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Dust – Kind

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Preparatevi ad ascoltare la Bibbia dei Dust. Preparatevi ad assaporare le note e le parole dei sei profeti del Rock di Milano; Andrea (voce splendida e autore di gran parte dei testi), Riccardo, Jimbo (chitarra solista dal 2009), Tomas, Gabriele e Muddy. Preparatevi a tutto. Per cogliere solo alcune delle sfaccettature del disco, servirà un notevole avvicendamento delle vostre percezioni. La giusta mescolanza di acume e beatitudine.  L’Ep “Kind” è il loro secondo lavoro, dopo il demo autoprodotto del 2009 “Tuesday Evenings” e la giusta conclusione di una peregrinazione a colpi di perfette esibizioni live e l’inizio di una nuova vita. Registrato al Mono Studio di Milano e prodotto da Matteo Cantaluppi (The Record’s, Punkreas, Canadians, Bugo), che avrà un ruolo primario per lo sviluppo del sound Dust, con l’apporto di Matteo Sandri (Sananda Maitreya, Il Genio) e il mixaggio, in due brani, di Paolo Alberta (Negrita) all’Hollywood Garage di Arezzo, “Kind” si presenta tanto breve (ventuminutieventottosecondi) quanto intenso e ricco di spunti. Partiamo dall’inizio. “O my Mind” (che vede la partecipazione di Giorgio Garavaglia, mandolinista e direttore d’orchestra) ci regala subito un giro che te lo levi difficilmente dalla testa e una melodia spensierata di quelle che ti mettono la gioia di vivere.

Il timbro intenso di Andrea allarga le nostre percezioni verso orizzonti Wave in stile The National. Un brano che si lega al passato in maniera indissolubile eppure suona alle nostre orecchie carico di una fresca e inaspettata originalità. Ti entra nella testa senza squarciarla e riempie quello spazio rimasto da troppo tempo vuoto nel tuo cervello. Il mix tra chitarra, voce e linea di basso sembra un melodioso ludico correre nel buio spazio vuoto del niente. Qualche cosa sembra già chiara. I Dust hanno scelto la strada popular nel traffico del Rock. Niente fretta però. Il secondo brano, “Ink Loaded Love”, con le sue elettriche sferzate e le urla soffuse, mette già in crisi le nostre certezze. I milanesi sembrano accarezzare un certo tipo di Grunge, meno legato all’Hard Rock, se volete, ma più Pop, mantenendo tuttavia viva la loro porzione d’anima Dark Wave. In pratica un groviglio complicato gettato da una muraglia sonora in fiamme. “In Collapse of Art” potete prendere la vostra testa e scaricarla nell’indifferenziato. Rallenta il ritmo e la musica si trasforma in materia oscura come il Blues. I Dust continuano ad attingere, anche involontariamente, dal continente Nord Americano. La malinconia dei Girls sposa le atmosfere folk meno folk degli Okkerville River (l’inizio del brano vi ricorderà certamente l’inizio di “Titletrack” dei sopracitati) ma il matrimonio si trasformerà nel giro di due minuti in un pandemonio nervoso che si risolverà in parte col ritorno all’origine, un ritorno alla pacatezza solo esteriore del blues degli episodi più malinconici di Dan Auerbach. Un brano che comunica l’incapacità comunicativa attuale dell’arte in Italia. Il trionfo dell’apparire sull’essere. Con “Never Defined”, riaffiorano le atmosfere Wave scuola The National (quelli più energici di High Violet) e la chitarra stilla gocce di Lsd che finiscono dritte nel cuore. Il brano, come a riassumere l’intero Ep, si palesa senza paura nella sua totale complessità. I rimandi ai grandi nomi sono infiniti e si accavallano all’interno del singolo brano cosi come nella totalità dell’opera. Eppure tutto si fonde in una divina unicità.

L’album si chiude con la romantica “Still Hiding, Still Trying” nella quale si torna a danzare tra le nuvole come in “Collapse of Art, ma abbracciati a una donna splendida, vestita di nero, con tacchi alti e labbra carnose, chiamata Morte. La voce prende le redini del nostro ascolto con una delicatezza sublime e ci accompagna all’uscita mentre la chitarra sventola note sotto una brezza umida e la batteria pulsa come un cuore rivelatore nel profondo della nostra essenza. Il sound nella sua delicata ricercatezza, nei suoi accenni psicheledici, nella sua teatrale, passionale empatica vocalità ricorda ancora quello di Christopher Owens e delle sue “ragazze” americane ma sempre senza scimmiotteschi rimandi. Ora potrà sembrare che vi abbia detto tutto. Non è cosi. Riascoltate l’Ep e tutto sarà diverso. Come ho detto (a mezza bocca) in precedenza, la caratteristica del sound dei Dust è proprio questa. Ti sembra di aver compreso solo fino a quando non rischiacci play. Il primo impatto che ho avuto è stato quello di una band di chiara ispirazione Buffalo Tom (o che comunque per uno strano scherzo del destino, lo sembra in maniera netta). Non è tutto qui. Ferma restando la struttura cardine chitarra/voce di un prodotto comunque rivolto all’apprezzamento popolare, la miriade di mondi musicali racchiusi nel disco si accavallano a ogni ascolto. Cosi come si avvinghiano le emozioni della vita, del vagabondare nel mondo, della socialità, dell’amore e della morte. Se una volta il Rock Pop-Punk spensierato, fuso al Folk e al Power Pop da muovere il culo, in stile Lemonheads sembrerà essere la colonna portante del tutto, il giorno dopo vi sembrerà piuttosto di essere cullati dalle atmosfere più melodiose e levigate del Blues, in combutta col Soul e il Grunge, specie nella parte cantata. Oppure vi sembrerà di riascoltare il miracolo degli Arcade Fire e del loro Pop-Wave, magari solo per un attimo. Vi sembrerà di ascoltare Wilco o i R.E.M o il Jangle Pop dei The Smiths. Un attimo che vi farà pensare abbastanza da far ripartire il disco dal principio. La prima pietra è ben salda. Aspettiamo la lunga distanza; aspettiamo un album oltre l’ Ep. Allora potremo dire veramente quale sia il valore dei sei. Intanto alcune cose sembrano chiare. Ai Dust piace la musica d’oltreoceano più di quella d’oltremanica. Ai Dust piace fare Rock senza suonare mai troppo pesanti (difficili, meglio). Ma soprattutto è chiaro che questo “Kind” come la Bibbia, si è presentato come il luogo in cui cercare le risposte, ma non fa nient’altro che avvinghiarci in continue altre domande. “Dream unless you can see the truth”. Dov’è la verità?

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Following Friday – Outside The Fence

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E’ già tempo di maturità al secondo colpo quello della Bay Area Band Riminese Following Friday, fortemente coesi per consentirci d’essere presenti con gli orecchi al secondo loro sforzo amperico “Outside The Fance”, ed è veramente un buon sentire, un perfetto incarnare lo spirito passionale e fun che sin dai primissimi giri di piatto si pone come una fistola prepotente sulle terga incontinenti di tanti Finley, Lost e dAri  che credono di imbambolare teen e ombrosi Emo senza catene; sei tracce percussive per un Ep che scalda il giusto, punk affiancato da arrembaggi rock che paiono arrivare anche dalla parte dell’attuale scena newyorkese con i protagonisti strapazzati di Ours o The Sea And CakeFuture lover back problems”, “A dive into the ocean”, dunque buone influenze e scuola quelle che i nostri FF utilizzano per costruire quello che è sicuramente un alto livello d’intesa sonica, ed anche – perché non ammetterlo – quella qualità ed estetica che può benissimo reggere il confronto con  altre magnifiche “banderuole” italiote che li hanno preceduti.

E se punk deve essere, che punk sia, Ep come questi, che ancora sopravvivono ai cavalloni spumosi e le tavole da surf  Californiane, vanno salutati con affetto e riguardo, sono piccole lezioni di una gioventù ribelle-educata che amplifica poesia, amore e dolorose istantanee generazionali che segnano il messaggio profondo della “voglia di esserci”, dell’essere protagonisti di una nuova era scalmanata mai autoreferenziale, piuttosto fondante; ed allora a manetta dentro il fuoco incrociato di “First shot is the hardest”, a radente nelle filologie hard-rock che permeano la ballata “Out on the deck”, al centro dell’ansia di tastiere e chitarre sincopate “Dear Charlie you ruined my life” o nelle sgassate di purissimo tween-pop che intossicano di pogo “Girls like that”.
Grandi schitarrate spigolose vi attendono disponibili per farvi un bel giretto a bordo di questa tensione elettrica dall’anima cortese, un modo di intendere la musica come un contatto da innescare tra pancia e cervello, tutte cose che una volta messe in moto da questa band dalla doppia Effe faranno da collante per un atletica artistica che vi mozzerà il fiato. Ammesso e non concesso!

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Sùr – Brainschift

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Certo che stiamo parlando di musica suonata con i contro cazzi, questo è un dato di fatto. Nessuno metta la mano sul fuoco, brucia. I Sùr sono tre ragazzi piemontesi forse troppo legati agli anni novanta per far esplodere e trasmettere le proprie idee artistiche negli avanzati anni zero. Ascolti immortali come Alice in Chains, Stone Temple Pilots, Kyuss e tutta la schiera forte di quel periodo devono aver toccato indelebilmente le menti di questi ragazzi che non riescono proprio ad uscirne fuori, ascoltare la loro EP Brainshift per rendersene conto. Indubbiamente quattro pezzi (belli lunghi lunghi) suonati a regola d’arte, è poca la differenza che si nota tra loro e un dinosauro del genere ma l’imbarazzo dell’epoca mette stranezza nei miei ascolti. Qualcosa rende il tutto stranamente insopportabile, il gusto di una cover band è troppo forte per passare inosservato, qualche piccolo accenno di nu-metal mi riporta quasi all’attualità ma è veramente poco per poter giudicare un lavoro di queste intenzioni. Sicuramente i giudizi positivi fioccheranno da tutte le parti, questo è ovvio, sono tecnicamente bravi e fanno musica giá testata e sperimentata venti anni fa, in più la fanno bene. Ma questo non basta per essere vincenti, bisogna caricarsi di nuove responsabilità sulle spalle, avere delle idee da mettere in pratica, sentirsi orgogliosi di essere i creatori di se stessi. Chi non lavora non fa l’amore.

Brainschift rimane nei miei ricordi come una buona demo suonata alla perfezione ma senza cervello, i Sùr sono una band che attualmente preferirei vedere in un pub piuttosto che comprare un loro disco. Rischiare ragazzi è un obbligo morale nei confronti di chi vi ascolta, avere una propria personalità vi aiuterà a fare il salto di qualità di cui avete bisogno, le altre carte le avete tutte.

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Venus In Furs – Siamo pur sempre animali

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Ho sempre avuto un’amorevole avversione per le storie dei 20enni disadattati. Insomma la mia frazione razionale non ha mai gradito troppo tragicomici racconti su insormontabili scogli di giovani incerti su un futuro che sembra per loro già scritto. Tutti paladini della libertà con una laurea in Lettere e Filosofia in mano. Tutto trasuda retorica e stereotipi, me ne rendo conto, ma non sono mai riuscito a frenare il violento impulso di curiosità verso questo filone di romanzi o film (vedi Culicchia e Virzì, tanto per citarne due)

Non voglio assolutamente sminuire il problema, anzi. Sono convinto che i ragazzi del 2000 (me compreso dai, non sono così antico) debbano battersi con mostri che da anni sembravano ben sotterrati da una scorza sociale ben dura. Oggi invece questa scorza fa breccia da tutte le parti e allora gli artigli feroci di queste bestie grame si catapultano in superficie in cerca di carne fresca da deturpare. E così ci sono affitti da pagare, la paura di una scelta universitaria sbagliata, una fede che vacilla verso qualsiasi tipo di santo, un alcolismo divampante, una fede in nulla, mass media che plastificano pure la realtà della cronaca nera e dulcis in fundo un’onda economica che precipita come il peggior burrone di Willy il Coyote.

Ma la cosa che mi fa un po’ incarognire è che almeno nelle storielle, che possono comunque darci qualcosa in più di ciò che ci sbatte in faccia la vita quotidiana, si dovrebbe avere qualche stimolo in più di un banale stereotipo incartato e venduto all’ingrosso al supermercato. E così forse si affronterebbe tutto questo scatafascio con un sorrisino che si tramuta facilmente in stretti denti digrignati. Alla fine i mostri spaventano, ma noi siamo bestie come loro e sappiamo bene come affrontarli.Tutto questo pare ce lo insegnino i pisani Venus In Furs che presentano il loro album con un nome che presuppone bava alla bocca (per rabbia, non per fame): “Siamo Pur Sempre Animali”. Preparatevi insomma a mettere un attimo da parte le emozioni e i sentimenti per essere veramente cattivi (e di questi tempi serve esserlo).

La scuola dei compaesani Zen Circus (Andrea Appino insieme a Gianluca Bartolo del Pan del Diavolo partecipa addirittura al bluseggiante crescendo finale de “In questa città”) è più che evidente e come la migliore tradizione delle correnti rock si porta dietro questi 3 giovani ragazzetti (l’anagrafe è sconcertante, tutti poco più che ventenni) che trasudano rock’n’roll da tutti i pori. Ci sono la rabbia agonizzante dei Linea 77, la botta in faccia dei Ministri, l’arroganza svarionante degli Afterhours più noise e addirittura (mi sbilancio) la roboante potenza di Led Zeppelin II. Il risultato pare un pastone, ma tutt’altro che stantio, è freschissimo come pesce appena prelevato dal fondale marino. Ancora vivo e scalpitante in superficie ti immerge subito in un vortice di volume con il riff di “Nefasta in testa”, brano apre il disco e sembra sgraffignato proprio ai Ministri, se la vacilla febbricitante tra hardcore e pop da classifica. Il prepotente e inaspettato boogie boogie di tastiera dell’opener ci conduce alla drittissima “Io odio il mercoledì”, una prepotente danza infernale in riva al burrone che a sua volta ci scaraventa nelle dinamiche ancora più oscure e tetre di “Cecilia e la famiglia”: “ciò che luccica e non brilla, si Cecilia, è la famiglia”.

Il disco scorre veloce insomma e si fa ascoltare tutto di un fiato nonostante le sue 13 tracce (ambizioso mettere 13 tracce in un disco d’esordio, no?). Le sonorità si dimenano forsennatamente tra atmosfere seventies, urla sporche (complimenti alla voce di Claudio Terreni, che nonostante la giovane ugola mostra grande maturità canora), tastiere sintetiche, chitarre acidognole e grande botta generale (figlia di una produzione impeccabile) che non vuole rinunciare alla bellezza della melodia italiana, un po’ violentata, ma ben viva in brani come la stupenda “Naif” dove Manuel Agnelli sembra direttore di questa piccola orchestra elettrificata.Un bel biglietto da visita insomma, un disco che i giovani d’oggi dovrebbero ascoltare e assimilare, perché arriva proprio da loro coetanei incazzatissimi. Così, come cita la loro “Las Vegas (non mi rilasso)”,  buttiamolo nel cesso sto “manuale bignami per ventenni 2000”, perché a noi animali le “loro” regole non ci piacciono affatto. Occhi aperti e denti stretti.

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Redska – La Rivolta

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Tempi propizi, bollenti e puntuali questi che corrono e vanno a sbattere con “La Rivolta” del combo romagnolo dei Redska, il nuovo disco e prova muscolare in quattordici tracce che pare proprio arrivare come un temporale giustiziero a freddare i calori che, poteri forti, 27 che non si raggiungono più, tasse e situazioni estere che sfuggono ad ogni controllo, e i “troppi controlli” crudeli dei nostri giorni, ci sgozzano come pecore sacrificali; i loro amplificatori, trombe, ska no-limits, antifascismo, reggae, eroi quotidiani, nuove favole e vecchie storie, coraggio e sangue elettrico, sono da anni la risposta “carrettiera” che infesta di voglia di lotta e rivoluzione, le piazze di questa nostra Italietta zimbello di potenti e nuovi invasori, la loro forza “gunner” è quella di farci saltare il cuore in gola per riprenderci il mondo nelle mani e toglierlo a chi ci gioca come fosse un pallone da football.
Il combo romagnolo condensa nella tracklist la “ventilazione sonora” dei quattro anni di tour nazionali ed europei sold out che li hanno visti protagonisti unici di un apparato spettacolare idealistico e di power-force sociale, un disco stradaiolo, ideato, concepito e nato dalla voglia di far esplodere mille NO in mano ai tanti Mangiafuoco della società.

Jumping, pogo, stage-diving e pensieri per un mondo migliore e senza scordare i piccoli grandi uomini che hanno lasciato loro malgrado un segno nella nostra mente, Stefano Cucchi ucciso dalla Polizia “Bastardi senza gloria”, Vittorio ArrigoniEroi”, e le tantissime prese di posizione politiche che urlano danzando per la loro libertà come il No al razzismo “Legato dalla Lega”, il No all’omofobia “Quello che sei”, i giovani precari dentro lo ska-swing “Studente precario antifascista” che ospita la voce di Kino degli Arpioni, poi la lotta alla pedofilia dei porporati “Lettera a sua santità”, contro il calcio violento “Holligan RudeBoys” insieme al cantante degli Offender e altre scosse telluriche che fanno tremare le circonferenze irte di questo bel disco epilettico.

Clash, Red-corner, Southampton, ed un’inesauribile carica di “contro”, una convincente massa di “Sveglia” che tra ragamuffin, Jamaica di casa nostra, punk rossastro e grandi idee in avanti da quello schiaffo robusto e danzereccio necessario per riaprire gli occhi, casomai ce ne fosse bisogno, ma a vedere i tempi d’oggi pare proprio di sì, e loro i Redska sono di nuovo qui a ricordarcelo, a farci sudare, divertire e a darci quel calcio in culo per non arrenderci mai, come dice il Subcomandante Marcos all’ingresso nello stereo di “Sounds of Revolution”.
Pugni chiusi in alto e Hasta Siempre Redska!

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Gasparazzo – Obiettivo Sensibile

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Viaggi in Africa, l’odore dell’oceano, il profumo del deserto, tanto reggae e la naturalezza del rock per il disco Obiettivo Sensibile dei Gasparazzo. Le esperienze musicali dei vari componenti della band sono nettamente diversificate tra loro e questo si sente parecchio nel sound dove Alessandro Caporossi, Generoso Pierascenzi (ex Squit) e Lorenzo Lusvardi (ex A.F.A.) mettono a disposizione dei Gasparazzo tutte le loro abili conoscenze musicali. Il risultato è sicuramente di un album suonato con tanta tecnica e disciplina (per citare i Luminal) senza mai scendere nell’errore dello sproposito artistico, Obiettivo Sensibile non vuole strafare ma non riesce quasi mai ad emozionare nonostante si parli di esperienze vissute direttamente dal gruppo (Frutti tropicali). Il disco registrato interamente in presa diretta presso una ex fabbrica attrezzata a studio di registrazione ha dalla sua un’energia indiscutibile che mostra subito le intenzioni folkettone dei Gasparazzo, loro non hanno paura di niente e cercano di portare verso l’ascoltatore un suono poco curato e molto sentito, a detta loro molto garage. Che poi sul suono “garage” si potrebbe aprire una discussione infinita.

Ognuno porta avanti le proprie idee giocando con musica e poesia in maniera elegante, non togliendo mai quel tocco rock che indurisce il tutto, il significato della musica andrebbe preso da pezzi come La danza di Dioniso o Tina, anche le cover se ben indirizzate possono avere il proprio effetto benefico per il risultato finale del concept (Tornerai). Per il resto Obiettivo Sensibile suscita sprazzi impercettibili di entusiasmo scivolando comodo comodo verso un finale che non lascia ne gloria ne perplessità, un genuino lavoro di musica italiana che merita di essere ascoltato e apprezzato ma che di certo non ricorderemo negli anni come il disco stratosferico dei Gasparazzo. Pane al pane vino al vino.

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Ilenia Volpe – Radical chic un cazzo

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Non sembrerebbe, ma la cantautrice romana Ilenia Volpe  è un bel dettaglio “dell’altra metà del cielo”, anche se il suo essere donna fa terrificante massa tra amplificatori devastanti, pugni nello stomaco e una poetica malata, nervosa, piena di sensualità storta; “Radical chic un cazzo” è il suo debutto ufficiale, sebbene la sua abilità a prendere fuoco nell’arte dei live, è cosa da manuale in ogni dove, un disco teso e dolce, prodotto da Giorgio Canali – che ne colora alcune atmosfere – e Diego Piotto, un undici tracce che impressionano il calendario di anni novanta mai andati via veramente, neppure un istante, quella finta assenza che di bordate grunge, picchi di hard-metal e prodigi di gioielli mid-acustici rarefatti, ne riportano l’urgenza ed il tenerume tutto per intero.

Non è un cattivo auspicio il titolo, ma è quanto promette e mantiene questa elettrintrigante artista romana che va ad inserirsi tra quelle figure rockeurs fragili “con le ali di metallo e acciaio”, quell’arte al femminile che divora le febbri della Courtney Love esasperata e una PJHarvey in collisione con l’anima, la parte nobile delle The Breeders con il concetto sussurrato d’ampere alla Claudia Fofi, fradicia anche della lirica Canaliana che ne costruisce le ritualità e l’immagine sentimentale verticale; aria e asfissia, buio e luce, deliri reali ed incubi vissuti, sono le prerogative primarie che girano nelle vene di questo disco stupendo, anche due cover “Fiction” del Santo Niente ed il brivido in acustico de “Direzioni diverse” del Teatro degli Orrori prendono parte a questo baccanale d’amore e tragedia di watt, poi quello che rimane a colpire nella tracklist è un attacco ai sensi ed all’esistenza riflessa.

Chitarre d’ aria “Mondo indistruttibile”, “La croci-finzione” e di fuoco “Prendo un caffè con Mozart”, “Indicazioni per il centro commerciale”,  ossessioni lancinanti “La mia professoressa di italiano”, il senso ripetuto di un vomito interiore di rabbia  “Le nostre vergogne” fino al pathos irraggiungibile di un cielo al contrario dentro il quale si muove la leggiadria eterea virtuale di una Ginevra Di Marco che si esalta con il plumbeo di una MannoiaPreghiera”, tutto ci rimanda, attraverso lo sviluppo di questo sentire, ad un demone sulla nostra spalla, a quelle produzioni linfatiche che non utilizzano nessuna forma di tendenza per stupire, uno strepitoso neutralismo da classificazioni che la Volpe ed i suoi blasonati scagnozzi gestiscono alla perfezione come un vento gelido sulla fronte.

Semplicemente bello.

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Drink to Me – S

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Non c’è niente di terrestre, una botta talmente forte da rimanere spiaccicati sul pavimento agonizzanti, qualche entità superiore mette mano sui sintetizzatori dei Drink to Me per tirarne fuori l’ultimo lavoro S. Ho perso nettamente il controllo, vengo bombardato da ogni dove e l’adrenalina sale a dismisura, cazzo sono arrivati gli alieni. Riprendo fiato ma non riesco a tranquillizzare l’agitazione cresciuta a dismisura. Sono pieno come un fusto di birra, esplodo. Questo disco caratterizza le cattive intenzioni dei Drink to Me ormai lanciati a tutta velocità verso la consacrazione definitiva sbeffeggiando tutta la spocchiosa schiera dei disfattisti “intenditori” musicali. Musica per chi scopa. Loro prendono la scena alternativa italiana e la girano e rigirano cacciandone fuori un sound personale dagli effetti elettronici devastanti, provare per credere, ascoltare pezzi come Henry Miller, Picture of The Sun, Disaster Area. Ma sparatevi tutto il disco, è decisamente opportuno. Provare per spaccarsi la corteccia celebrale. Sembra non mancare proprio nulla, velati sprazzi di indie pop riempiono il programma della festa, le voci sono intenzionalmente inglesi (di lingua e di fatto) nonostante loro siano un vanto tutto italiano. E questo si nota poco visto il sound poco (ma veramente poco) nazional popolare proposto dai Drink to Me, qualcuno osa Aucan, qualcuno infastidisce la mia pazienza cercando paragoni improbabili soltanto per il gusto di parlare, di mettersi sul piedistallo dell’arroganza, di rompere il cazzo sempre e comunque. I Drink to Me sono fortunatamente l’evoluzione musicale dei Drink to Me. Poi S segue una linea precisa spezzando le ali al precedente Brazil, una continua sperimentazione sonora, qualcosa di vivo che pulsa incessantemente. I Drink to Me viaggiano sulla cresta dell’onda rendendo onore alla musica italiana, finalmente un ottimo progetto da esportazione, lo spread dell’indie rock schizza alle stelle.

Non potevate trovare di meglio, lasciatevi condizionare l’anima da questi cattivi compari.

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May Day – Eppì

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“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.

In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live.  Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).

I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.

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Dirk Hamilton – Thug of love Live

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Dirk Hamilton, classe 1949 e proveniente dall’Indiana, non ha bisogno di presentazioni…

Con oltre dieci dischi in studio il suo sound ha influenzato generazioni di musicisti, in particolare con “Thug of love”, uscito in una edizione celebrativa per il trentennale in una versione live dai colori più freschi e moderni ma che non perde lo smalto di un tempo.

Tutto ha inizio con “Wholly bowled over”, una ballad fra l’acustico, il country e il rock, che sa di gioiello nascosto e che forse le generazioni moderne farebbero meglio a riscoprire…

“Moses & me” è molto più pacata e dai tempi più lenti rispetto alla precedente, ma ha un’intensità che è davvero impressionante.

“Turn off the tv” ha un drumming molto accentuato che a volte risalta persino rispetto a chitarra, basso e armonica.

“In a miracle” tratta di un incontro mai accaduto con la grande Kate Bush, che rispose a una lettera del cantautore, suo grande fan, concludendo con la frase “keep in touch”, ripetuta più volte nella canzone.

“Out To Unroll the Wheel World” è come un proiettile veloce che colpisce al cuore e alla mente  chi la sente ma che non fa male ma solo bene.

In “Change in a child’s hand” ci sono molti spunti che ricordano persino il miglior Frank Sinatra! ed è davvero facile rimanerne estasiati.

“I will acquiesce” con i suoi 17! minuti è forse il migliore episodio del disco coi suoi assoli di chitarra iniziali e la batteria che tiene un improbabile tempo da marcetta che rende il tutto davvero originale (anche se poi abbraccia sonorità molto più rock).

“Colder Than Mexican Snow” è invece caratterizzata da linee di basso molto incisive.

“Need some body”, com’è scritto nelle note interne del booklet, fu scritta pensando a Rod Stewart, che però secondo lo stesso Dirk, non avrebbe mai cantato perché “troppo gentleman”.

La lunghissima “The Main Attraction” è invece dedicata al bluesman Solomon Burke, purtroppo recentemente scomparso.

La bonus track “How do you fight fire?” è cantata in coppia con Graziano  Romani e vede la collaborazione anche di Max Marmiroli al sassofono e di Massimo Mantovani al piano elettrico (presente anche in “Change in a child’s hand”).

La tracklist è leggermente diversa dal’edizione del 1980 ma di certo non tradirà le aspettative dell’ascoltatore anche perché con il musicista americano ci sono i collaboratori di trent’anni fa, Don Evans alla chitarra elettrica e ai cori, Tim Seifert alla batteria ed Eric Westfal al basso e ai cori.

Il tutto forse anche per mantenere intatto lo spirito e l’integrità musicale di un tempo.
E credetemi… Questi quattro musicisti ci sono davvero riusciti!
Il compact disc è stato registrato interamente in Italia a Dozza (Bo) e Modena il 13 e il 14 marzo 2010 mentre il dvd allegato (che contiene invece tredici tracce) a Cologne (Bs).
La produzione è praticamente perfetta, i suoni molto puliti ed il pubblico si sente davvero pochissimo.
Affrettatevi quindi a comprare questo capolavoro!

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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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Rabbia, amore, dolore per l’amico sodale Clarence “Big Men” Clemons spentosi dieci mesi fa e amarezza non contenuta per il destino della sua nazione America e dei suoi figli che la crisi ha dilaniato insieme; il diciassettesimo disco in studio di Bruce SpringsteenWrecking ball” è insieme urlo disperato e pathos armonico d’Irlanda, un disco che è insieme sangue e speranza sotto un cielo plumbeo e triste, tredici tapes, tredici lamenti umani d’insondabile brivido, profondità e passione che si coagulano in un unico essenziale calore che è poi la cifra stilistica inconfondibile del Boss.

E all’interno ci sono anche i riferimenti agli anti-eroi della storia, le stelle senza coda che hanno tratteggiato pagine sonore o di carta della vita, il radicalismo di Woody GuthrieJack of all trades” come il furore SteinbeckianoShackled and drawn”, poi quello che come una ventata d’orgoglio infinito arriva dietro è apoteosi di fremiti e cronache che disegnano un’America nuda, un “naked lunch” sulla bocca ingorda del Dio Dollaro “Easy money”, una lista di ballate e out-style nate in precedenza per essere suonate con la sola chitarra acustica ma che poi in studio session si è voluto dilatarne il raggio d’azione per essere complici vaste di un inno vero contro le ingiustizie, le falsità.
Trema il Boss quando canta in “Death to my hometown”  “..hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie/ si sono presi le nostre case/ hanno abbandonato i nostri corpi sulle pianure/ con gli avvoltoi che beccavano le nostra ossa…” o quando urla a vene gonfie che “..l’uomo è intrappolato nei debiti che nessun uomo onesto può pagare..” tra le righe della stupenda “Jack of all trades”, è una dimensione che fa saltare i polsi, come il gospel che incontra l’hip hop “Rocky ground”, ma è quando arriva quel pezzo di cuore in frammenti “Land of hope and dreams” dedicato all’amico di sempre, al magico sax della E-Street Band, il gigante buono Clemons che il disco lacrima davvero e che come una magia da chissà quale lassù, porta quel fascio di raggi sole ad illuminare l’America affondata del Boss con quel “domani splenderà il sole e passerà tutta questa oscurità”.  

Torna il Boss con tutte le inquietudini di un mondo spaccato, torna il Boss che al contrario di quando cantava “nessun posto dove andare e nessun posto dove correre” in Born in The Usa, sa dove colpire con i proiettili duri della sua poesia disillusa.  

 

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Sunset – Viaggio Libero

Written by Recensioni

Strano questo viaggio rock-west che i novaresi Sunset inanellano nel loro primo official “Viaggio libero”, se non ci sono dubbi circa il viaggio, quello che li mette i dubbi è il “libero”, perché la libertà agognata dalla band è un tragitto sonoro troppo gonfio di Ligabue “Doc”, “Tu”,  Litfiba “In alto le mani”, Axel Rose e C. “Bambole”, Graziano Romani “Regalo alla mamma”, il Priviero d’antan e gli echi d’ex indiani padani (Rats) –  dei quali l’ex leader Wilco Zanni è presente nella traccia n.2 “El frago” –  che a tratti sembra essere davanti ad una tribute-band troppo precisa e a vetrofania con gli heroes citati.
Tecnica e pathos da highways americane riempiono tutta la vitalità di queste quattordici tracce freewheeling, hooks radiofonici che passano e rimangono in circolo il tempo di mandar giù un bicchier d’acqua, non per chissà quale cosa, solamente per una collana di canzoni che si vestono d’ovvietà e tritumi ritriti stracotti e digeriti a josa, un genere che non da spazio ed amplietà a nessuna ricarica creativa, il soliti rifferama, la solita voce vissuta tra alcool e pupe sverginate, poster di ZZ Top, saloon e pillole d’odiernità urbana, sguardi e riflessioni messi a contrasto nella rudezza di un rock’n’roll che di strada ne ha fatta molta e dunque un salutare “riposo” è quello che gli compete.

Altri ospiti di questo disco sono Graham Bonnet  vocalist (già con Rainbow) che interviene in “Lunghezza d’onda” e Jennifer Batten alla chitarra in “Sospetto” (Timoria?), nomi illustri del rockerama internazionale ma che non riescono a tirare su la sorte del registrato che, seppur ben fatto, di mestiere e d’enorme passione, si va a collare tra le migliaia di prodotti di genere che occupano gli store d’ogni dove e d’ogni quando; disco che se preso per un ascolto di sottofondo tra una faccenda e l’altra può anche aiutare a far passare il tempo gradevolmente, se vi si cerca un nuovo mondo, ruvido, ma mondo nuovo trova solo una continua (ben fatta) tiritera amplificata.

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