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Brunori Sas – E’ Nata Una Star?

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Chi meglio di Dario Brunori poteva redigere la colonna sonora di una pellicola intitolata “E’ Nata Una Star?”? La grande speranza meridionale ormai può dirsi una stella, almeno nella concezione tipica dell’indie cantautorale tricolore. Riempie i concerti, collabora con altri artisti, viene sullodato e nominato ovunque. Di cosa vogliamo parlare, allora? Non del nostro Dario, visto che davvero è impossibile non averne fatto la conoscenza.

Del film e delle canzoni quindi. Che ne dite? “È Nata una Star?”, che per ora non ho ancora visto, è diretto da Lucio Pellegrini (“E Allora Mambo”, “Figli delle Stelle”) ed è tratto dall’ultimo libro di Nick Hornby. Avete capito bene. Proprio quell’inglese che ci aveva fatto sognare pennellando le nostre passioni più romanticamente infantili. Il calcio (“Febbre a 90°”) e la musica (“Alta Fedeltà”). Questo soprattutto ma non solo.  Quello che ci racconta ora è la storia intelligente e ironica (nel tipico stile del londinese), di una famiglia che scopre le doti erotiche nascoste del figlio tardo adolescente palesarsi nel porno da Vhs. Acume e umorismo dunque nella sceneggiatura. Chi in Italia riesce a unire queste qualità nella musica meglio di Brunori? Della pellicola abbiamo praticamente detto tutto (dimenticavo di aggiungere che la storia è impersonata da Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto) quello che si può dire di un film senza averlo visto e tutto quello che una webzine di musica dovrebbe dirvi sul cinema. Passiamo al disco. Per prima cosa chiariamo che non si tratta di una riproposizione di brani del calabrese già presenti nei due volumi precedenti. Quasi tutte le tracce sono cosa nuova (esclusa la bellissima “Fra Milioni di Stelle”) e agli undici brani originali targati Brunori Sas vanno aggiunte altre sei perle strumentali confezionate da Gabriele Roberto e due bonus track, “Sono Come Tu Mi Vuoi” versione Summit Studio e “Hot and Bothered (D. Ellington) ” in chiave Ap Beat. Che cosa lega quindi la storia di Hornby alle novelle che ci racconta Brunori? Apparentemente niente, o quasi. Escluse le pause strumentali, che qui abbondano anche a nome Brunori Sas (simpatica “Melodia a me” che sembra la colonna sonora di un matrimonio), le parole ci raccontano altre cronache che finiscono per vivere da sole senza la stampella della visione (probabilmente il momento più cinematografico è rappresentato da “Porno ‘82”. Qui la musica di Brunori si trasforma in maniera incredibile e probabilmente senza uno sbocco futurreale. Inoltre il brano non ha niente a che vedere con “Guardia ‘82” come lo conoscete, tranne che per la citazione del titolo). Come un bardo beffardo, il cosentino barcolla per la sua strada e ci racconta i piccoli mondi moderni che s’intravedono ai bordi del marciapiede. Amore disilluso (“Amore con Riserva”), confessioni tristi e ubriache (“L’Asino e il Leone”), la gioia della vita sofferta, dura, sogghignante. I ricordi degli anni ottanta che tanto hanno fatto amare Brunori a chi come me è cresciuto in quel decennio, è veloce e fugace e meno diretto rispetto agli esordi. Stavolta basta una parola, un Cynar o una Sambuca, per ricordare nostalgici passati passati insieme. Brunori è una star e sta facendo i conti col suo destino. Sempre melodie accattivanti, immediate (meno del passato, a essere sinceri), pungenti come le sue parole, più delle sue parole, ora più misurate visto il contesto. La struttura della colonna sonora appare già al primo ascolto molto più frastagliata del solito.

Se, in Vol. 1 soprattutto e in Vol. 2, si riusciva quasi a vedere un filo legare il primo e l’ultimo brano, ora quel filo manca o meglio è più difficile da scovare e questo finisce per dare al tutto una maggiore profondità pur nel consueto direct style di Brunori. Stile che da ora sembra sempre più qualcosa di personale, lontano dai rimandi a Gaetano (ricordate “Rosa”?), De Gregori o Bennato. Brunori continua a raccontarci la banale consuetudine senza banalità e soprattutto senza facili scorciatoie. Ancora una volta Brunori ci mette di fronte a noi stessi, nudi davanti alla nostra anima. E tutto intorno diventa un sogno danzante su note di piano soffuse. Stavolta ai bordi della strada Brunori non ha incontrato nessun povero Crito se non proprio te che te ne stai a piangere e ridere seduto al tavolo di un bar col tuo bicchiere in mano fino alle nove di sera. Brunori riesce ancora una volta a incarnare il ritorno del pop cantautorale italiano più classico aggiungendo un pizzico di neve che suona poesia e in questo trionfo dell’apparire chiamata Italia, non può che far bene al cuore. Detto questo non resta che entrare da protagonisti nella favola. Detto questo, non posso che confessarvi l’essermi trovato di fronte ad un buon lavoro, se messo in contrapposizione all’opera di Papaleo e Littizzetto che non si presenta (“non si presenta”! Non cominciate a dirmi che non si critica un film senza prima, prima vederlo) certo come una gemma della moderna cinematografia italiana (vista la simpatia per Hornby, spero di sbagliarmi di grosso). Ovviamente, resta da verificare quanto riesca a essere funzionale e in sintonia con l’opera visiva di Pellegrini. Tuttavia, al di fuori del legame con la pellicola, Brunori riesce comunque a realizzare un lavoro invidiabile (da tanti), che pur aggiungendo poco, in termini d’innovazione e crescita, al percorso artistico del cosentino, in ogni caso rappresenta un altro solido mattone nel muro solido della sua carriera sempre più vigorosa. Dove scema l’immediatezza (poche effettivamente le melodie di facile memorizzazione) vive lo stesso una scintilla scagliata già in Vol. 1 e luccicante ancora nella mezzanotte di Vol. 2. I brani non deluderanno i seguaci veri (forse i fan da “pezzo”, si! Quelli che di Sas conoscono esclusivamente “Guardia ’82” o “Italian Dandy”) e forse accresceranno il numero di estimatori. Se solo il cinema (il film, meglio) riuscisse a dare ancora più magia alle canzoni, all’immaginario. Se solo riuscisse ad aumentarne la portata seduttiva, allora potremmo veramente sognare. Fin qui c’è Brunori. La seconda parte dell’ album è, invece, in mano al compositore Gabriele Roberto. E la faccenda cambia. A dispetto di titoli quali “Il Duello”, “Videochat” o “L’Edicola”, i sei brani sono prettamente strumentali erappresentano un elegante modern classical vivido e affascinante che (non è detto che non) riuscirà ad acquistare maggiore forza espressiva o meglio a indirizzare in maggior misura l’emozionalità delle note, con l’aiuto delle immagini. I pezzi, brevissimi, sono scritti per una colonna sonora e la cosa suona evidente. Le note fluttuano come spire di fumo pronte a essere ingoiate in un unico respiro nel momento in cui le forme prenderanno vita. Qundo vista e udito avranno una sola anima. E alla fine arriva Duke Ellington a ricordarmi che suonare il “bop” è come giocare a Scarabeo senza vocali. Cosi io me ne vado al bar a ingollare Peroni con un tipo senza baffi che mi sembra di conoscere, insieme con quel sorriso amaro che solo i grandi sanno profondere.

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Heike Has The Giggles – Crowd Surfing

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Insospettabile! Nel Ravennate cova una forza motrice non indifferente alle sollecitazioni punkyes dal tipico sapore di chewingum masticato con stizza: nome Jeike Has The Giggles, prodotto “Crowd Surfing”, undici piste che mirano “ad allontanare i giorni bui dei cattivi auspici” con un sound che scalda e che entra nello stomaco come fosse un enzima elettrico pronto e scattante per digestioni lente  e ascolti impennati.

Il trio s’innesta subito tra le migliori rivelazioni della scena underground che possa ambire, in men che si dica, a palchi e attenzioni internazionali, producono un suono ultratatuato e shufflleizzato e quell’elettricità fun che – se consideriamo questo disco come terza prova discografica  e la prima con la Foolica – potrebbe diventare il classico “terzo rito” di passaggio per la maturità istantanea, per quella liberatoria guadagnata sul campo senza tante manfrine e con molte coccarde di live-set al bavero; canzoni, pezzi, melodie veloci, a presa rapida, radiofoniche e nervose il giusto, soundtrack speed  per disillusioni generazionali, silenzi e mutismi giovani, rabbie girovaghe che non arrecano danni fisici ma solo violacee ecchimosi all’anima ed al cuoricino pimpante di fregature.

Punkyes da atmosfere sfigate, carico e distorto nelle ossessioni che Emanuela Drei  voce e chitarra, Guido Casadio batteria e Matteo Grandi al basso guidano con voracità e sicurezza scalmanata fin dentro i più reconditi interstizi di woofer e casse stereo, sviluppando una manciata di minuti di piccole perline di vero piacere musicale; un disco che vive d’intensità e leggerezza, senza impegni e con le disinvolture californiane dell’urgenza come marchio di fabbrica impresso ovunque, tracce che non sono frutti Copernichiani, ma un modo per ritmare una mezz’oretta di una giornata qualsiasi, ottime come alibi perfetto per scaricare incazzature e palle che hanno preso la fisionomia di cocomeri.

Da “I wish I was cool” a “M.Gondry”, passando per “Next time” e “Time waster” fino al capolinea di “We all” e “I don’t know” è tutta una tensione “gentile” che da la scossa senza mai folgorare, incorniciando di un dolce pensiero una foto delle Dum Dum Girls, un bel poster a colori delle Elastica e la frenesia che la stupenda voce di Emanuela ci infetta come un virus a medio termine.  

 

 

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Mario Cottarelli – Una strana commedia

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Si chiama “Una strana commedia” ed è l’ultimo lavoro di Mario Cottarelli. Una produzione giunta a quattro anni di distanza da “Prodigiosa macchina” per regalarci un universo sonoro più accattivante ed orecchiabile. Il disco apre bene con il pezzo di circa 10 minuti che è anche il titolo del nuovo lavoro. Un intro sorprendente, in grado di trascinarti nel vortice tipico delle sonorità progressive. Poi, nei minuti successivi, si sente netta l’influenza dei mitici Jethro Tull. Una chicca per appassionati. Segue “L’occhio del ciclone”, mix esplosivo di alti e bassi ben orchestrati, tra i quali, spuntano tastiere taglienti tipiche del genere. Il terzo pezzo, “Corto circuito”, nei testi, richiama le tematiche ascoltate in “Pensiero dominante”, ma questa volta, il ritmo è molto più incalzante, notevoli anche gli intermezzi di chitarra distorta. Più vicina alle tendenze pop o comunque meno infarcita di sonorità progressive, la quarta traccia, “Bianca scia”. Chiude il lavoro, un pezzo più fresco e giocoso “L’orgoglio di Arlecchino”, un brano di 12 minuti strumentali che regalano anche qualche sorriso. Un gesto spontaneo nato dalle strane alchimie della musica di Cottarelli che appunto, descrive con le note – ditemi voi se questa non è una dote – una delle maschere più amate del carnevale. Sullo sfondo resta un lavoro degno e complesso, decisamente dedicato anche agli appassionati del genere, che fa onore alle grandi capacità di composizione di Cottarelli. Non solo, mentre ascoltavo, mi è venuto più volte in mente che questo disco, come altri dell’artista cremonese, potrebbe diventare ancora più incisivo, se i brani venissero liberati dei limiti del sintetizzatore e venissero eseguiti da musicisti singoli. Suonatori dotati di strumenti veri e soprattutto, di carattere musicale, per lo meno, come quello di Cottarelli. Insieme, per imboccare una versione “live”, di questo e degli altri lavori. Un invito senza pretese, ma che spero venga accolto.

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Fra Diavolo – Armando sta crescendo

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Andrea Calabrò è Fra Diavolo, cantautore torinese ma anche un Minipimer sonoro che trita, fonde e confeziona musiche differenti, liriche urbane e spaccia simpatia malandrina lungo la tracklist che regge il suo disco “Armando sta crescendo”, tracce insolenti, tirate avanti con quella moviola oziosa dei cantautori latinos, una via di mezzo tra Davide Riondino e Vittorio Cane che danzano a cadenza sbilenca in questa piccola opera avvolta da un suo fascino stazzonato e precariamente cool.
Lontano dal caos e dall’arrivismo, il disco ha una sua movenza tutta particolare, lenta, da serata avvinazzata in compagnia d’amici tiratardi dove anche gatti di passaggio si fermano ad ascoltare, quella calura tranquilla e da storyteller di quartiere dove tutti sanno di tutto e viceversa e dove Fra Diavolo mescola le sue ottime carte cantautorati di una morbidezza corrosiva.

Trombe in sordina, jazzy, ancheggiamenti carribean, folk urbano e poesia malconcia sono le molteplici identità di quest’album, girovago per passione e girovagante per professione, un sentimento apparentemente compagnone ma nel profondo solitario e amaro ma anche di riscatto nei retrogusti anni sessanta alla Fred BuongustoBallata di un insetto”, poi arriva la carica latin carrettera “Cavoli”, l’intro Motowniano di “Il sogno di Max” che anticipa il dondolio reggae di “Nocciolina”, il samba cittadino di “Lamento a Manhattan” o il suono clubbing dell’epoca del proibizionismo che scivola e gattona ubriaco tra le note slow di “Nottetempo” a lucidare di benessere l’ascolto totale del registrato e quello di uno stato d’animo su di giri che queste storie capovolte, isosceli, di tutti i giorni ti appendono come una mutanda sul filo di un raggio di sole stordito.

Fra Diavolo con la sua chitarra e il suo “brigantaggio” sonoro è un punto di forza tra musica e sogno, quella nostalgica trasversalità retrò che frequenta i lettori ottici stereo con la freschezza di una rosa dentro un “bicerin”.

 

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My Speaking Shoes – Holy Stuff

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Ho sempre avuto un rapporto molto difficile con le voci femminili, soprattutto nel rock.

Escluse leggende del passato come Patti Smith e Janis Joplin, non sono mai riuscito a fare mia la rabbia di una seppur potentissima ugola rosa, anzi a volte la vedo come una minaccia dall’esterno. Forse provo semplicemente timore alle strilla di una fanciulla incarognita, impersonando in lei una mia pseudo-fidanzata che mi scaraventa addosso un set di piatti in ceramica per aver dimenticato la festa di compleanno del suo adorato chiwawa obeso in cambio di una serata con la mia cumpa ad un alcolico cineforum sui polizziotteschi di Tomas Milian.
Così quando approccio i My Speaking Shoes, parto molto spaventato dallo sguardo inquieto disegnato in copertina della vocalist Camilla e mi aspetto già la sua strillante gola franarmi rovinosamente addosso. E in effetti, così è.

Ma a parte le mie tare da psiconanalisi, il risultato (mi) fa paura. Già dal primo impatto è una bomba. Ma non una bomba a orologeria, di quelle che devi aspettare un bel po’ prima dell’esplosione. “Holy Stuff”, disco d’esordio dei ragazzi di Sassuolo, è una bomba atomica: appena tocca il suolo è devasto puro. Tutto e subito. Rock aggressivo e femmineo, leonessa che va a caccia per la sopravvivenza.
La band suona alla grande già dalle iniziali “Mushroom Head” e “Flies”, dove si intravedono dallo spioncino di una porta insonorizzata le innumerevoli ore di rabbia e repressione sfogata in sala prove. E avevo ragione, c’è da avere paura, la voce di Camilla (pronuncia a parte) tiene testa ad Anouk e alla tedescona Sandra Nasic (Guano Apes). Donna con le palle insomma. Di quelle che se la fai incazzare ti tira dietro pure il set di coltelli, altro che piatti in ceramica.
Il disco è registrato alla grandissima: basso che pompa ovunque come nella migliore tradizione alternative-rock americana, chitarre arricchite da suoni mai banali (non il solito “gh-gh” dei nu-metallusi californiani), batteria che corre veloce come la gazzella che prova a scappare dalla furia della leonessa. Produzione splendida, con una band che sa essere sufficientemente pop e allo stesso tempo sa jammare fregandosene degli schemi imposti dalle canzoni per Twilight.

Sfido chiunque approcci alla band a non trovare una somiglianza con le varie band per ragazzini cicciottelli lobotomizzati da MTV. Dai l’abbiamo notato tutti appena vista una loro foto. Non me ne vogliate cari My Speaking Shoes ma a mio avviso siete un po’ i Paramore “de noantri” (e non c’è niente di male dai!), e la conferma arriva nella geniale (il testo soprattutto) “L.O.V.E. Song”, squarcio più rilassato in un panorama frenetico, nervoso e ossessivo.
Un (altro) difetto? Troppi brani, troppa monotonia nelle corde vocali e nelle melodie. Troppa carne al fuoco insomma per un genere già molto monocromatico in cui reputo veramente difficile suonare coloriti. I ragazzi in ogni caso, propongono una formula solida ma ancora un po’ statica, che non spicca in fantasia.
Però non facciamo i pignoli, “Holy Stuff” è un gran bel prodotto ma per far entrare la loro quota rosa nelle “sacre scritture” i ragazzi di Sassuolo devono ancora predicare molto il rabbioso verbo.

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The PseudoSurfers – The PseudoSurfers EP

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In una canzone le parole sono fondamentali quanto la musica.
Di più, molto probabilmente, perché sono quelle che immediatamente ci comunicano un messaggio, sembrano chiarire il senso di tutte quelle note suonate e cantate, di quei colpi di batteria, di certi tocchi. Da sempre, il mio primo ascolto di un brano è dedicato tutto alla comprensione del testo, il resto viene dopo. A confermarmi o smentirmi le impressioni precedenti.
Per questo ho sempre diffidato di gruppi che tendono a fare della voce un mero strumento al pari degli altri, usandone solo il potere fonico e non badando al contenuto, limitandola allo sfondo del brano e facendola sopraffare dalla musica.
Ed è per questo motivo che The PseudoSurfers, progetto del compositore romano Enrico M. che dal 2011 si avvale della collaborazione della bassista Silvia S., col suo omonimo Ep, stava per esser liquidato all’ascolto di Jungles of Iran, che apre il cd con una risata sguaiata, improvvisa, che poco c’entra con le subitanee atmosfere distorte e chitarrose, che ci portano, su un giro piuttosto semplice ma dal ritmo incalzante magistralmente scandito dal basso, alla ripetizione ossessiva delle parole, le uniche veramente (e finalmente!) comprensibili, “Non mi muovo più da qui”.
Sonorità veramente lontane (e decidete voi se è un bene o un male) dalle più recenti e ben confezionate produzioni sedicenti indie, per quanto The PseudoSurfers si meriti tutta questa etichetta nella sua reale accezione: un brusio costante in sottofondo, che richiama subito la psichedelia di fine anni ’80, a cui vanno aggiunte la voce calda, ariosa e roca (sempre incomprensibile!) e una cura maniacale alla ricerca del rumore, un po’ in stile Verdena o Marlene Kuntz con Dan Solo.

E allora la musica ci è piaciuta, quel finto ritornello (perché compare solo alla fine) ci rimbomba ancora in testa, ci siamo dimenticati del nostro insoddisfatto feticcio letterario per i testi e possiamo passare a 1664, che prosegue dritta per la strada spianata dalla traccia precedente, col basso quasi protogrunge, semplice, diretto, rotondo e scanzonato (con un richiamo quasi immediato ai The Vaselines). Semantics, col tema principale alle tastiere, ci avvisa che qualcosa sta per cambiare: le armonie si complicano, lasciando emergere la preparazione classica di base e l’ispirazione post-tonale, e per quanto il buzz sia immancabile, viene coperto da brevissimi incisi di chitarre eteree.
Che Enrico e Silvia siano cresciuti a Sonic Youth e My bloody Valentines, qui, è inequivocabile.
È però all’avvio di Space, la ballad immancabile in un sample come questo, che il duo abbandona completamente l’influenza post-punk e si macchia di una vena pop che proprio non riesce a sposarsi col resto dell’Ep, specie considerando la prosecuzione in Irrotational, traccia di chiusura, coi suoi oltre quattro minuti di sperimentazione esclusivamente e squisitamente strumentale. Ritorna il noise, ritorna la chitarra a farla da padrona. La voce tace e neanche ce n’eravamo accorti.
A differenza dei brani precedenti, però, questo sembra guardare più ai 2000, alla Treefingers dei Radiohead di KidA, ma soprattutto ai Mogwai. Si carica di una maturità musicale e di una serietà che davvero stona con le prime due canzoni, tanto da sembrare posticcia.
Un’inversione di tendenza, quella delle ultime due tracce e mezza, che lascia l’ascoltatore decisamente spiazzato. The PseudoSufers è un Ep e come tale deve mostrarci un po’ tutto quello che la formazione sa fare, ma un po’ di omogeneità in più, specie negli intenti, sarebbe stata decisamente più gradita.
L’impressione che lascia è che il duo, le cui abilità tecniche sono indiscutibili, non abbia ancora tanto le idee chiare su dove voglia andare: un vero peccato.

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Kubark | Ulysses

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Questi sono una vera  rivelazione, proprio loro i Kubark, un quartetto dedito ad un Rock sperimentale che miscela Stoner ed Elettronica. Marco, Elia, Enrico e Federico si fanno sentire con “Ulysses”,il nuovissimo disco intitolato cosi perché nel profondo dell’ anima i ragazzi con e per la loro quotidianità, un po’ come tutti noi, si sentono degli eroi. Un paragone giusto che dovremo sentire tutti  proprio per le continue sfide che ci attendono nei nostri giorni.  Ma veniamo adesso a “Ulysses”, un disco di una certa qualità, registrato e mixato ai Factory Studio da Cristiano Sanzeri e lavorato nei minimi dettagli, un lavoro pieno di enfasi detto francamente.  Anche se il platter contiene solo cinque tracce, queste sono riuscite a dare abbastanza elementi per tirare le somme, tra l’ altro positive. Io personalmente all’ ascolto del disco ho immaginato di essere in mezzo ad uno degli isolati di New York, non ci sono mai stato nella famosissima ed attraente metropoli, ma questo disco mi ha dato questa sensazione, un po’ cupa e un po’ selvaggia; ma questa è soltanto una parte del mio ritratto, perché il disco in se ragione sul concetto di “gente” ed “anonimato”, come specifica il gruppo, e dunque sul cambiamento e la metamorfosi dell’ umanità . Una piccola nota di merito va anche all’ artwork, influente e suggestivo come pochi . Difficile affermare una traccia migliore dell’ altra, tutte e cinque hanno qualcosa da dire, posso però dire che quelle che mi hanno coinvolto di più sono “Ainsoph” e la conclusiva “VIXI”.  I Kubark sono un gruppo con grandi doti e potenzialità, hanno le carte in regola per sfondare, non resta che dargli fiducia e contare su di loro.

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Male di Grace – Tutto è come sembra

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“Tutto è come sembra” è un disco molto atipico, sembra di ascoltare i Marlene Kuntz (“Dolce miele” e  “Ai confini” con gli urli alla Godano ne sono la prova) o gli Afterhours mentre incontrano la scena indie rock americana (Kyuss in primis).

In una canzone (Ninna surf) infatti compare anche Mario Lalli, musicista che milita e ha collaborato con band della scena desert californiana (Fatso Jetson, Yawning man, Desert sessions, Brant Bjork ecc). Insomma il gruppo in soli cinque anni di vita di strada ne ha già percorsa davvero tanta! Il suono credetemi è davvero perfetto, curatissimo in ogni dettaglio, merito anche delle registrazioni e dei mixaggi presso il Cellar Door Studio di Milano a cura di Gianluca Amendolara e del mastering effettuato presso il Newmastering studio da Maurizio Giannotti. La vena psichedelica però si fa sentire spesso sprizzando l’occhio (anzi l’orecchio…) anche al noise alla Sonic Youth o alla Fugazi e un po’ anche all’hard rock tipo Black Sabbath o Led Zeppelin. La particolarità del gruppo sta nel fatto che ¾ dei componenti si alternano fra chitarra, basso e voce con una maestranza davvero unica e con uno stile intrigante e raffinato.

Molto bello e singolare anche l’artwork del disco a cura di Edoardo Vogrig. L’autoproduzione spesso comporta molti rischi e/o imperfezioni ma qui credetemi se i quattro ragazzi hanno azzardato sono riusciti a superare ogni difficoltà, nel pieno spirito indie! Sarà datato 2010 questo disco ma credetemi la freschezza del lavoro si sente ancora, anzi è sicuramente molto più attuale di tanti altri concorrenti che circolano oggi e la perfezione assoluta giustifica il ritardo con cui è stato pubblicato. Undici tracce, tutte cantate in italiano, che vi lasceranno davvero di stucco! Lo strumentale “Ninna nanna per Grisù”, ad esempio,  vi terrà sicuramente compagnia e di certo non rischia di far addormentare l’ascoltatore, non fatevi trarre quindi in inganno quindi dal titolo! Che i nuovi Jesus Lizard si siano reincarnati in Italia?

 

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Margareth – Fractals

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Gran bel disco nuvoloso questo “Fractals” dei veneti Margareth, disco che suona spiazzante come un classico dal portamento molto strano, attraversato com’è da esplosioni, staccati di chitarra roventi, infinitesimali saette sinth e l’enorme bellezza d’arcadie softone che si slanciano delicatamente nel lungo e nel largo la tracklist; mix di freschezza, inquietudine e profondità che spiega lo stato di salute ottimo di questa formazione piena di quell’autorevolezza ormai imbattibile che vibra sull’underground nazionale e speriamo presto oltre.

Sensazioni pop, pizzicori i d’Americana, effetti satinati d’Inghilterra indie e particelle dreaming di splendore raccolto salutano l’ascolto di questo Fractals come in un incontro con la bellezza di una donna sofisticata ed eterea, un intrigante mondo emotivo di flash psichedelici sixteen alla Kula ShakerFlakes”, il cantautorato di Rice o Sheeran Rosemary calls” e certe dilatazioni bombastiche che appaiono tra i mulinelli di “Beautiful witch” o nella pastorale delicatissima che intenerisce emotivamente “It will be alright”; nove tracce percorse da ipnotismi e giochi di fondo, una sincerità d’esecuzione che fa dei Margareth la maturità interpretativa di un anima meticciata squisitamente musicale, un punto di vista sonico alto e,  a  tratti,  irraggiungibile  nelle sue venature hard-mantriche che ti frollano mente e corpo in una beatitudine elettrica senza uguali “Mind eyes”.

Un disco che abita più “tempi” felicemente lontano dai culti e dalle riformate occasioni di revival, un percorso già intrapreso dalle coloriture nell’esordio di White Line e che arriva integro all’intuizione di essere un buon frutto proteso di personalità e fuoco impalpabile “Shadows come”, traccia in equilibrio tra le scogliere di Dover e i Big Sur Thcizzati californiani; sensazioni in chiaroscuro messe a ponte di una solitudine espressionistica che porta questo straordinario disco alle alte vette dei sognatori spiritati. Da collezionare tra le cose più dolci che s’intende avere.

 

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Stereonoises – Colours in the sky

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Hanno fatto davvero un buon lavoro questi siciliani Stereonoises, qui al decollo ufficiale con “Colours in the sky”, un nove tracce abbastanza intrigante, ben suonato e puntato direttamente oltre le scogliere di Dover, lì in quell’Inghilterra filtrata attraverso i Ray-Ban a goccia di Bono degli U2 Time”, “I’m still here”, “How long”, il Noel Gallagher “Something you should know” della spinta solitaria ed il concetto impattante di una certa ruvidezza morbida sullo stile Kelly Jones degli StereophnonicsTonight”, “Room on fire” e tutto ciò non fa altro che lievitare “in alto” le azioni di quest’album che riunisce due anime e culture diverse ma senza la presunzione d’essere “terrificante”, soltanto un buon esempio di come una qualità emergente sia all’altezza, pronta, per produzioni dalla mira verticale; la band da vita ad una ricchezza di suoni capaci di mediare brillantemente fra certe atmosfere indie che s’innestano come satelliti vaganti e lo spunto – ora uggioso, ora estetico – del brit meno glucosato, di quella concezione apparentemente non allineata che non si porta dietro i modelli generazionali, piuttosto le planimetrie riconoscibilissime di un’epoca che ha dato pathos e sangue dolciastro, fino a ritrovarle beatamente adagiate dentro questo registrato.

Buoni gli arrangiamenti ed il respiro internazionale che gli Stereonoises esaltano senza sforzo, una caratterialità quasi naturale che li rende autonomi dalle vetrofanie di tanti loro colleghi, una dosatissima miscela d’elettricità e tensioni melodiche che – una volta evidenziata dalla bella vocalità del cantante – si mette a disposizione di un ascolto molto, ma molto interessato; dunque antenne puntate sulle venature leggermente rock-wave tratteggiate nella title-track o nella punta di diamante dell’intero disco, quella ballata che ti trascina dentro consistenze vaporose e sofferte,  dove puoi incontrare sia il Billy Corgan, il despota del melone sfracellato sia il passo lento e ironico di un Lou Reed spelacchiato ed imberbe, lungo i marciapiedi umidi e tristi della Hassle Street NewyorkeseMakin’ a circle”.

Davvero un buon lavoro per una band che ha costruito le proprie basi su di un sound deciso, determinato, una dotazione sonora e poetica che sa rallentare e darsi a manetta con professionalità insospettata, che mi strappa un punto in più oltre la lode, semplicemente vincente, esordientemente grande.

 

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The Crocs – …And The Cradle Will Croc

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Correva l’anno 1998, un triste giorno di ottobre il mio compagno di banco Alessandro mi passò una cassetta con un bel teschio in copertina. In un primo momento mostrai la tipica ostile resistenza, classica per uno sbarbatello che fino a quel momento nell’insieme della musica rock inseriva solo pochi elementi nostrani come Litfiba e Ligabue. Ma alla fine accettai, un po’ come si accetta di andare sulle montagne russe anche se soffri di vertigini, tentato dal demoniaco sorriso del teschio disegnato a mano del mio amichetto.

Arrivato a casa subito dopo pranzo infilai il diabolico nastro nella mia piccola radio trasportabile. Giusto pochi secondi del “crrrrr” tipico del nastro (quanto mi manca, creava attesa adrenalinica) e fui travolto dallo spietato delay di Slash, che sembrò tagliarmi a pezzetti la gola. I Guns’N’Roses e il loro hard rock furente si erano impossessati di me. Da quel giorno  tutto è cambiato. I jeans si sono strappati, i capelli cresciuti a valanga, teschi orribili sono comparsi su t-shirt sempre troppo larghe e sono diventato (insieme ad altri 4 scapestrati del liceo) il più fuori moda di tutta la scuola dove in quegli anni regnavano fighetti, discotecari e punkettoni. Dopo quasi 15 anni e tanti (mai troppi) dischi masticati i jeans si sono ricomposti, i capelli si sono un po’ accorciati (alcuni in verità persi per strada!) e i teschi li sfodero solo in alcune giornate di eccessiva nostalgia. Però l’orecchio per quel genere così stradaiolo, così feroce e così chitarroso non l’ho mai perduto. E con gli anni l’ho forse un po’ addolcito e reso più docile, mischiando i riff con un po’ più di melodia.

Potete ora capire quanto aspettassi di recensire un disco come quello dei milanesi The Crocs e come il titolo del loro album mi rimandi subito ai fasti liceali, riportandomi immediatamente al macchinoso e massiccio brano dei Van Halen (intitolato appunto “…And The Cradle Will Rock”). Appena scarto il disco capisco subito dalle facce dei 4 ragazzacci di cosa stiamo parlando e il sorrisino mi scappa.
Si parte in quarta con il brano migliore del disco: “I Wanna Trust In Santa”, è scopro che di pop ce n’è proprio tanto, ma ben mischiato con quell’hard rock classico molto sornione. Il tutto è poi condito dalla voce di Andy che, nonostante presenti alcune sbavature esecutive e una pronuncia un po’ da “americano a Roma”, spara altissimo il falsetto e pare abbia copiato la ricetta del frullato di testicoli proprio da un maestro come Justin Hawkins dei The Darkness.
Andando avanti: in “Bring Me Down“ si trovano sonorità più moderne e più corali alla My Chemical Romance, “Living On Danger” è hard rock classico con chitarrismo tamarro, strillo devastante e basso ben pulsante in primo piano, il funky di “All Alone” e la pseudo-ballad “Possession” invece sono gli episodi più glam-fricchettone, si vola in Scandinavia e si raccolgono le ceneri dal recente funerale dei The Ark.

I testi come nel migliore stereotipo sono (s)porchi e abbastanza scontati, ma forse è meglio così. Manteniamo bassa la frivola dignità del buon rock’n’roll cazzaro.
Insomma tutti spunti intelligenti e tutto sapientemente arrangiato dai quattro ragazzetti. Manca solo un po’ di personalità nelle loro melodie che, con un pizzico di ispirazione in più, potrebbero benissimo essere esportare con fierezza dalla provincia lombarda.
Niente di nuovo, niente per cui farsi ricrescere i capelli fino al culo, niente di eccessivamente hard rock da farmi rimettere su “Appetite For Destruction”. Ma almeno la vecchia maglietta nera coi teschi oggi me la fate indossare?

 

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Story Of Jade – The Damned Next Door

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Mai come questa volta ho trovato difficoltà a fare un’ analisi di un disco. Tanti sono stati gli ascolti di “The Damned Next Door”, il nuovo album della Horror Metal band Story Of Jade e diversi erano i momenti in cui l’ ho ascoltato. Automaticamente anche arrivare alle conclusioni si rivelava complesso perché da un lato si teneva tra le mani un disco di buona produzione,  suonato bene senza alcun dubbio e dunque con una tecnica discreta, dall’ altra parte troviamo un prodotto di un banale Thrash Metal che di Horror a dirla tutta ha poco e niente. Insomma, considerando gruppi pilastri come Daemonia, Death SS e Cadaveria che in Italia hanno messo le radici, sono i gruppi che in un modo o nell’ altro attraverso i riff e le atmosfere fanno proprio lo stile dell’ Horror: Citando sempre questi big e facendo un paragone con gli Story Of Jade,  vediamo che questi ultimi non hanno le atmosfere che creano i Daemonia, non hanno le sinistre e cupe melodie dei Death SS ne c’è quel tetro e grezzo suono che i Cadaveria riescono a creare con i loro massicci riff.  

“The Damned Next Door” è indubbiamente un disco piacevole, tralasciando questa questione sull’ Horror, il resto del lavoro è ben composto, non è eccezionale ne innovativo ma scorre facilmente. Tecnicamente il gruppo è preparato infatti avrebbe potuto fare molto di più, ma ad ogni modo non perdiamo le speranze perché se gli Story Of Jade riusciranno  a giocarsi le proprie carte, state certi che faranno centro.

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