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Litfiba – Grande Nazione

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Ce ne fossero di questi “temporali amperizzati” ad oscurare il triste tran tran della musica che ciondola intorno, ce ne fossero di questi “governi elettrici” ad occupare gli scranni dei poteri (power) per guidare definitivamente la nostra strapazzata “Grande Nazione”. I giorni del gran rock tricolore sono tornati, Litfiba non è un nome che fa parte di un arredamento di tempo fa, hanno e  rappresentano la forza naturale del rock delle verità sociali, della parola “contro” amplificata in tutte le direzioni, e questo gran ritorno sulle scene “unificate” da parte di Pelù e Ghigo è un sobbalzo da vivere fino al cardiopalma.

Grande Nazione, il lavoro della riunificazione vede questa formazione in uno stato fisico e mentale completo, non sembra nemmeno che siano passati ore, giorni, mesi ed anni senza il calore della loro presenza, tutto riprende il suo posto, il suo tassello nel disegno totale della poesia e della passione elettrica delle quali il panorama musicale nostrano ne ha bisogno come il pane; dieci “peccati” taglienti che uniscono la chitarra indomita di Renzulli alla voce luciferina di Pelù come dentro un contratto artistico/umano di solidità estrema, un suono impattante che batte in gola, un serrato incedere da pogo sfrenato, una festa lesta d’amplificazioni e riscatti idealistici che spazzano come un vento di tempesta. Anche ballate da accendino acceso “Elettrica”, “Luna dark” fanno parte di questo disco guastatore e sognatore di vizi e virtù puliti e senza macchinazioni, ma a sorprendere in plus valore è il suono identificativo che i Litfiba da sempre lanciano da palchi veri e virtuali, quel compresso vivo e killer che è risuscitato dalle ombre, special modo da quell’Infinito di lontani tredici anni fa che aveva seccato la gola, torna a scoppiare di salute come non mai.

Quarantaquattro minuti di rock, emozioni e j’accuse ai malaffari, quarantaquattro minuti di fuoco incrociato che vanno dal loud alticcio della stupenda “Anarcoide” alla spirale acuminata di “Tutti buoni”, dal basso dei grandi numeri di “Brado” al movimento serpentino che muove “Squalo” per tornare all’openeir di “Fiesta tosta”, inno consacrato allo stage diving come supremo atto di devozione agli infernali Litfiba.

Non c’è altro da dire, è praticamente come parlare del Vangelo, nulla da aggiungere se non dire una cosa sacrosanta, Grazie Litfiba di essere tornati tra di noi, e con forza invidiante.

http://www.youtube.com/watch?v=wc0cxRMWMn8

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Lisa Hannigan – Passenger

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Amata artisticamente e non senza mezzi termini da Damien Rice con il quale ha condiviso progetti musicali, session e amore, Lisa Hanningan, la rossa cantautrice irlandese, torna a camminare con le proprie gambe sui sentieri folk della sua infanzia e della sua vita attuale, viaggia e tutto quello che riesce a condensare delle emozioni vissute, le raccoglie in questo bel tenero album “Passenger”, undici fiori sbocciati tra gli occhi e giornate impegnate a fare chilometri in giro nel mondo senza mai abbandonare le rotonde convinzioni che nutre per la sua Inghilterra, terra anche di pop e melodie rinfrescanti.

Un disco che vive il proprio tempo o forse di più, che fa stare bene con la testa nei sogni, comodi e con buona pace di spirito, suite e atmosferici field che convincono subito, senza pensarci un secondo, modelli di fantasie sognanti che fungono ad atto d’amore consenziente, pallido e timido, ma consenziente; delicatezze vocali che si accostano a quelle di una leggiadra Vashti Bunyan alle prese con filigrane jazzly e ballate sospese, abbandonate su di una scrittura morbida e soave, un flute di note e poesia da bere tutto d’un fiato.

Di dischi come questo quello che colpisce sempre è l’evanescenza, quel vaporoso sistema comunicativo che sa di pulito e allentato che si fa respirare come ossigeno raffinato; prosaiche come voli radenti di rondini spensierate arrivano le cablate spaziose di “Passenger”, la march-stompin’ “Knots”, il pop radiofonico color arancio “What’ll I do”, stupendo il duetto mozzafiato con Ray LaMontagneO sleep”, l’andatura da ronzino stanco “Flowers” o il pensiero fugace e  solingo di un violino suonato da Lucy Wilkins che accompagna come un sole giunto al declino di una giornata “ Paper house”, ed è un ascolto che  si equilibria tra classico ed indie-folk, ma poi ogni definizione si fa benedire tanto vive di un volo di fantasia di un tot di minuti.

Della serie quello che “non passa il convento”, un bel disco da ascoltare chiudendo il mondo fuori e conservarne intatto il suo analgesico poetame a lungo nel tempo.

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Vote for Saki – Brucio

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Cazzo, questo è un disco rock, c’è ancora chi suona pura musica rock. Devo controllare il pianeta di provenienza di questa band, Vote for Saki dal pianeta Terra, seconda produzione intitolata “Brucio“. Mah, qualcuno suona ancora in maniera vergine chitarra e batteria senza vomitarci sopra basi e basette di merda? Tutto vero, tutto eccezionalmente vero. Sedici pezzi sparati in presa diretta come vuole la tradizione, non ci sono trucchi, non esistono inganni. Ho trovato i dinosauri della musica attuale, sono proprio loro, l’esame del carbonio 14 non mente mai.

Ebbene ci sarebbe poco da dire e molto da ascoltare, i Vote for Saki salgono in cattedra per una lezione di storia, delle volte interessante, a volte di una noia mortale. Perché la novità attira mentre il surrogato alla lunga stanca esageratamente il consumatore ignaro, una facciata bellissima, il retro marcio. Una luce intermittente in un mondo forse non giusto per questo sound istintivo e reale, abbiamo bisogno di bugie, godiamo sporcandoci le mani con la falsità. Un duo chitarra e batteria a rullo compressore attivo, forse troppe songs nel disco rischiano di far calare vertiginosamente l’attenzione, io, da sobrio reggo fino alla traccia dieci, in una live performance li adorerei per ore. Il bianco e nero della musica italiana, “Brucio” dei Vote for Saki potrebbe essere una dolce carezza come un calcio nei coglioni, l’importante è saper incassare. Le incomprensioni si sciolgono come neve al sole, se volete li apprezzate altrimenti non è la strada giusta per le vostre assidue perversioni. Votate Saki, il resto è merda.

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Healthy god – SCREW YOU ALL, I’M HEALTHY GOD

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Musicalmente interessantissimo questo progetto solista di Daniele Amoresano, che sotto lo pseudonimo di Healthy God pubblica Screw you all, I’m Healthy God., che definisce lui stesso di stampo indie rock americano, tra Beck, gli Sparklehorse del defunto Mark Linkous., e aggiungo io The Decemberists e Vic Chessnut. In comune con questi artsti ha sicuramente quel genere chiamato lo-fi, low fidelity, bassa fedeltà con cui in generale si indicano quegli album prodotti non in condizioni di emergenza ma nemmeno da major di successo. Insomma una sorta genere precursore di quello che poi tutti chiameranno indie.

I testi ruvidi, molto simbolici e sicuramente introspettivi dipingono un quadro molto interiore che Healthy God riesce a comunicarci con sentimento e passione attraverso la sua voce calda che si intona benissimo con il profilo lo-fi di cui raccontavo prima. Nonostante un sottofondo musicale avvilito e malinconico, l’autore riesce a trovare i ritornelli giusti che continuano a risuonare nella testa sin dopo il primo ascolto: penso a It’s rainin’ sand e Tiny green beens, brevi e senza inutili orpelli musicali, arrivano in fretta e si scolpiscono nella mente.

In attesa di un album più corposo e completo, giudizi assolutamente positivi per questo Ep, non solo come lavoro artistico ma anche come lavoro commerciale: può avere un ottimo successo nella nicchia che è di questo genere.

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Too much distress – Outlet valve

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Non è assolutamente un disco che si decifra al primo ascolto: forse per  la mancanza del basso, forse la peculiarità di canzoni spesso troppo brevi (la metà dei brani non supera i 2:30) e i testi  semplici, potrebbero far credere ad un disco banale. Invece i testi semplici risultano anche essenziali, senza fronzoli, e il basso è ben sostituito da virtuosismi impercettibili, come l’uso di quella blue note che fornisce il ritmo, tempo e completezza all’intero album.  Queste caratteristiche rendono Outlet Valve dei Too much distress un disco leggero  e alla lunga assolutamente piacevole, come un diesel che ci mette un po’ a carburare ma una volta ingranata la quinta ha sicuramente un lungo rettilineo da percorrere.

Vario nella sua struttura, ascoltiamo in alternanza brani strumentali (Outlet valve su tutte, dove il suo inizio arpeggiato mi ricorda le sonorità dei Metallica) ) e testi interessanti. Primo singolo è Drunked blind, italianizzazione di blind drunk che significa ubriaco fradicio, che già dal titolo rende l’idea di quanto siano diretti i testi.
Questa “troppa angoscia” che caratterizza il nome della band, non mi pare condizioni questo progetto di Stefano Serra (batteria) e Fabio Orrù (chitarra/voce) che appare invece già maturo da un punto di vista di complicità musicale  e ancora un po’ acerbo nelle sonorità; Il suono grezzo, poco pulito, colloca il cd sugli scaffali dell’alternative rock italiano  genere con cui i Too much distress rappresentano la Sardegna in modo più che dignitoso.

Curiosità: prima di essere i Too much distress, Serra e Orrù suonavano già insieme nei Coleman prima, Second self e Shell to tell poi , con una formazione più ampia. Nel 2010 diventano ufficialmente TmD attestandosi come duo e iniziando a lavorare per Outlet valve, in uscita a febbraio 2012.

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Traffic Lights Orchestra – Verde Yellow Rouge

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Chiamarla indie rock è decisamente fuorviante a volte ma è un po’ il modo più generico e facile di indicare tutta quella roba che semplicemente se ne va per i fatti suoi senza seguire canoni e stili attesi. In questo caso forse il modo migliore per afferrare il concetto è semplicemente guardare il nome in cui compare quell’ “orchestra” che spiega tutto. Mille strumenti per mille lingue tutto insieme a generare una sorta di caleidoscopio colorato più che un album. Undici canzoni in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto ma una certezza appare subito lampante ascoltando questo Rouge: questi ragazzi suonano e suonano come si deve! Creativi fino alla nausea, giocano e si divertono a spiazzare continuamente muovendosi con la disinvoltura del Capossela più maturo tra pianoforti, contrappunti elettrici, archi, vibrafoni e percussioni di ogni genere. “Devil” e “Two Times” (accompagnata da un video alquanto riuscito nel tentativo di tradurre in immagini l’arte della band) sono semplicemente stupefacenti in questo senso. Tutto il disco è pervaso da quel gusto per il trasandato e sound polveroso alla Waits, aperto a ogni soluzione sonora e costantemente alla ricerca della chicca da piazzare in ogni brano, sia essa legata ad un qualche strumento in particolare o ad una scelta per un cantato sempre incostante e variegato o per ritmi cadenzati mai scontati. Non stancano mai i brani e anzi il disco lascia parecchio spazio all’immaginazione di chi ascolta fino a lasciare la sensazione che molta roba, magari, la banda l’abbia lasciata in studio e abbia raccolto solo una parte delle idee che vagavano per le teste dei suoi autori.

Professionali. Forse troppo. Ecco magari l’unico difetto dei TLO. Da un primo disco magari ci si attende anche quell’acerba immaturità che lo rende imperfetto e al tempo stesso gemma unica e originale nella carriera di un artista. E invece dopo un po’ di ascolti ti rendi conto che Verde Yellow Rouge suona fin troppo perfettamente coincidente con le intenzioni di chi lo ha suonato, che mai si è concesso errori e non si è mai fatto distrarre da contaminazioni estranee ai propri gusti. Sarebbe bello vederli in preda a follie isteriche degne del miglior Zorn e vista la caratura dei musicisti probabilmente il risultato sarebbe scioccante. …gente ferma al semaforo, bambini che salutano appiccicati ai finestrini, tergicristalli che alle volte vanno a tempo con la radio… un’arte fatta di poesie e lucidi sognatori quella di questi Traffic Lights Orchestra.

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Mark Lanegan Band – Blues Funeral

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Ci aveva lasciato con Bubblegum nel 2004, otto anni d’altro in cui Mark Lanegan ha frequentato altre piste sonore, si è dato a nutrire amicizie collaudate e collaborazioni musicali lasciandosi alle spalle le sue ombre, l’alito alcolizzato ed il puzzo di nicotina come preso da un’ossessione di uscire dal seminato per far perdere le sue tracce da uomo dannato; poi il ripensamento, la voglia di tornare a scrivere di pugno la summa di queste nuove esperienze e le circoscrive in Blues Funeral, l’album del ritorno sulle scene nella morfologia come lo avevamo conosciuto, bello e dannato con i suoi fantasmi blues, le nevrosi rock e appeso ad una voce che fa salire e bollire il sangue come in un tino di mosto eccellente.

Nessuna trasformazione, nessuna sopravvivenza al tempo che scorre, solo un’ombra che si riforma per seppellirti d’eccellenze musicali floreali (già la cover è un preludio al divino fango in cui quei fiori hanno gli steli infilzati) e per condurti nel fondo delle sue stanche umane, senza maschere, parti o copioni da riassumere, Lanegan ama sempre la sua solitudine ma ha imparato a spalancare i suoi vizi al mondo, ci aggiunge un’ elettronica dosatissima e ci ospita  negli androni delle sue storie affaticate e splendide; un artista che è uscito dagli anni novanta col coraggio, da sempre nella maledizione umana delle grandi firme americane e presente nell’oggi con una forza malata che lo contraddistingue tra le poetiche più diverse e lo trascina a rappresentare ovunque quell’anima selvaggiamente irsuta che commuove e fa incazzare.

L’ex voce degli Screaming Trees, accompagnato da Greg Dulli, Josh Homme e Jack Irons e prodotto dal californiano Alain Johannes, srotola ben dodici tracce avvinazzate, laide di poemi e sguardi in tralice che tradiscono una vena – non più sclerotica – che pare sorridere sotto i baffi durante i resoconti sonori che passano uno dietro l’altro; orecchie dritte sui paesaggi oscurati che cadono in “Gray goes black”, sopra la magrezza intima ed acustica di “Deep black vanishing train”, il mantello wave che ricopre “Ode to sad disco”, i riff roboanti che graffiano “Ryot in my house”, “The gravedigger’song”, ed il blues denutrito ed impossessato che  si fregia in “Bleeding Muddy Waters”.  

Tutto quello che rimane intorno è vita vissuta fino alla ghiandole dello spirito, un Lanegan che muore e rinasce nello stesso momento che un brano finisce ed un altro che si fa avanti senza chiedere mai permesso.  

 

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Onirica – Com’e bella la mia gioventù

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Una piccola boccata d’ossigeno, finalmente una disco pop-rock che suona e parla “serio” nell’indie con un calore tutto vintage, profondo e libero da tutti quegli amori sfigati, di quelle belle che gira gira comunque non te la danno o appuntamenti buca con incazzatura inclusa, un disco che man mano srotola la sua tracklist rilascia storie, parole, ritmi nell’onestà di nessun costrutto strategico, con nessun abile sotterfugio che tenti di toccare le corde della mediocrità, ma una serena accettazione riflessiva di quello che succede o succedeva dietro gli angoli di vita.

Com’è bella la mia gioventù” è l’esordio dei campani Onirica, disco di suggestioni e pezzi di vetro che arrivano e si conficcano nell’animo come confidenze di un miglior amico, ricchissimo di pathos e straordinariamente bello nel tono da “ti racconto io com’è la vita”, quel simbolismo che raggiunge livelli alti come un depositario delle verità intime, umane.

Dieci istantanee che fulminano le immagini, uppercut e carezze, lividi ed ironia sono le casse di risonanza di un registrato che arriva anche ad emozionare in certi picchi lirici come lo squarcio su PasoliniGiulia GT” o il ricamo di corde acustiche che cade sul buio di una generazione e i veleni di Sindona e Gelli Canzone per papà”; un album che raccoglie in se un universo sonoro variegato, ma mai confuso, con un unico comune denominatore; raccontare immagini e realtà di ieri che poi sono quelle d’oggi e di domani, canta d’idee e occhiate che spesso vogliamo nascondere come il controtempo che beccheggia sulle differenze razziali “Pied-noir”, il ritmo carrettero che sottolinea i problemi delle morti sul lavoro “Macchine”, il No alla guerra “La preghiera del presidente” e i ricordi della guerra che poi in verità non è mai finita, seguita a vomitare ingiustizie, odi e rancori come una porta socchiusa ma mai chiusa del tutto “La guerra è finita da vent’anni”.        

Canzone d’autore e pop si mischiano in continuazione, elettricità e acustico danzano insieme in questa bellissima rappresentazione di “bellezza” suonata, sempre in sintonia tra realtà e grammi d’immaginario che – una volta assemblate insieme –  si fanno chiodo fisso di un benessere che ti entra in circolo e ti fa suo per una giornata intera “Una coppia”.

Onirica: non lasciamoceli sfuggire. 

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Psiker – Genial

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Ho ascoltato Genial la prima volta ed ho avuto paura. Paura di quello che sarebbe stato il mio giudizio perché è dura scrivere recensioni, giudicare, mettersi su di un piedistallo di cartone e non cadere nella propria coscienza. Estremamente bello e fastidioso.

Difficile parlare male di chi si dedica totalmente alle proprie passioni, lavorando e sudando nella speranza di avere qualche considerazione positiva. Difficile soprattutto pensando a chi raggiunge il successo senza fatica, senza veri meriti.

È difficile parlare di musica. Si può fare in maniera distaccata, fredda, anche superficiale se volete. Come se al mondo non esistesse nessuno al di fuori di voi che scrivete. Si può fare in maniera prettamente tecnica oppure si può guardare soprattutto alle emozioni suscitate dall’ascolto. Si possono fare paragoni col passato o inserire la band che ascoltiamo in una sorta di contenitore fuori dal tempo e dalla storia.

Sono infiniti i punti di vista dai quali guardare la musica, infinite le sfaccettature del giudizio, mutevole il rapporto che si crea tra un brano e l’ascoltatore che diventa la parte soggettiva di tale legame. Quello che oggi è merda, domani potrebbe diventare la colonna sonora della vostra vita. Tante volte è successo a me e a voi, immagino. La prima volta che ascoltai quello che ora considero uno dei dischi più belli mai realizzati (per la cronaca Red House Painters – Down Colorfull Hill), influenzato dalla mia condizione emotiva, mi sembrò una palla totale.

Per tale motivo ho ascoltato Genial più volte ed ho scritto due recensioni. Mescolatele, tagliatele e ricomponetele, buttatele nel cesso entrambe o solo una. Scegliete voi.

Il brano, il disco, è sempre lo stesso. Io sono diverso. Ogni giorno diverso.

Recensione 1 Giorno X

Genial è il primo lavoro contenente brani in lingua italiana dell’artista milanese nato trent’ uno anni fa, più o meno quando il Post-Punk si alzava dalla sua poltrona per cedere il posto al Synth-Pop. L’elettronica di Psiker si lega tanto a quel periodo, lasciando da parte gli aspetti più danzerecci e rivolgendosi anche all’oscurità del genere in continua simbiosi col fenomeno New Wave.

L’album mette in mostra tutta l’intelligenza dell’autore, capace con sarcasmo e disillusione di fermare ogni sorta di giudizio negativo con le sue parole cariche di buona superbia che sembra menefreghismo, ma in realtà è voglia di andare avanti contro tutti.

Le parti strumentali, flauti, campane e schitarrate suonano tanto false quanto funzionali ai brani che siano essi carichi di rabbia oppure comici o ancora pseudo impegnati se non intimi, esaltando le parole di Psiker che con la solita ironia cerca la sua rivincita sulla critica e sulla società attraverso le sue parole pungenti.

Il sound dal quale Psiker prende tutta la sua carica è quel Pop – elettronico anni ottanta che in Italia ha avuto tanta fortuna creando miti oggi oggetto di rivalutazioni revival ma anche mostri (in senso negativo) immortali. Pop sintetico e allegro misto alla Wave cupa e introspettiva. All’estero gli ovvi paragoni (almeno nei loro momenti più interiori) sono con Depeche Mode, New Order, Tubeway Army, Simple Minds, Pet Shop Boys o, volendo essere più attuale, The Knife. Ovviamente le distanze dai grandi nomi del passato sono enormi ma dalla sua, Massimo, ha la possibilità di cantare nella nostra lingua e quindi di ampliare quelle che sono le percezioni emotive generate da una musica spesso troppo rigida.

Le ballate elettriche e visionarie, che rappresentano il cuore di Genial, rallentano il ritmo a fasi alterne, senza però diminuire mai la tensione, senza spegnere l’energia o attenuare l’ironia, mantenendo intatta la grinta di Psiker e anzi aumentando la portata emozionale dell’opera.

Genial è un buon lavoro, coraggioso e soprattutto difficile da realizzare con credibilità e semplice da ascoltare.

Recensione 2 Giorno X+7

Spiegatemi perché dovrei ascoltare un album Synth-Pop nel 2011, suonato e cantato come se la musica elettronica in Italia si fosse fermata a dieci o vent’anni fa. Ho sempre odiato il sound stile Hit Mania Dance, la Disco-Music o il pop orecchiabile (quanto le urla di un porco sgozzato) di Scialpi o Mango. Perché dovrei apprezzare questo lavoro? La musica è vecchia, banale, ripetitiva, poco ricercata, impossibile da ballare, snervante da ascoltare in pieno relax. Arrangiamenti che sembrano appena abbozzati e finti, voce commerciale e inespressiva, con un timbro inutile e capacità limitate. Testi banali, semplici, falsamente ironici. Non si riesce a ridere, non si riesce a ballare, non strappa un’emozione. Come ascoltare Immanuel Casto spogliato della sua sensualità, di una buona voce e con testi che invece di parlarmi di sesso anale, orge, ed escort, sembrano invece farmi la morale. Perché dovrei ascoltare Genial?

Ora.

Genial “è un invito a tirar fuori il meglio di noi. Non è una posizione di prestigio o un nuovo abito che fanno una persona speciale perché il vero genio sta dietro le quinte”.

Oppure…

Genial è un’elettronica e popolare Corazzata Potemkin!

Scegliete voi!

 

Bio (parole di Psiker)

2001: PSIKER diventa il nome d’arte di un giovane cantautore classe 1980. Lo PSIKERstudio il luogo dove nasce la sua musica.

2002-2007: Inizia lo PSIKERproject: l’obiettivo di Psiker è prepararsi artisticamente, per presentarsi all’industria discografica. Un percorso lungo ma appagante in cui Psiker sviluppa un interesse che unisce suono e immagine. In questi anni Psiker scrive molte canzoni che raccoglie in tre album autoprodotti e senza distribuzione: Delivery, Daydreams, Artismo. Prezioso è il supporto di molti che, credendo nel progetto, suonano nei dischi e nei live, partecipano nella realizzazione degli artworks e contribuiscono al progetto artistico.

 

2008: Psiker firma con l’Universo (Lunapop, Zeroassoluto etc.) il suo primo contratto discografico. Il singolo d’esordio, LOGIC, è pubblicato l’1/07/2008 e distribuito online su iTunes, Nokia Store e tutti i principali store digitali. L’omonimo album, scritto interamente in inglese, è pubblicato per il digital download dal 22/12/2008.

 

2009: Psiker pubblica un singolo dal sapore estivo, INSALATA DI RISO, scritto per gioco sette anni prima. Il brano è a oggi il più conosciuto e discusso dell’artista. 2010: GENIAL è il nuovo singolo, pubblicato il 26/03/2010 su iTunes, Nokia Store e tutti i principali store digitali. Da settembre Psiker distribuisce attraverso la piattaforma Sounday.

2011: Il 15/04/2011 viene pubblicato GENIAL remixes, versione arricchita da remix e radio edit, del singolo pubblicato in anteprima l’anno precedente. Il nuovo disco d’inediti GENIAL è pubblicato il 20/05/2011. Singolo e album sono distribuiti su iTunes, Amazon, Ovi, Zune e tutti i principali store digitali.

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Mandrake – Zarastro

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Mandrake illusionista della musica del nostro tempo strappa pensieri come fossero petali gettati al vento gelido di questa giornata, “Zarastro” è il suo lavoro ultimato e presentato da Forears. Ma Mandrake non è il personaggio ideato da Lee Falk ne il giocatore burlone del film di Steno, Mandrake è una band livornese rockeggiante come la pettinatura di un Tim Buckley in cerca d’autore, come una Great Britain degli anni 60, come la musica impegnata ai tempi della crisi economica. Possiamo scrivere di musica fino allo sfinimento, Mandrake presenzierà in tutti i dettagli come il più feroce dei diavoli (The evil meeting). Viola, violino, tromba, lampi, tuoni e saette per un disco senza calo di pressione, un ritmo social popolare come il migliore degli artisti destinati alla dannazione eterna, una band che prende le sembianze di un singolo. Un miscuglio generazionale incontrollato fonde punte di musica tradizionale a soluzioni attualissime, l’indie rock piace perché vario e senza freno. Undici pezzi ben assemblati che danno vita alla primissima produzione dei Mandrake, in alto nel cielo hanno occhi a loro favore, le note si accompagnano di delicatezza innata. E’ pieno inverno, carichiamo i gelidi polmoni con “The Copelands”, il vento taglia i nostri zigomi con inatteso piacere, poi “Nothing is predictable” mi rende nervoso ma bello, “Soft Temple” incide pericolosamente le arterie.

Non c’è bisogno di pensare per ascoltare questo lavoro imparentato con la musica classica, il rock impegnato alla ricerca di coscienze tutte ancora da sporcare, la linea sottile tra il bene e male. Mandrake piace per quello che letteralmente vorrebbe apparire, l’inganno potrebbe esserci ma non si vede, l’illusione lasciamola a chi di musica non ne ha mai capito una mazza. “Zarastro” scoppia nel petto come una bomba senza controllo, tassello irremovibile della musica indipendente italiana.

…e non mi sembra poco…mi sembra veramente bello…

 

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Fabrizio Cammarata & The Second Grace – Rooms

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Per una volta tanto gli Americani potrebbero invidiarci e mordere il gomito quando si ha dentro le orecchie un disco come questo “Rooms” di Fabrizio Cammarata & The Second Grace, l’artista palermitano che, col suo progetto TSG dentro questo nuovo lavoro discografico ricamato di pregevole nu-folk meticciato, apre definitivamente le ali e intraprende – come un novello Lindbergh – le direttrici sonore dell’Alt America, lasciando qua e la  qualche pulviscolo mediterraneo tanto per ricordarsi la base di partenza, la radice profonda che lo ha visto diventare artista.    

Prodotto da JD Foster, registrato tra Sicilia, New York e Portland e che vede la collaborazione di Jairo Zavale e Joey Burns – voce e chitarra dei Calexico – il disco è una meraviglia d’intenti e sensazioni, che vive al di la dell’oceano, lungo gli sterrati amarodolci della provincia americana tra West e allucinazioni , carribotte e saguari ingialliti, tracce che ti rigano il plesso solare e t’innalzano la frenesia di possedere questi “frammenti aperti” che Cammarata evoca, doma e regala; via le mezze misure, si può parlare liberamente d’incanto, si incanto spalmato su undici tracce dalle molteplici direttrici ed equilibri poetici, “stanze” che si aprono e chiudono come mantici d’anima  e storie polverose.

Un disco che è omaggio alla magia della scrittura e del talento immaginario, Cammarata strega a tutti gli effetti con una chitarra e mille ispirazioni di gruppo, forte della sua non locazione artistica e guerriero tra gli interstizi dell’umanità di seconda; e aspettando che l‘intero lotto prenda la strada alta di un futuro prossimo, andiamo incontro a queste eccellenze di linguaggi che si portano avanti con il dondolante macramè esotico di “Alone & alive”, arrivano dal cuore strappato dal petto dalla ballata “Aberdeen Lane”, si nascondono tra  archi e Donovan che languiscono tra le schiume calme di “Down down”, rinvengono nella beatlesiana risonanza di “Pole kitoto” o nell’ubriacatura tubolare che stringe il cielo e lo trasferisce in climax mex-carribean “Highlake Bay”, il tutto senza mai approfittare di vuoti e silenzi.

Si, gli Americani  potrebbero una volta tanto invidiarci maestosamente, e la benedizione di Drake aggiunge quel segno in più che serve per estrapolare la sofferenza poetica dal fascino.  Prezioso come pochi.     

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Il Cane – Il Risparmio Energetico

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La musica ormai è ridotta all’osso. Nel vero senso osseo della pochezza d’idee che purtroppo siamo costretti a far passare durante i nostri ingiustificati ascolti giornalieri. Ma ecco che dal pop si ricava una perla, un generosissimo spunto sulla quale improntare tutte le nostre vogliose rivincite generazionali e urlare fieri che ascoltiamo musica degli anni zero. Matteo Dainese in arte Il Cane scava nella semplicità dell’elettro pop contemporaneo per tirarne fuori un disco fresco e intraprendente, parliamo dell’ultima sudata “Il risparmio energetico” uscito per la sua Matteite Records. E lui lo sappiamo, una vita dedicata alla musica con Ulan Bator, Il Moro, Elio P(e)tri, etichetta e tanto rock.  Impressioni positive e poca voglia di sentirsi ingenui nello sparare a zero contro correnti artistiche diverse dall’indie rock, implorando vendetta nei confronti di chi usa testi e cervello nel fare musica. E non mi pare poco visto che in Italia non esiste solo stupidità artistica e hits da bagno turco, esiste soprattutto gente come Il Cane. E di cani ne abbiamo tanti in questa attuale scena cosiddetta alternativa, di nome e soprattutto di fatto.

Il Risparmio energetico” suona meschinità poetiche senza luce con l’intenzione di addolcire una vita inconcludente e beffarda. Registrato tra l’Italia e l’America assorbe tutto quello che nell’aria si respirava in quei momenti buttando nella mischia un cuore elettronicamente grande senza aver paura dell’effetto boomerang. Critica stronza che implode d’invidia. Tanti nomi come Andrea Appino (Zen Circus), Enrico Molteni (Tre Allegri Ragazzi Morti), Franz Valente (Teatro degli Orrori), Enrico Berto (Amari, Sick Tamburo), Lorenzo Commisso (Il Moro e il Quasi Biondo), Fabio Cussigh (Betzy), Ru Catania (Africa Unite, Wah Companion), Manuel Fabbro (Ulan Bator) e Gianluca Liva (Alfabox) nelle collaborazioni. Un disco da prendere di petto e spararsi sulla faccia degustando pezzi come “Il sole e poi la pioggia” e “Risparmio Energetico”, le vostre considerazioni sull’investimento musicale attuale prenderanno una brusca sterzata. Il pop conquisterà il mondo e noi saremo pronti a spappolarci il fegato per vederlo trionfare.

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