quello di Di Toro è un talento naturale, che gli ha già fruttato molte soddisfazioni, come le esibizioni al prestigioso Blue Note di Milano e alla Settimana Mozartiana di Chieti e persino collaborazioni insolite quali quella con l’artista Maria Elena Carulli.
Nel disco non mancano tuttavia le sperimentazioni sonore, molto differenti da quelle effettuate negli anni ottanta da Steven Brown dei Tuxedomoon, ma altrettanto emozionanti, nonostante anche la diversità dei generi proposti dagli artisti.
Come scritto nel foglietto accluso al compact disc questo lavoro “è una somma di istinto e preparazione”, composto da tredici tracce totalmente arrangiate in sala prove e improvvisate al momento della registrazione avvenuta presso gli studi della Protosound il 4 aprile 2011 sotto l’orecchio sempre attento e tendente alla perfezione dell’ingegnere del suono Domenico Pulsinelli.
“Echolocation” è interamente prodotto da Paolo Tocco e Giulio Berghella (fondatori della Protosound Polyproject e della Volume! Records).
E’ ora che l’Abruzzo musicale emerga anche a livello nazionale, e perché no, anche mondiale, e questo disco può essere l’esatto punto di partenza verso mete inimmaginabili in passato.

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NoMoreSpeech | NoMoreSpeech

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Attendevo con Anzia questo disco d’ esordio dei NoMoreSpeech; sentivo parlare tantissimo di loro, vuoi perché l’affascinante cantate, Alteria, è una conduttrice di Rock TV, vuoi perché due anni fa vinsero con il singolo “Picture Of Gold” il contest per l’ Heineken Jammin’ Festival,  l’ acclamato quartetto nel bene o nel male si è comunque messo sulla bocca di molti suscitando cosi una certa curiosità.

Adesso esordiscono ufficialmente con un omonimo che ha tutte le carte in regola per rivelarsi uno dei lavori migliori tra le band Underground.  Il disco è un concentrato di Rock basato su massicci e veloci riff, un pulsante basso ed una batteria che mantiene un eccezionale ritmo; a tutto questo aggiungeteci  la voce rivelazione di Alteria, che riesce a passare da un cantato in screaming ad uno più candido e pulito. I NoMoreSpeech sono molto probabilmente l’ anello di congiunzione tra i Distillers, Juliette Lewis e gli Arch Enemy, questo per dirvi che nel loro nuovo disco trovate di tutto: rabbia, aggressività ma anche sensualità e dolcezza . Tracce che sicuramente faranno gola oltre al famoso singolo “Picture Of Gold” , sono:  “Think Or Feel”, “Stronger”, “Screaming For Nothing” e la stramba “Void”, in quest’ ultima si comprende di che pasta è fatta Alteria, a parer di chi scrive è la song che più mette in mostra le qualità della singer. Il gruppo milanese ad ogni modo ha ottime capacità, ci siamo soffermati  su Alteria ma dobbiamo riconoscere anche la bravura di Tony, Nando e Roberto.  I NoMoreSpeech hanno grandi potenzialità, il loro primo capitolo è riuscito alla grande, non resta che gustarselo, sperando nel frattempo, ad un secondo lavoro che ci faccia Rockeggiare come questo.

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Paolo Andreoni & Bussuku Bang!– Un nome che sia vento

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Cantautorato fine, musiche aperte e senza presunzioni, Africa e notti perplesse, esistenze e desideri da afferrare al volo; questo è il chiaro concetto ed il succo del nostro incontro con il nuovo disco del cantautore bergamasco Paolo Andreoni, “Un nome che sia vento”, undici immaginazioni che – per non farsi sgamare – prendono strade diverse, si colorano di mille polverine e si traducono in un fremito che sposta il torpore per far posto ad un ascolto buonaccio.
E’ un registrato diretto, fedele alla nobile tradizione del “volare via con suoni e poesia”, di storie e parole importanti che esprimono idee e calori dreaming veri e virtuali;  si assiste – nonostante tutto – ad un girare musicalmente a random, alla ricerca di una vera identità stilistica, ma mettiamola pure sul conto che sia un girovagare a ricognizione su terreni dove finalmente atterrare e tirar su casa (come direbbe Roberto Ciotti), poi il destino tirerà somme e linee.

Disco di ballate agre sulle ombre liriche di Tenco e Lauzi,Dimentica”, “L’ultima parola”, “Il concerto”, la nuvoletta di passaggio targata 80’s che rilascia atmosfere wave alla GarboAmore, amore, amore”, “Dal carcere”, il pregevole macramè di corde e pathos De AndrèianoUn nome che sia vento”, ottimo il fil rouge acustico che lega mediterraneità, blues piccanti e lidi “calienti” “Sol maior para comandante”, ma il gioiellino che evidenziamo in finale è quello che poi capeggia in cima alla tracklist, sono quei settantatrè secondi di “La rèbellion”,  che ci scaraventano nel deserto del Mali, tra il blues sciamanico di Terakaft, Alì Farka Tourè e Sissoko e che per un battito di ciglia ci stordiscono e “tradiscono” circa la vera vena del disco in generale.

Ad ogni buon tornaconto un prodotto normale, c’è ancora molto da centrare come mira, buona la tecnica di Andreoni e del resto della band, per il momento facciamo andare un altro giro di repeat e proviamo a vedere nel futuro di quest’artista che ci ha fatto fare un piccolissimo tour sonoro – pur restando seduti sul divano –  in lontananza e nelle zone periferiche delle “musiche grandi” che stanno più in la.       

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Gentless3 + La Moncada – In The Kennel Vol.1

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Nel canile. O nella cuccia, a seconda della traduzione che preferite.
Non più il concetto di underground della musica emergente suonata in cantina, con quel retrogusto di orgogliosa ribellione al panorama mainstream o a quello indipendente delle comunque grandi distribuzioni, bensì un sapore amarognolo di emarginazione, di sottomissione e abbandono.
Sembra questa l’idea portata avanti dal trittico Noja Recordings, Blue Record Studio e Goat Man Records: un progetto di registrazione, promozione e distribuzione lontanissimo dagli stilemi del mercato.
“In The Kennel”, infatti, è tanto lontano dal marketing che non mira a lanciare una band in particolare, ma promuove la sinergia tra realtà musicali diverse, di tutta la penisola, chiamate a collaborare per la realizzazione di un riarrangiamento vicendevole dei loro brani.
Il primo volume di “In The Kennel” vede protagonisti i siciliani Gentless3, con le loro sonorità crepuscolari, se non addirittura notture, quasi oniriche, sospinte dall’organo e dal piano, e il post-rock più tradizionale dei piemontesi La Moncada.
Ok. Messa così sembra una manovra kamikaze dal punto di vista economico e anche artistico, visto che il risultato finale non sembra permetterci di capire nulla né di una band, né dell’altra.
Eppure ce n’è d’avanzo di pregio artistico nella capacità sinergica di mettersi in gioco e tirare fuori quattro tracce, due in italiano e due in inglese, omogenee per stile e intenzione, per riferimenti e sonorità.

Certo, bisogna dire che la buona volontà e la compattezza stilistica non sono gli unici aspetti che possono essere considerati. “In the kennel”, purtroppo, manca di verve, non ha presa.
“Rabbia killer”, in apertura, è decisamente più mesta di quanto il titolo possa far pensare, tutta incentrata su melodie ariose, tanto delle chitarre quanto del piano, e patisce la mancanza di una vera e propria apertura: il pezzo sta lì, non si muove mai dalle sensazioni placide dei primi secondi d’ascolto.
“Murmur”, non si discosta molto dalla precedente, ma, sarà per l’inglese, sarà per una cura più attenta a piccole note di colore, è caratterizzata da un’atmosfera più densa che trascina l’ascoltatore.
Non mi sento decisamente di dire lo stesso di “I numeri”: troppo già sentita, troppo permeata di quel gusto tipicamente nostrano per la rima e per il testo impegnato e programmaticamente polemico. Non si distingue per niente in particolare e, anzi, marca veramente una brusca caduta qualitativa nella raccolta.
Riuscita, invece, è “On busting the sound barrier”. Una bella cassa cardiaca e ipnotica, le chitarre emergono con elegante prepotenza, con un giro ripetitivo e dissonante che ci culla sulla voce roca e slittata in secondo piano, cui se ne aggiunge una seconda, parlata, sul finale: non romperà la barriera del suono, ma è un brano ben costruito, molto elaborato e decisamente pregevole per la cura effettistica.
Il progetto “In The Kennel”, per la sua originalità e per il grande merito di mettere in contatto e far reinventare artisti tanto diversi tra loro, è assolutamente rispettabile. C’è da sperare, però, che la seconda uscita, cui lavoreranno il duo Mombu e il cantautore Paolo Spaccamonti, sappia partorire qualcosa di più originale e soprattutto di più coinvolgente.

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Sea + Air – My Heart’s Sick Chord

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Daniel ed Eleni Benjamin, lui tedesco che canta e suona chitarra, batteria, campane e piatti ma non sa leggere la musica, lei greca,  voce e suona clavicembalo, batteria, organo bass pedal, sono compagni di vita e d’arte riuniti sotto il moniker “naturalistico” di Sea + Air e  arrivano al fatidico esordio con l’album “My heart’s sick chord” come fossero calati dentro una bolla di vetro, fauni di un folk-pop arieggiato, un cantautorato silvestre e boschivo che rammenta gli Arborea dei tempi migliori e gli afflati espansi degli Appalachi, ma anche una certa agevolezza sperimentale rock messa a confronto con liscive Seventies teutoniche (Popol Vuh) e stranezze  sfaccettate alla Flaming Lips; tredici tracce che movimentano un album suonato con quattro/cinque strumenti e che mette al centro anche un amore per il barocchismo Bachiano, il clavicembalo e artifici cromati abbaglianti.

Però come in tutte le cose, “il troppo stroppia”, troppa carne messa sul fuoco a cuocere, molte strade sonore che fanno perdere l’equilibrio stilistico dell’ascolto e che generano un complessivo musicale che corre subito via, che si dimentica facilmente e senza lasciare una traccia indelebile nella memoria; un disco che raccoglie movimenti orchestrali congelati dal tempo, coperti sì da una coperta tenera e morbida, ma che non hanno una precisa identità, caratteristica o tic contagiosi che li faccia fermare e rintracciare dal tasto repeat. Pop, sinfonismi, forme canzoni alla Ghostla titletrack”, i citati ArboreaMercy street”, “Safe from harm” il pop versato alla Sting “The sea after a storm”, “Do animal cry? , i sintomi elettrici dei Flaming LipsYeah I know” e quelle tubolarità soft ottime per spot pubblicitari di dolcezze o affini “Ist life”.

Il duo di Stoccarda degli Sea + Air iniziano bene questo loro primo progetto ma poi si perdono in mille rivoli, nelle mille intrecciate arterie che non fanno altro che confondere il vero intento della loro prestanza sonica, forse è la necessità di dare tutto e subito, ma facendo così Mare + Aria non hanno mai fatto = Fuoco. 

Un disco a metà aspettando tempi migliori.

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The Marigold – Let the Sun

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Ho sempre avuto un legame speciale con il sound dei The Marigold, quella cupezza dark wave figlia dei miei insistenti ascolti, un amore sincero al quale non posso tirarmi indietro. E non lo farò di certo adesso. Non li ho mai cercati in verità, sono arrivati a rendere omaggio al genere più suggestivo del mondo. Io li amo per questo. Dopo tre dischi elogiati dalla critica e non solo, i The Marigold decidono di ristampare il loro pezzo forte Tajga (terzo album) accompagnato da un EP Let the Sun in collaborazione con Alessandra Gismondi presa in prestito dai Pitch, una nuvola nera inizia lentamente a coprire il cielo. Poi la pioggia.
Quattro pezzi, l’inedito Let the Sun e tre brani ripresi dalle ultime live performance della band, Degrees, Exemple de Violence e Erotomania, tutto ancora fuori per Deambula Records / Acid Cobra. Ho perso il sapore della primavera fresca d’ingresso durante gli ascolti dell’EP dove Let the Sun sarà per la novità, sarà per la bellezza riesce a cambiare la stagione del mio umore mettendolo a proprio agio con la persona che effettivamente vorrei essere, non afferro mai il vortice delle chitarre, le voci si mischiano in un mix di dolore e piacere. Tanti sussurri scavano solchi indescrivibili. Poesia del genere. Ritmica forsennata.

Oggi non ho voglia di piangere, mi trattengo, devo uscire. Poi avanzo con i brani live, poca la differenza con le studio version, lo spessore che divide i The Marigold dalle altre band inizia ad alzarsi parecchio, niente è per caso, alla fine tutti i nodi vengono inevitabilmente al pettine. Un Requiem dark inneggiante alla musica “sincera” dove i The Marigold giocano un ruolo fondamentale tra sacro e profano, musicisti e musicanti di questo nuovo tassello della sempre più importante new wave italiana. Siamo tutti malati, cerchiamo una cura. Sarà magari questa?
Stiamo a guardare, in fondo non ha mai venduto un cazzo la new wave.

 

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Rossella Scarano – Guardando Fuori

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C’è poco da fare, buttiamo pure in pattumiera l’immagine del cantautore barbuto, pieno di banali vizi (ma che addosso a lui fanno stile), seduto sulla sua sgangherata sedia di paglia e con in mano una ancora più sgangherata chitarra acustica. Dimentichiamoci la figura della cantante con il vestito lungo e stretto con addosso l’ancora più stretto ruolo di interprete. Tutte a dar voce a poeti maledetti ispirati da troppo Lambrusco o da troppo sapore di mare.

Basta. In Italia, oggi (più di ieri), le donne scrivono canzoni, e hanno le palle di andare su un palco con chitarra legata con lo spago e magari anche un bel tacco dodici. La canzone italiana è sexy. E ci piovono addosso dolci pulzelle che sanno parlare dei loro sentimenti a cuore aperto, tenendo testa ai vari cantastorie di periferia, persi tra troppe letture del Manifesto e troppo tabacco che straborda da piccole sigarette girate.
Tra le tante “nuove proposte”, ho recentemente scoperto Erica Mou (l’unica ad avermi realmente stupito a Sanremo 2012), Elisa Casile (dalle terre astigiane) e la fanciulla in questione: Rossella Scarano.
Rossella ha origini napoletane ed è alla sua prima vera fatica discografica. Uscito da poche settimane “Guardando Fuori” pare stia riscuotendo già un buon successo.

La menestrella infatti sa sedurre, bilanciando bene questo suo charme tra poesia e chitarre elettriche, tra parole crude e soffici carezze, tra ugole d’oltreoceano (Ani DiFranco su tutte) e strade già più volte battute da maestre come Paola Turci e Cristina Donà.
“Tu chiamale se vuoi, emozioni” si diceva. Grande dote ha la fanciulla, la melodia segue sempre per filo e per segno il mood delle canzoni. Rossella è grande domatrice di voce e di sentimenti e riesce a governare con grande maestria questi due cavalli irrequieti. Forte e determinata sul soffice substrato musicale de “La cattiveria”, qui la canzone fa male tanto è schietta. E poi introspettiva e intesa nella title track: “Guardando Fuori” ci accorgiamo che tutto è leggero, e il peso relativo del macigno che ci portiamo dentro aumenta un pochino.

I cavalli però partono un po’ per la tangente quando la loro domatrice azzarda spunti più rockeggianti come nella filosofeggiante “Friedrich” (ispirata alla “Genealogia della Morale” di Nietzsche). Qui l’inglese rabbioso pare una forzatura e non si sposa troppo con le sue dolci parvenze. Il cambio di lingua si rivaluta poco dopo nella inaspettata ballata “Insensitive” che si barcamena tra melodia strappamutante (ricorda in alcuni tratti le grandi hit al pianoforte di Adele) e un allegro jazz da film di Charlie Chaplin.

Il sipario poi si chiude con la cover chitarra e voce di “Glory Box” dei Portishead, completamente spogliata dell’alone trip-hop e prepotentemente intensificata nella melodia.
Dirò una banalità, ma per me il primo teorema del pop è: spoglia una canzone di tutto, se è ancora meravigliosa è una grande canzone pop. Insieme a questo ultimo episodio in cui Rossella ha giocato facile, in questo album le canzoni sono molto spesso nude e crude, prive di inutili abbellimenti e soddisfano così pienamente il primo teorema.
Cari maschietti, la quota rosa sta aumentando. Sfregatevi per bene la barba e cercate nella salsedine o in nuovi inserti del Manifesto qualche idea che non sia la solita agonizzante minestra riscaldata di De Gregori, Guccini e Rino Gaetano.

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The Churchill Outfit – The Churchill Outfit

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Cosa c’è di più delizioso del viaggio, della rivelazione di mondi ignoti, esperienze spirituali e artistiche diverse, paesi seducenti, persone scombinate? Non c’è niente che ricarichi l’anima più di una partenza. Il problema è che non è cosi semplice farlo. Pochi soldi, poco tempo. Ma noi abbiamo un pianeta intero dentro la nostra coscienza. Non serve necessariamente salire su un aereo, una nave o quello che volete per percorrere chilometri. Basta inabissarsi in se stessi. La rogna è trovare il mezzo. Perché quelle immense distese nel nostro subconscio sono meno vicine di quanto immagini. Prima di riuscire a raggiungere la meta, senza il giusto trasporto, dovrete passarne di giornate ai confini del deserto. Eppure ci sono dei trucchi, per non sbagliare strada e andare in quel luogo fantastico. Per prima cosa svuotate la testa. Fate che sia più leggera dei vostri sensi. Ora lasciate partire l’omonimo dei The Churchill Outfit. “Tongue Like a Trigger”. Cominciate a sentire la vostra lingua danzare nella bocca. Tutt’intorno, particelle multicolori prima impercettibili vi girano da ogni parte. Niente vi potrà far del male. Ora siete soli col tempo che balla nello spazio. False forbici tagliano stagioni che diventano mari. Voi ne uscirete vivi. Riuscite ancora a vedere la copertina del disco poggiata davanti a voi? Vedete quell’uomo, quel cielo, quegli uccelli, quelle montagne, quella gente? Ora che siete calmi cominciate a correre lontano da quello che è il mondo fuori. “Vegetables” è parte del mezzo ipnotico, scegliete voi quello fisico. Rubate una moto, lanciatevi in un tubo, sparatevi da un cannone ma scappate verso di voi. Siete dentro ora. Iniziate a venerare il vostro cane. “Calypso”. Se avete fatto quello che vi ho detto, non vedrete orrori o altre immagini spaventose ma solo musica viva e danzante in una hall multicolore e calda come mille abbracci. Sai cosa sta succedendo. Dove si va? “Faceless”. Attraversa quel corridoio di gente senza volto.

Continua a nuotare verso la luce. Loro sono come eroina nelle tue vene stanche. “A Thousand Miles Away”. Manca un migliaio di miglia ancora. Goditi lo spettacolo del mare cangiante sotto un sole nero e splendente di luce accecante e di un colore mai visto prima. Rilassati e continua a volare. Ricordi come eri felice? Sei libero. “Kaleidoscopic”.  Riesci a specchiarti nel cielo. Vedi mutare la tua forma e cambiare il tuo colore a ogni ascolto. Fluttua nel vuoto e non chiudere gli occhi. Senti le luci profumate a ogni tua carezza. Ogni loro sospiro ti riempie l’anima. Non potrà cadere a pezzi. “Love. More. Uh”. Sei nel luogo che cercavi. L’amore oltre l’amore fisico. Tutto è amore intorno a te. Tutto quello che non sapevi prima di sapere, ora prende forma. Lei invece non sa che non tornerà. “Scarlet Green”.  È giunto il tempo ora. Vattene da lì prima che tutto diventi troppo. Ora hai imparato a essere un essere migliore. Segui il bagliore scarlatto della musica. Guarda la tua vita sfiorarti come un velo. Non darti spiegazioni. Questo è il tuo minuscolo pezzo di paradiso artificiale che ti mette al sicuro dal male. “Something to Hide”. Sei fuori, quasi. Ora hai qualcosa da nascondere. Qualcosa da custodire che non morirà mai e mai nessuna potrà vedere. Riprendi possesso della tua mente e delle tue percezioni. La vita fuori è una merda. Ora che il Cd è finito possiamo tornare sulla terra e parlare del disco e della band bresciana The Churchill Outfit. I cinque giovanissimi hanno all’attivo l’Ep “In Dark Times” per l’etichetta Produzioni Dada e diverse apparizioni live cominciano a rendere il nome della band noto a testate importanti e quindi al circuito indie. Questo permette loro di aprire per artisti di maggiore fama come 24 Grana e Zen Circus alla Festa di Radio Onda d’Urto. Fino a quando, questa estate i tCO decidono di tornare in studio con Fausto Zanardelli (Edipo) per mettere insieme i nove pezzi che imparerete ad amare. Come avrete capito il risultato è qualcosa di notevole. I tCO riescono a proporre in maniera efficace e credibile quel sound tipico della scuola neopsichedelica nord americana.  Mettono insieme quello che resta delle allucinazioni degli anni sessanta e settanta, quella de i mostri sacri The Beatles, The Doors, Jimi Hendrix, Love, The Zombies, Pink Floyd, Jefferson Airplane, XTC, Spiritualized, The Pretty Things. Partono da qui e riempiono le intercapedini del tempo con l’indie rock e il folk/blues più potente e intimo (la ballata “Love.More.Uh” ad esempio), acido (“Faceless” e “Scarlet Green”) e fresco (“Something to Hide”) dei nostri giorni. Quello a un passo dal garage revival dei The Raconteurs o Arctic Monkeys. Il risultato è una Neo Psychedelia (evidente in tutta l’opera ma soprattutto in un brano come “Kaleidoscopic”) distante dalle sperimentazioni dei Flaming Lips, senza il pesante apporto dell’elettronica come negli Animal Collective, e poco paragonabile allo space rock di scuola Spaceman 3.

Il risultato è più che altro molto simile a quello raggiunto da The Black Angels, band texana capitanata da Christian Bland, in giro da metà anni zero e autrice già di almeno una pietra miliare nel genere. O anche The Warlocks anch’essi statunitensi.  In alcuni passaggi la potenza del sound unito alla vena lisergica ricorda anche quel tipo di psichedelia più vicina allo Stoner Rock, Acid Rock o Heavy Psych dei come sempre americani, Dead Meadow, ma è comunque la matrice Indie Rock, Folk Rock, Garage Rock Revival a farla da padrone in stile The Brian Jonestown Massacre (USA? Yes man!). Intanto, prima di riascoltare, è già amore per “Scarlet Green”. Anche solo per questo c’è da dire grazie.

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Giulio Casale – Dalla parte del torto

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Nel ritorno sulle scene musicali di Giulio Casale – l’ex voce degli Estra – l’ossessione di ritrovarsi nel cerchio del rock è forte; dopo molteplici esperienze nel teatro ed in altri paraggi artistici, la voglia di tornare a rapportarsi con la musica mischiandola con le lezioni di Gaber o della Fernanda Pivano è diventata per lui l’esigenza primaria per urlare tutta l’estetica del suo animo inquieto, di quella sua poetica ancora tutta da esprimere per raccontare, raccontarsi e svenarsi in un disco “Dalla parte del torto” che porta sulle note di copertina “dodici pezzi socialmente sensibili” e nello spirito musicale Bertold Brecht ed i pensieri non allineati della letteratura.

Un disco strano, a due livelli, il rock e il vezzo cantautorale appunto affiliabile al Maestro Gaber, della sua verve oltranzista emancipata e della poetica contro, tracce gravide di sentimenti che però non cedono al sentimentalismo, tracce che espandono similitudini ed interiorità a strani Nick Drake, Cave, per arrivare addirittura a Tenco e che iniettano un senso di instabilità poetica e sociale che si rizza sulla tracklist come una scossa elettrica improvvisa; fuori da logiche commerciali , il disco del rockers trevigiano si vuole riappropriare della vera scrittura musicale per definire e avvertire del tramonto della Società Occidentale e per tornare a far parlare quell’artigianato artistico che oramai non circola più, morto e sepolto da tempo.

Si diceva esigenza, ed eccola qui, intera e forte nei confini delle notti CelinianeLa febbre”, leggiadra nelle aerazioni GaberianeLa mistificazione”, “Un’ossessione”, “Fine”,  profonda nelle ombre di TencoSenza direzione” o delicatamente magica nelle rimembranze di un Battiato eccelso in “Magic shop” dove riecheggiano gli Hare Hare a mille lire, Cuccuruccucù Paloma e gli incensi di Dior.

Un disco ripeto, strano, ma la stranezza è la cosa più vera che possa esistere e se ti senti anche te dalla parte del torto ascolta queste canzoni ed il torto sarà la parte più accecante della ragione.     

Bentornato Giulio.    

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