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Cybersadic – Droga alla massa

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Questo lavoro al primo ascolto sicuramente vi lascerà un po’ spiazzati…
“Droga alla massa” dei Cybersadic è infatti un vero e proprio calderone sonoro che comprende nei suoi ingredienti i Subsonica (citazione “dovuta”, visto che si parla del panorama elettronico -techno  musicale italiano) e i Chemical brothers (“Wake up” ricorda molto le sonorità di “Hey boy, hey girl” famosa hit del 1999 del gruppo di Manchester).

Molte infatti le similitudini nei confronti dei due gruppi citati sia a livello vocale sia a livello musicale.La loro però è un’ispirazione proveniente anche da vari repertori musicali, cioè una sorta di eclettismo che permette di apprezzare ogni pezzo come un’entità, diciamo “autoconclusiva“, che peraltro non annoia mai l’ascoltatore.
Poche liriche e musiche ben collegate tra loro vi accoglieranno in un tappeto sonoro che ogni tanto fanno  ritornare alla mente anche i vecchi Kraftwerk, che non appaiono mai datati e che continuano a ispirare le generazioni moderne di giovani musicisti.

Le tematiche trattate nei testi evocano atmosfere cibernetiche però contemporanee e non
paleofuturiste ma sempre con il carattere sovversivo che contraddistingue il loro stile.
Non stupirebbe quindi se qualcuna delle nove tracce trovasse spazio in qualche film di fantascienza alla “Blade runner”.
Nella prima parte del disco c’è un ritmo deciso, consapevole e urlato, dal forte intento comunicativo, anche se spesso intervallato da momenti di pura melodia elettronica che distendono questo incalzare.
La quarta canzone “La notte” ad esempio inizia con un riff di chitarra alla Depeche Mode per poi tuffarsi in un cantato che ricorda i più quieti Cccp distorti da un vocoder.

Molti anche i richiami anche alla new wave italiana dei primi anni ottanta, soprattutto per quanto riguarda le chitarre che confluiscono con la tradizione musicale d’avanguardia degli stessi anni.
Un progetto ambizioso quindi quello di questi ragazzi campani che attende solo di superare la prova del live…
E non lasciatevi fuorviare dal titolo di questo cd…
Semmai consigliate l’acquisto di questo cd alla massa e che la nuova rivoluzione (musicale) permamente abbia inizio da voi!
Attenzione: il disco è sicuramente uno dei migliori lavori usciti in Italia nel 2011…potreste diventarne dipendenti!

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Lambchop – Mr.M

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Misero il destino per chi da eroe diventa un numero zero, ma questo non riguarda i Lambchop. La band di Nashville era un numero zero agli inizi di carriera, zeri rotondi come il sole della loro terra: poco musicisti e molto sognatori, nichilisti dell’atmosfera , assertori che un mega blob inconcludente sostasse nel nulla pneumatico della musica. Questo era il lusso frenetico che questi giovani americani senza collare donavano e donano nei loro lavori. Qui al loro undici della carriera “Mr.M”, provano qualcos’altro, rinunciando al caracollare consueto, per un disco- sì malinconico di prassi – ma con accenti soffusamente smooth, jazzly, confidenziali con sospiri di Tindersticks e Wilco a soffiare delicatamente su braci semi-spente di fuochi andati; della band colpisce sempre la vena svaporata, i suoni tratteggiati che in questo nuovo disco sono dilungati a dismisura, in concreto slow song che stirano la tracklist come un lungo ballare delicato e in uno stato mentale d’abbandono e di rimpianti, ma è solo l’effetto delle orchestrazioni che ampliano il lento pathos che regna ovunque.

Undici pezzi, undici “classici” si vanno ad aggiungere ad un ascolto ovattato, fuori memoria e fuoco, da prenderci l’abitudine anche se si crede che questi “giri di boa” stilistici siano solo prendi tempo per ritrovare quella via maestra d’un tempo, che qui man mano pare vada a  scemare su derive incontrollate; detto ciò Mr. M rimane un disco piacevole, allentato ma sincero e onesto, con tanti sogni dentro e pochi effetti speciali fuori, praticamente inesistenti; Kurt Wagner, il leader vocal della band non sì da pace, crea atmosfere cantate sofferte, acide “Kind Of”, “Nice without mercy”, e nel suono totale vivono un crooneraggio alla lacrima “Mr.Met”, un Nike Drake che cavalca il folk di “Gone tomorrow”, arie da night con coretti “Gar”, la ballata bradiposa “2B2” o i violini sparuti che segano le tramature lente di “Buttons”.

Non si può gridare a nessun miracolo, è solo un buon disco che cozza leggermente con le precedenti produzioni e che abbisogna di più di un bel giro di stereo prima che ti rilasci sensazioni specifiche e idonee di un bel listening; del resto non si può pretendere boom discografici dopo lunghi anni d’altrettanti boom già acquisiti, una ciambella con mezzo buco riuscito ci può anche stare, l’importante è non ricaderci e tornare alla propria storia.

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Amp Rive – Irma Vep

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Da quel lontano 1991, quando un gruppo di ventenni trascinati da David Pajo e Britt Walford, plasmarono in maniera netta quello che oggi chiamiamo senza troppi problemi Post-Rock, a ora 14 febbraio 2012 ore 16:26, quali e quanti passi avanti sono stati fatti in merito? Pochi, pochissimi e tanti nello stesso tempo. Il trio classico chitarra elettrica, basso, batteria è stato, di volta in volta, affiancato da synth o altre strumentazioni meno consuete ma la spina dorsale è rimasta sempre praticamente illesa. Il rock strumentale degli Slint è diventato qualcosa di totalmente diverso eppure non è mai cambiato. Il calderone, sopra la fiamma degli anni novanta, nel suo continuo ribollire ha rovesciato all’esterno stili diversi che sono sfociati in diverse correnti scivolate lontano dalla pentola (pensate al Math-Rock dei Don Caballero). Il Post-Rock non era ancora un preciso genere musicale ma il tempo l’ha reso tale. Ogni variazione sul tema di quel celebre Spiderland ha generato diverse correnti musicali. Quello che non è quello che era allora, allora è altro. Ogni ramo partito da quel 1991 è diventato una pianta diversa dal tronco. Quello che resta, Il Post-Rock oggi, è esattamente quello creato tanti anni fa da quei ragazzi di Louisville ed è esattamente quel tronco che ci propongono i ragazzi di Reggio Emilia sotto il nome di Amp Rive.

Nessuna sperimentazione, nessuna voce fuori dalle corde, nessun estremismo o divagazione, niente Screamo Post-Hardcore in onore della madre The Death of Anna Karina. Niente di niente, oltre il cuore. Nuda e cruda musica strumentale. Tanto per capire di chi parliamo, gli Amp Rive sono una band di Reggio Emilia, nata dalle idee di Adriano e Luca dei The Death Of Anna Karina (Unhip Records), assieme a Gualtiero Venturelli (chitarra) e Alessandro Gazzotti (basso). La band nasce nel 2005 con il nome di Irma Vep e negli anni successivi si dedica a un’intensa attività live, aprendo i concerti per numerose band italiane tra le quali Three Second Kiss, RedWormsFarm’s, The Zen Circus e Le Luci Della Centrale Elettrica. Nel 2009 compongono una colonna sonora originale per il film Vampyr di C.Th. Dreyer del 1932, che eseguono in sonorizzazioni dal vivo in diversi festival cinematografici, con la collaborazione della Cineteca di Bologna. Nel corso del 2010 registrano i pezzi che vanno a comporre il loro primo album, presso l’Igloo Audio Factory di Correggio (RE) da Andrea Sologni (Gazebo Penguins) che ha fatto parte della band dal 2007 al 2010 e che ha suonato synth e chitarra nel disco, con la collaborazione di Enrico Baraldi (Ornaments e Nicker Hill Orchestra). Con l’uscita del primo album gli Irma Vep decidono di cambiare il loro nome in Amp Rive, in seguito all’arrivo di nuovi componenti: Enrico Bedogni alle Tastiere e chitarra e Daniele Rossi al violoncello e chitarra.

Il cd, intitolato “Irma Vep” proprio per dare continuità al lavoro svolto negli anni precedenti, è uscito il 1° ottobre 2011 per l’etichetta francese Als Das Kind, ed è stato anticipato dal video della canzone “Best Kept Secret”. Parlare del disco, avrete capito, rischia di diventare un puro esercizio di espressa banalità. Sei canzoni di classico Post-rock senza alcuna via di fuga. Continui richiami ai mostri sacri del genere come Godspeed You! Black Emperor depurati dalle incursioni vocali e dall’alone di mistero che aleggia nell’opera dei canadesi. Dal silenzio totale alla violenza totale come Explosions In The Sky ma senza silenzio e senza violenza. Ma soprattutto tanto tanto Mogwai sound. Tuttavia, ovviamente (avrete capito che il suono degli  Amp Rive si presenta estremamente “puro e ri-pulito” da ogni sorta di variazione sul tema) sempre senza eccessi noise. Per capirci, se qualcuno vi chiedesse di spiegare platonicamente cosa e quale sia l’idea di Post-Rock, arrendetevi, la risposta è tutta in quest’album. Strumentale e moderna classicità che forse nulla aggiunge al panorama musicale italiano odierno in termini d’innovazione ma che ci affascina comunque per la sua poesia. “La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito”. Come se non bastasse la neve a scaldarci romanticamente il cuore in queste altrimenti inutili giornate di Febbraio, c’è anche Irma Vep, non dimenticatelo.

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Bobby Soul – Conseguenze del groove

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Il nuovo disco di Alberto De Benedetti, in arte Bobby Soul, è una sorta di esperimento sonoro che forse accade per la prima volta in Italia: “Conseguenze del groove” è infatti inciso con tre band differenti, i Knickers, i Les Gastones e i Bonobos Boracheros, a seconda dei brani.

Diciotto tracce che vi catapulteranno nell’universo del soul e del funky sin dal primo brano “Conseguenze” in cui il rimpianto critico Ernesto De Pascale mette subito in chiaro che “I negri hanno creato blues, jazz, rock’n roll…noi stiamo semplicemente rivivendo impressioni nate dal popolo di colore”.
Ascoltando questo compact disc infatti si sente tantissimo l’influenza di tutta la musica black con testi mai scontati a volte persino anche ironici, come succede in “Bobby Soul, who the funk you think you are?” e “Un’assouluzione”.
Il singolo “Stringidenti” scritto a quattro mani con Andrea “Manouche” Alesso è molto orecchiabile e le tastiere di Mattia Minchillo trovano qui il giusto e meritato spazio.
C’è anche tempo per la riuscitissima cover di Ritchie Havens  “Freedom” in cui prevalgono la chitarra e le percussioni e che nonostante siano passati molti anni dalla sua pubblicazione non mostra i segni del tempo.

Ospiti prestigiosi del disco Rickey Vincent , il già citato Ernesto De Pascale (a cui è dedicato l’intero album) e Gil Scott Heron.
Certo dai tempi di “73% Phunk” c’è stata una notevole evoluzione e maturazione nei suoni ben evidente soprattutto in “Amore a prima vista” e “L’uomo della porta di servizio” e in “Crudele”, che qui troviamo in una versione stravolta rispetto a quella del disco citato.
Lasciatevi quindi prendere dall’incantevole voce di Bobby Soul, che a tratti vi potrà anche ricordare anche quella di Mario Biondi.

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Mondo Naif – Essere Sotterraneo

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Essere sotterraneo” è  l’opus primo dei Mondo Naif, selvaggia band del trevigiano, perfetta per sbarazzarvi dello stress provocato dai vostri boss o per rimediare alla sempre minore libido sonica della vostra ragazza. Fra echi desertici, miraggi, allucinazioni a loud  stellari e ascolti ripetuti di Marlene Kuntz, Verdena “Eloise” e divinità anni Novanta come i Ritmo TribaleCome me”, “Violenta” il trio snocciola senza ritegno alcuno undici fendenti caotici della miglior dottrina stoner “lunaire” che ci possa essere ancora in giro da qualche parte.

Non hanno tutti i torti i critici del nuovo tormentato corso dei gruppi che ruotano ancora intorno alla figura centrale di questo genere, ed è un corso di chi ama ora o amato fortemente nel passato i bagordi elettrici e bui del suo sistema trasmissivo sonico, fatto sta che è innegabile che sia un “mega dettaglio” che ha sconvolto – tra piacere e dolore – la scena rock mondiale e che band come i nostri veneti ancora ci facciano linciare pelle e udito con la passione di chi il rock lo vive veramente dal basso e non su carta patinata.

E’ un buon esempio di qualità e pathos sacrificale, un disco che esalta – sebbene dalla sua provenienza nei reconditi pertugi dell’underground – grandi manovre stilistiche, tremendamente incisivo e promettente, pronto a ruggire sui grandi e medi palchi dell’attenzione con dolcezza inaspettata come il vento dell’Ovest delle ballate grunge intimiste “Aiutami, sono un ladro”, con lo slancio rivoluzionario dei RefusedLa terra trema”, a fondo nei sulfurei e neri sanguinamenti dei The TheDeuteria, vol. II”, un piccolo diversivo nel punkyes stile Bay Area “Mario”, nei Baton Rouge tra puttane e woodoo alcolici “Boblaito” ed una corsa tra i deliri Tarantiniani’N’roll per perdersi oltre in deserto di Sonora, fra pace, santità e maledizioni a go-go “Y fire”.
Mondo Naif consegna intatta la rabbia vogliosa –  in fondo –  di una libidine mai circoscritta, di una forza magnetica che è “maitre a penser” in un panorama giovane rinsecchito, un’energia polvere e sudore grandiosa in mezzo a tanti prodotti senz’anima. Provare per credere.

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Ektomorf – The Acoustic

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Non c’è che dire, gli Ektomorf ci sanno fare in tutto e per tutto, è un gruppo di un certo livello e lo dimostrano con questa nuova faccia indirizzata sull’acustico. Chiaramente questo loro disco intitolato “The Acoustic” è per l’appunto un lavoro che racchiude tutti i singoli del gruppo in versione acustica anche se troviamo in un modo o nell’altro quel retrò heavy, pezzi che già di loro erano interessanti, ma che riproposti cosi fanno venire ancor di più la voglia di ascoltarli.

Già la prima traccia, “I Know Them”, tratta dal disco “Destroy” pone  una piccola presentazione di questo lavoro acustico, stessa cosa per la successiva “I’m in Hate”. Si arriva però ai vertici con “Folsom Prison Blues”, la migliore del platter per esser sinceri, “Through Your Eyes” e la conclusiva “Who Can I Trust”. Ottima anche la versione di “Simple Man”, leggendaria song dei Lynyrd Skynyrd, proposta dagli Ektomorf i maniera davvero eccellente, se permettete meglio una “Simple Man” degli Ektomorf che una “Sweet Home Alabama” di Kid Rock. Nulla più da dire a riguardo,  “The acoustic” è un buon disco che farà la felicità di tanti, la AFM Records può solo essere contenta del lavoro svolto dagli Ektomorf e della band stessa.

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Farmer Sea – A Safe Place

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Non riesco proprio a capire come si possa non apprezzare questo “A Safe Place” criticandone la scarsa originalità, la ricerca di strade sicure, la riproposizione di qualcosa già sentito. Per prima cosa vorrei sapere cosa avete ascoltato di cosi originale prodotto in Italia negli ultimi dodici mesi. Fatemelo sapere perché forse in tanti ce la siamo persa questa band tanto innovativa. Anzi, facciamo cosi. Rendo la cosa più facile. Usciamo dai confini della penisola (camionisti permettendo). Ditemi anche una band straniera che ci abbia regalato una musica apprezzabile e mai ascoltata prima.

Forse qualche nome potrei farlo anch’io (James Blake?) ma in fondo non saremmo proprio davanti ad una rivoluzione vera. Cerchiamo quindi di non prendere questa storia dell’originalità come un’ossessione. Copiare non va bene; annoiare non va bene. Fare un disco cosi bello va bene, porca troia. Magari ce ne fossero di più di band cosi poco originali e cosi belle dalle nostre parti. Facciamo cosi. Ogni tanto bruciamoci il cervello e lasciamolo da parte (non correte a prendere la bottiglia di vodka che avete nascosto in camera, era solo una metafora. Ogni scusa è buona…). Scrivere una recensione non significa sempre giudicare o dissezionare nota per nota o fare pubblicità (buona o cattiva che sia). A volte è solo un tentativo mal riuscito di esprimere a parole le emozioni che la musica scalda fino a farle bruciare nel nostro cuore. A volte è solo esprimere a parole quello che le parole non possono esprimere.

“A Safe Place” esce a tre anni di distanza da “Low Fidelity in Relationships” ed è interamente prodotto e registrato dal gruppo (la Dead End Street è proprio l’etichetta della band). Come dire: “Il pallone è mio e ci faccio quel cazzo che mi pare”. Le fonti d’ispirazione dei quattro piemontesi sono, a detta loro, R.E.M., Wilco e Arcade Fire. Come vedremo e ascolteremo però, il sound sembra inserirsi in un filone leggermente diverso. I Farmer Sea nascono a Torino nel 2004 e subito si danno da fare con gli Ep “Where People Get Lost and Stars Collide” e “Helsinki Under the Great  Snow”. Il primo sopra citato album esce a cinque anni dal parto ed è prodotto da Borgna (Perturbazione, Zen Circus, Settlefish, Crash of Rhinos). Oltre alle innumerevoli apparizioni dal vivo (Heineken Jammin Festival, MiAmi, tanto per citarne alcune), il loro video “Teenage Love” gironzola per le viuzze di MTV Brand New e Deejay Tv. Nel 2012 è la volta di “A Safe Place” e le promesse fatte negli anni sono tutte mantenute. Un album di una bellezza disarmante già dalla copertina che come una petite madeleine risveglia infiniti ricordi siano essi personali momenti di tanti anni fa o lacrime perdute o il giorno in cui avete avuto tra le mani per la prima volta Spiderland degli Slint (a loro ho pensato quando ho visto quei ragazzi in mezzo al lago).  La musica che racchiude è un elogio all’estetica, con la paura (tema portante dell’opera) come fondale emotivo. Il brano d’apertura “The Fear” è tra i più belli in assoluto e riassume interamente il sound della band. Un Pop semplice, con un ritmo fresco e una melodia orecchiabile. Note che salgono al cielo in punta di piedi ricordando per armonie e delicatezza più i Death Cab For Cutie (probabilmente la band a loro più vicina) che appunto gli Arcade Fire, estremamente più complessi e ricercati. Le note iniziali di “To the Sun” vi ricorderanno un altro inizio eccellente (suggerimento: pensate ai Pavement meno lo-fi) e vi trascineranno in un ritmo meno introspettivo e ancor più rassicurante dell’iniziale brano d’apertura. Schitarrate Jangle e ritornello perfetto che vi regaleranno attimi di felicità. Quel Pop che ci piace tanto e che, negli ultimi anni, sembrava poter essere concepito solo nelle terre mica tanto allegre tra Londra e paesi Scandinavi. Pensiamo ai Fanfarlo o a Jens Lekman, in alcuni punti ai Belle & Sebastien per dire ma non dimentichiamoci mai quella sottile vena malinconica che accompagna e caratterizza ogni momento del disco. “Lights” riesce a caricare le atmosfere con le sue ossessioni martellanti senza mai suonare sgradevole ma anzi mantenendo intatta la purezza del suono richiamando il folk di Wilco senza mai farne agnello sacrificale. “Small Revolutions” rappresenta veramente una piccola rivoluzione. Molto piccola a dire il vero. Il ritmo si fa più incalzante e il basso corre come se gli Strokes avessero deciso di darsi una mezza calmata, mettersi il costume e volare in California alla ricerca della felicità. A metà album troviamo “The Green Bed”, forse l’unico pezzo non troppo riuscito o meglio meno facile da inserire tra gli altri brani e soprattutto “Nothing Ever Happened” in cui la formula mista di pop nordico stile Billie the Vision & The Dancers e Cats on Fire e folk pulito, si amalgama senza sbavature agli arrangiamenti sempre perfetti e alle incursioni di strumenti meno banali del solito (nel disco troviamo incastonature mai azzardate ma sempre leggere, di tastiere, organo, xilofono e sequenzer).

“Number 7” allarga il sound dei Farmer Sea come un’“elettronica rinascita” mostrandoci una botola dalla quale esce lieve l’odore di un Post-Rock scuola Mogwai (pensate a The Sun Smells Too Loud) e prepara la strada a uno dei pezzi più belli, “Summer Always Comes Too Late For Us”. Un vorticoso e ripetitivo lento viaggio psichedelico verso le stelle tra schitarrate stile Girls che appena appena ci accarezzano e parole che come flebili sussurri sembrano echeggiare da un luogo lontano ripetendosi ossessivamente come a volerci tranquillizzare a dispetto di quello che è il loro puro significato letterale.  Momenti che vorresti non finissero mai.  E che dopo sei minuti, finiscono. “Disappearing Season” è forse il pezzo che più richiama i pluricitati canadesi ed è anche quello che ricalca maggiormente la forma canzone per eccellenza fatta d’intro-ritornello-ecc… Aggiunge poco a questo “A Safe Place” ma mantiene costante la voglia di ascoltare. Ultimo brano, “For Too Long”, il mio preferito, prende tutti i punti di forza del disco e li chiude in un fazzoletto. Ritmi lenti e ripetitivi, voce carica di empatia scuola Red House Painters, psichedelica appena accennata a la Girls, musica melodiosa, densa di spleen, affascinante, triste ma non angosciante come abbiamo imparato ad apprezzare dai Death Cab For Cutie.  Una perla di amarezza mista ad amenità e leggiadria. Una pioggia di parole flebili e note appassionate. Un sole dall’odore intenso.  A Safe Place. Chiudo con una frase di una banalità da galera. Tanto, chi le legge le recensioni fino alla fine. Se non fosse stata una band italiana a realizzare questo disco….!?

P.s. Se non gli date un ascolto, vi meritate Giovanni Allevi che accompagna Fabri Fibra che duetta con Albano a SanRemo presentato da Facchinetti, tutta la vita!

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Anais Mitchell – Young man in America

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Amata, odiata, abiurata e bramata, non c’è una pace intellettualmente ferma quando si pronuncia il nome di Anais Mitchell, questa “anomala” folksinger e chitarrista americana che nello stretto giro di tempo – e a dispetto di tanti –  è diventata una ragguardevole icona alternativa, un approdo stilistico a confine tra “indipendenza” e pads roots che colpiscono l’orecchio come del resto la sua voce libidosamente sgrammaticata, off, da gattina selvatica.
L’artista del Vermont nuota nella scia venosa della grande Ani DiFranco, pienamente a suo agio nel ridisegnare in maniera estemporanea i tormenti agrodolci di folk, blues, jazz e country e degli inconfessabili traditionals,  e con questo nuovo “Young man in America” – il sesto della sua giovane carriera – torna a calpestare di poesia mai angolare, le terre imbattute e ancora selvagge della provincia americana dal profondo pathos acrilico; cacciatrice di sogni, demoni, deliri evanescenti, amori e amanti, dolori e panacee di intimità, la Mitchell idealmente non si è mai spostata dalla sua dolce infanzia passata in quella fattoria di legno, ma è cresciuta nella realtà, nella musica e nelle suggestioni pulite e terse come una “vergine” d’altri tempi, tra vento e tramonti.

Molto considerata nel giro del folk alternativo anche dopo una serie di strike discografici – non ultimo il gran successo del precedente Hadestown – il suo modo di suonare e cantare di cieli ed inferni in terra è esemplare, bello e accattivante, potrebbe benissimo sostituire Hope Sandoval negli Opal o coabitare nei lucidi svolazzi dei Mazzy Star, un disco che addensa una personalità splendida anche quando è inscatolato e filtrato dalle macchine “murderer” di “Wilderland” e “You are forgiven”, due brividi su brividi che fanno corrugare la pelle dell’intero corpo; e se poi ci si vuole postare sulle altimetrie della tracklist, con l’ammasso divino di torch songs e ragnatele d’accordi di chitarra ed espressioni looner assorbe totalmente la fisicità dell’ascolto, la vulnerabilità accorata della titletrack, l’intensità di un pianoforte a muro nelle metriche rurali “Coming down”, la dolciastra visione di una Sausalito a  pochi metri dal naso “Venus” o le impressioni di aver lasciato qualcosa indietro nella vita “He did”, “Tailor”,  la botta in testa è garantita, special modo per chi ha dentro l’anima una pelle delicata.

Undici canzoni di rimpianto e rinascita, undici sguardi altrove che confermano una scrittura emozionale e trasmissiva perfettamente in logica con le verità che vengono dal profondo dello scafandro chiamato a volte cuore, scafandro che questa dolce gattina del Vermont scardina e che –  come nella finale “Ships” –  una volta che tutte le storie sono fuoriuscite le affida al mare della struggenza melodica, del suo essere placido ricordo.
Anais Mitchell è una alt-diva senza saperlo.

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Cardinal – Hymns

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Lasciare trascorrere diciassette anni senza registrare più un disco deve essere stata dura per il duo dei CardinalEric Matthews e Richard  Davies – e risentirli girovagare dopo tutto questo tempo tiranno  – onestamente ce n’eravamo dimenticati –  con il secondo lavoro della loro esistenza “Hymns” possiamo credere che l’astinenza sia imputabile più ad uno scarso mordente d’interesse che ad una scelta “riflessiva”, tuttavia pur non avendo spostato minimamente l’asse del loro suono ci si trova davanti ad un disco soddisfacente, ben guarnito di trombe, bagnasciuga westcoastiani, REM, ed il Pet Sound  dei “ragazzi da spiaggia”, nulla che certamente  faccia gridare al miracolo, ma un tranquillo ¾ d’ora, quello si, lo si passa in tranquillità cullati da virtuali solleoni e radioline a pile svocianti.

Disco di colore, che diverte senza fanfaronate, semplice e giulivo come un qualsiasi disco da spiaggia che arriva per allungare i pomeriggi estivi, dieci tracce che faranno il piacere di fan dell’greatest hit a tutti i costi, o se vogliamo dire anche un registrato del quale non si butta via niente, si prende, si carica nello stereo e si lascia libero di emanare il suo tenero complemento d’arredo sonoro senza pretese; chitarre oneste, spesso in tremolo, ballate a trentaduedenti bianchissimi BeatlesianiNorthern soul”, “Her”,  spinette d’altri tempi che si inseriscono come un sogno MozartianoSurviving Paris (Instrumental)”, i Go Between che agitano delicatamente i cerchi di “Radio Birdman” e la quintessenza Wilsoniana che fa buffetti e capriole tra un tucul di paglia e una bibita analcolica rinfrescante sulla spiaggia bianca di “Rosemary Livingston”, ed il risultato è una parata di canzoncine che scorrono l’una nell’altra che rallegrano senza stupire.

Certo il suono dei Cardinal ed il modo di crearlo non concede nessuna variazione, ma se siamo di buone pretese e di bocca buona, non ci resta che farci “travolgere” dalla sua dichiarata innocua traiettoria.

 

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7 Days Training – In a Safe Place

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E’ inutile fare gli artisti maledetti, che vivono di puro istinto. Quelli che si svegliano la notte per scrivere e iniettano litri di caffeina nelle vene, oppure si portano il taccuino sporco di sugo al parco per essere ispirati dalla natura. Io credo che la maggior parte degli scrittori (e per scrittori intendo sia poeti ermetici che giornalisti sportivi) abbia un proprio metodo di lavoro. Io per altro non mi sento neanche troppo tutelato a trovare il mio, dato che faccio lo scrittore come l’impiegato della San Paolo gioca al calcetto coi colleghi il mercoledì sera.
In ogni caso prima di attaccare a scrivere una nuova recensione, vado a pescare informazioni sullo “stile di vita” del gruppo che mi capita tra le mani. Forse per pura curiosità o per deformazione professionale. Avendo una band da tanti anni e conoscendo un sacco di musicisti, provo una sorta di attrazione magnetica in tutti gli appassionati di “suono”.
L’impatto con la band in questione, ovvero 7 Days Training di Frosinone, è stata al dir poco folgorante. Riporterò quindi qui sotto le parole introduttive al loro sito:

Questa band nasce da molto lontano, ma siamo degli inguaribili fatalisti, e in qualche modo ci siamo convinti che avremmo continuato a fare musica insieme così come è sempre stato, e magari anche a far uscire un disco.
Anche se siamo solo in quattro, riusciamo a mettere assieme quasi centotrentacinque anni, ma dicono che non ci sono date di scadenza per il rock ‘n’ roll, e allora continuiamo a far finta di niente.

Questo è il nostro nuovo sito web ricostruito per l’occasione: il 5 aprile è uscito il nostro primo disco, che reca un titolo celebrativo, emblematico, ed “autoesplicativo” (In a safe place) ed è, tra le tante cose, anche un buon motivo per continuare a volerci bene e a riservarci il bicchiere della staffa da condividere quando fuori fa freddo.
E quando il rock è un buon motivo per volersi bene, hai vinto. Chissenefrega se il disco suona molle, se non decolla mai, se la canzone migliore “Beautiful Bleeding” presenta una voce a dir poco traballante, se c’è il timbro sbiadito dei R.E.M. più depressi e dei Radiohead più vivaci, se non hai più il fisico per fare il coglione sul palco e per spacciartela dopo con un bel gin lemon in mano, se non c’è grande personalità nel tuo progetto. Hai vinto il premio più ambito. Nulla ti puo’ sconfiggere, neanche una recensione come questa ti puo’ piegare.
Si perchè nel mio mondo delle favole questo disco sarebbe una bomba: 4 amici che si chiudono in studio dopo tante vicissitudini e tirano fuori il loro capolavoro, un po’ introspettivo e cupo ma viscerale, compatto, denso.

Ma il mio mondo delle favole vorrebbe anche l’uscita di un disco come “Rubber Soul” nel 2012. Infatti in “In a safe place” purtroppo è tutto solo una forte intenzione, un treno di passione che lentamente si va ad arenare contro una muraglia. Le canzoni non esplodono e non si creano mai le tensioni e le atmosfere magiche degne dei maestri moderni di indie-rock.
Poco male, io brindo a un gruppo così. Condividerei con loro proprio un bel bicchiere che fuori oggi fa molto freddo.

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Il Teatro degli Orrori – Il Mondo Nuovo

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Poteva essere il disco dell’anno ma non lo è stato. Tutti nella nostra misera esistenza crediamo con stupida convinzione in un mondo privo di cattiveria, nell’utopia arrogante della felicità senza pregiudizi, in una poesia continuamente stuprata dalla musica. Un (Il) Mondo Nuovo per belli, brutti e cattivi. Il Teatro degli Orrori arriva al terzo disco non senza strascinare a forza quella gamba di legno marcita in pochi ma intensissimi anni di musica suonata, gli abbagli forzati di una scena indipendente troppo condizionata per essere sana. Dell’Impero delle tenebre ( il primo disco) è stato un colpo troppo forte, nessuno di noi credeva in questa rivelazione artistica, il sapore della rivoluzione, finalmente aria pulita, nuova. La critica impazzisce la gente pure, nuovo fenomeno, io sono pienamente a loro favore, darei un braccio per loro. Poi arriva la maturità magistrale e il secondo album A Sangue Freddo, qualcosa sta cambiando ma il fermento è ancora vivo, il cuore pulsa ancora senza sforzo, la consapevolezza di mostrare muscoli e cervello. Il terzo disco si carica di aspettative importanti come il giorno della festa paesana, con scarpe nuove e soldi in tasca, l’ansia di poterlo gustare senza retoriche spacca cervello del cazzo. Il Mondo Nuovo, il terzo tempo della migliore rock band italiana del momento. Ma sapete che la pioggia può rovinare le migliori feste all’aperto nonostante un organizzazione impeccabile? Nonostante tutte quelle fantasiose aspettative create dal tempo, nonostante i paraocchi dicano il contrario. Il video/singolo anticipa disco Io cerco te aveva spaccato l’opinione della gente, un mix di Teatro vecchio stile (Compagna Teresa) e maturità interiore appresa nel tempo (Direzioni Diverse).  Chi lo chiama rock politico, chi parla di musica filosofica caricando di spessore i testi da sempre curatissimi, io vedo una grande band a corto di spunti e con il pesante fardello dei precedenti dischi sulle spalle. Il peso spacca le ossa, Capovilla conosce bene questo insopportabile martirio. Qualcosa viene a mancare proprio quando non doveva succedere, il colpo di coda che non arriva, il pesce grande divora quello piccolo senza scampo, il rock italiano vedeva la propria rinascita nel Teatro degli Orrori? Peccato, il bluff è servito, la terza mano è stata giocata in maniera maldestra. Parola.

Vivere e Morire a Treviso e Dimmi Addio sono i pezzi cardine dell’intero lavoro, profondi e strappa malinconia, una lacrima scava dolcemente la mia screpolata guancia, agonizzante cerco di dare luce ad un concetto sperimentale troppo malmenato per essere apprezzato. Non Vedo l’ora ricorda l’acidità musicale primordiale rievocando un beffardo sorriso materno, un discorso rivolto al cielo. Cuore d’Oceano feat Aucan e Caparezza imprime potenza aumentando la curiosità del disco, soluzione apprezzabile e intenzionalmente corretta.

Il Mondo Nuovo voleva essere il disco dell’anno più di qualsiasi altra cosa, non lo è stato.

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Vibratacore – Good morning pain

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Poco meno di un quarto d’ora per questo ep di cinque brani degli abruzzesi Vibratacore che impattano già dal primo secondo l’ascoltatore contro un muro sonoro devastante.
Good Morning Pain” è il loro quarto lavoro che strizza l’occhio alla scena hardcore old school americana ma che non disdegna riferimenti alla moderna scena metalcore.
L’opener “Doomsday” ne è un chiaro esempio con il suo ritmo serrato che non lascia scampo, ben padroneggiato e sorretto da una chitarra che ricorda gli Snapcase o i nostrani Browbeat.
Si cerca una qualche apertura melodica nel brano successivo, “Faithless”, in cui è ospite anche Teg dei Beyond Murder, dove il cantato violento di Andrea cambia pelle, si fa più morbido per poi riacquistare quel piglio caotico che s’incastra alla perfezione con i tempi moshpit dettati dalla batteria di Marco.

L’esperimento viene riproposto in “Confident Liar“, ma questa volta il singer trova l’appoggio insperato nelle sei corde di Fango, pronte ad arrangiamenti più potabili, senza stravolgere la struttura o penalizzando il brano spostando con troppa decisione il tiro.
La loro arma primaria è la furia compositiva, una furia che non cala mai, rende vigili chi li ascolta, affascinati dal martellamento costante a cui si è sottoposti.
Attimi di quiete sono presenti anche nella title track, che vede Paolo di Rocco in veste di collaboratore, facendo presente al pubblico che se si cerca solo del bieco rumore, i Vibratacore si chiamano fuori: ora c’è l’urgenza di un’evoluzione e a sei anni dal precedente “Behind this Rapture“, che fu pubblicato dalla Audiozero Record, i quattro hardcorers sono tornati più maturi ma soprattutto più consci dei loro mezzi e delle loro capacità.

Questo disco è insomma la testimonianza che musica di qualità di questo genere non è prodotta solo negli Usa e che anche qui in Europa è possibile sfornare capolavori quali questo “Good Morning Pain”.
Questi quattro brani mettono in evidenza anima e cuore…anzi…i Vibratacore!

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