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Piccoli Omicidi – Ad un centimetro dal suolo

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E’ vero, è evidente: come da più parti ho letto in maniera più o meno diplomatica c’è un’affinità spietata fra questa band e ciò che abbiamo ereditato da Marlene Kuntz, Afterhours e compagnia bella… Il primo pungolo che mi giunge è il senso di già sentito, di ripetizione di clichè lirici e musicali già usati (che nemmeno mi sono mai piaciuti così tanto!). Bene, perchè così posso smascherare questo mio limite, invitare chiunque sia affetto da esso a fare lo stesso e cominciare ascoltare Davvero.

E dietro la tendina scopro un paesaggio assolutamente armonioso quanto variegato, un torrente di tracce musicali che scorre ora  ripido e spumeggiante, ora placido e stancamente, necessariamente pungente.
Mai privo di poesia, immune da carenza di passione, il disco richiede un ascolto attivo ed attento per essere goduto fino al fondo dei numerosi e preziosi interstizi che nasconde. Spesso li si riconosce sotto frasi gettate con indifferenza fra le altre, a volte in un abuso di suffissi… frasi penetranti come chiodi, finalmente prive di quella corretta pietà cristiana che appiattisce gli stimoli.
Amabilmente “Ad un centimetro dal suolo” permette di giocare con l’ascolto, a volte pericolosamente, se ti lasci cadere in qualche abisso umano proprio mentre stai galleggiando sulle armonie placide che ingannevolmente lo descrivono.

Musica che “denuncia” e “stimola” con equilibrio fra ironia e rabbia, con alterna efficacia a seconda delle indoli ascoltanti  (gran bel segnale questo!), ma sempre con quell’onestà di approccio che non può mancare di offrire terreno fertile a quanti sappiano e vogliano godersi le cose.

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Nordgarden – You gotta get already

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Tarje Nordgarden è l’artista Norvegese che a trovato l’America in Italia; non è un’illazione progettata ma pura e veritiera constatazione giacché il cantautore ha sempre mirato le sue coordinate vitali nel nostro paese ed oramai fa parte quasi dell’architettura artistica adottiva che l’underground nostrano da tempo va effigiandosi orgogliosamente; “You gotta get already” è la nuova macchina sensoriale che l’artista mette in campo, un  immaginario di folk umorale, soul looner e romanticismo decadente che si pasce deliziosamente di un’Americana slowy che è – in definitiva –  una scelta artistica ben definita, quel candidamente “sorpassato” che fa tanto, ma tanto freschissimo e di primo taglio.

L’artista gode ormai di un nutrito seguito, moltissimi godono del suo suono e della sua timbrica “di frontiera”, del suo accattivante “comunicare” in espansione, un mestiere – il suo – costruito dopo innumerevoli viaggi, sogni e concretezze, e le sue composizioni,   anche se potrebbero suonare uguali, nell’insieme funzionano a meraviglia, e quindi, il problema che certi detrattori cercano di lanciare non si pone minimamente; dieci tracce che posseggono quella bella liquidità stilistica che certamente non si confà per orecchie blindate, leggeri tocchi easy di chitarra sausalita “Leaving”  contornano quella dolce propensione all’essenzialità, fuori dei marchingegni complessi  e dentro quella forbita capacità di andare a “zonzo” per stili e modulazioni, vicino al blues, al fianco del country carrettero “Schiphol blues” ed un passo avanti del soul “Fool to let you go” e del rhythm & blues “You gotta get ready”.

Un disco che ha la faccia a metà tra il nero ed il bianco, senza dualismo, in perfetta armonia e sincrono con lo spirito acustico di chi viaggia col corpo e con la mente, con derive nel musical step “These lovesick blues” e magnifici atterraggi sopra le ali della solitudine SpringsteenianaSome work on you” e delle lacrime Southern Hiattiane che in “Why would she go” lasciano il segno della vertigine; Nordgarden  anche in questo giro da una grande lezione d’arte cantautorale, arte che fa nascere e mantiene in vita tra le trappole dell’esperienza come un coyote solitario, slide e arpeggi, dondolii e armoniche, piani cristallini e il tremore ricostituito di Buckey Jr fanno compagnia a questa poesia composita racchiusa dentro un cerchio plastificato, dentro un cd innalzato a capolavoro dal sangue vintage.

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Ass-OlO – La Pinacoteca Invisibile e Altre Schifezze

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Per molti aspetti non ritengo di essere un tipo particolarmente coraggioso. E non lo sono sicuramente nella adolescenziale attività di guardare film dell’orrore.
Mi fa senso uno schizzo di sangue, mi fanno paura le visioni oniriche, provo ribrezzo per i denti gialli dei “mostri” e sono terrorizzato dagli artigli, persino quelli del docile Edward Mani di Forbice non mi fanno tuttora dormire la notte se imbecco il suo trailer in televisione.
In sostanza sono un infimo cagasotto, quelli che vengono presi spaventosamente in giro alle scuole medie. Ma nonostante ciò, dopo qualche frustrazione giovanile, ora espongo con fierezza questa fifa, e direi che ci vivo benissimo stando alla larga dalle varie “attività paranormali” e da streghe che scorazzano nei boschi.

E’ quindi molto difficile ritrovarmi a commentare qualcosa da cui vorrei stare ben lontano e il disco di Ass-OlO, progetto parallelo di Madrasko (tamburi nei biellesi Barbarian Pipe Band, andate a vedere chi sono che meritano), è tutto ciò che io mai vorrei ascoltare nelle casse del mio stereo. In ogni caso il buon “censore” riesce sempre a convogliare in un meandro del suo cervello le emozioni per dare libero sfogo alla razionalità e all’imperturbabile giudizio super partes. Pratica che in genere a me riesce malissimo in genere. Non riesco mai ad ibernare il cervello, isolando questi stramaledetti battiti cardiaci, ma questa volta ci proverò perché penso ne valga la pena.
I brani di Ass-OlO scorrono lenti e pesanti, quasi come fossero per l’ascoltatore un pesante macigno da trasportare. La ricchezza di sonorità è immensa, un’opera omnia di atmosfere tetre e oscure parole. Un horror movie in LP, che parte con la malata e ambigua figura del pagliaccio in “C-l-OW-n-S” e passa in rassegna alieni, robot umanoidi che ballano a tempo di techno (“Io vedo gli Aglieni”) e orge spettrali, per finire con “Amo-Ur” dove pare che un cuore venga tranciato in mille pezzi da una stridula sega digitale.

“La Pinacoteca” è un turbolento mare di suoni che si infrange in irregolari scogli elettronici e il risultato è un fastidioso frastuono sperimentale che ti fa tremare il midollo osseo. E’ una stridula orgia di mistero e di tensione, incontri di boxe tra suoni analogici e suoni digitali, tra realtà e incubo.
Madrasko riesce a creare una forte tensione, un’infinita attesa che si protrae in tutti i 10 brani del disco e non è forse questa la formula vincente dei grandi registi del terrore?
In definitiva questo è un grande lavoro, una sperimentazione malata che scava nelle viscere più buie della mente umana. Un sorriso beffardo e demoniaco.
Ora lasciatemi in pace, estirpo questo disco dalla mia playlist e per seppellire gli incubi mi ascolto la canzone più schifosamente allegra di Wilson Pickett.

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Arturocontromano – Quello che ci resta

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Della serie “come con pochi elementi/ingredienti si può tirare fuori un pranzetto niente male”, dalla Torino dei Murazzi e del coloratissimo Balon arrivano gli Arturocontromano, combo musicale con dodici anni di mestiere musicale sulle spalle, e con loro il terzo disco, sgargiante e meticciato “Quello che ci resta”, dodici traiettorie che spaziano tra rock, pop e un frullato di stilemi che, anche se non inventano nulla, sicuramente non annoiano l’orecchio e tanto meno assillano l’anima, si fanno ascoltare come un bel raggio di sole che fa cucù all’improvviso in una giornata traballante, incerta, uggiosa.

Il sestetto Piemontese cuce un disco che suona come un classico, ma ha un portamento strano, profondo ed impegnato nelle liriche, attraversato non da quei non pensieri “vuoti a rendere” innocui che purtroppo intasano la musica dell’ultima ora, ma da un’autorevolezza intelligente e attenta su quello che vive intorno al giorno, dentro l’anima e fuori, dietro l’angolo, un’inquietudine sana che porta emozione e pathos tra elettricità e cortocircuiti personali. 

Con lo spiritello di un Rino Gaetano che sorride e s’incazza qua e la lungo le ramificazioni della tracklist, il disco scorre limpido e squillante, abbondantemente musicale e vero, una forza interpretativa che abita in un mondo reale, con quella buona salute che hanno solamente quei dischi che “dicono qualcosa” senza perdersi nel nulla; è musica ideale per riflessioni e rotte soniche da attenzionare, come le incandescenze rock sulle pagine di una vita tutta uguale “E’ ancora mattino”, la circospezione di un viaggio irraggiungibile “Mare ovunque”, la funkadelica che sbatte forte nel “Il paese del terrore”, lo swing latin che circuisce movimenti e lontananze “Insegnava a volare”, l’atmosfera urbana che annebbia le tinte pastello della ballata “Tramonto” o, per tornare all’inizio di questa bella storia, i resoconti notturni di chi il sonno lo ha venduto non per soldi ma per bugie “Bugie notturne”.

Si un “pranzetto niente male” quello apparecchiato dagli Arturocontromano, la loro musica che vive di chiaroscuri intriganti  che va molto oltre la giostrina delle somiglianze, e poi perché la semplicità già si premia da se, ma principalmente funziona perché –  a capo di tutto – ci sono due cose molto, ma molto importanti: stoffa e testa!

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One Trax Minds – Restless

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Ci voleva qualcosa che senza una ragione concreta entrasse prepotentemente nella schiera maledetta della musica punk rock sporcando candidi ma stabili pregiudizi. Un colore troppo caldo per macchiare senza conseguenze queste fredde giornate di fine Gennaio dove nessuna azione politicamente corretta potrebbe cambiare la mia idea di prendere a calci nelle palle qualche impassibile cittadino tricolore. E località di nascita a parte dell’Italia musicale non hanno niente a che fare i One Trax Minds che per Indelirium Records editano “Restless” dimostrando ancora una volta di essere una band senza riposo. Si parte forte con le chitarre riffettone dai sapori difformi, indipendenti, una sorta di animo rock and roll dal cuore blues, dalle sudate traversate californiane alle introspettive rive di New Orleans. Che poi di passione massacrante non ne abbiamo bisogno visti i cattivi pensieri dai quali puntualmente dobbiamo discostarci, il tremore della rivoluzione generazionale investe inevitabilmente l’humor del disco anticipando brividi hard e potenza ritmica impressionante. Figli di un pensiero sincero mettono in musica l’idea di libertà espressiva battendo le quote su un terreno che pian piano si livella a loro favore. Nessuna paura, coraggio di essere se stessi. E “Restless” brucia l’anonimato del genere stampato e ristampato uscendo vincente alla fine di un combattimento emotivo a più riprese. Una tempesta di bombe e poi la quiete. Credere nelle convinzioni artistiche dei One Trax Minds diventa obbligo al quale nessuno può più sottrarsi riconoscendo meriti e lodevoli considerazioni ad un progetto lanciato a tutta velocità. Avete mai provato a prendere un treno sulla faccia senza mai rinunciare alle belle sensazioni che involontariamente si potrebbero provare? Io non tremo e lancio il collo in avanti sospinto da un repentino let’s go!

Finalmente ci scansiamo dalla solita routine amoreggiando violentemente con i rimbombi punk’n’roll di “Restless” inneggiando rabbiosamente la dottrina dei One Trax Minds.

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Muleta – La Nausea

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Con lo zampino di Giorgio Canali alla produzione, il più del lavoro sembrerebbe fatto, ma non è tutto cosi semplice come si vorrebbe, o almeno a sentire questa godibile terra di mezzo tra  punk-rock di penna e pop smaliziato chiamata “Nausea” dei veneti Muleta, la maggior parte della tempra viene sicuramente dalla forza caratteriale di questa formazione che fa capire bene dove vuole arrivare e attraversare col suo linguaggio elettrico e commisto, un bilanciamento trasversale che dal primo ascolto da un risultato ragguardevole, di loud sugli alti livelli.

Otto tracce a disposizione per chi adora lo scavare dentro, lontano da quelle soluzioni prevedibili con pretese alternative e con quella pochissima indulgenza a farsi disco pacioccone, teen, otto tracce che potranno fare dei Muleta gli alfieri splendidi della  prossima spasmodica generazione rock; una nausea questa che attira, lacera e riaggiusta l’anima, una passione bruciante, una diabolica gemma sempre in equilibrio sui fili di una tensione che può esplodere da un secondo all’altro, con quell’alito cantautorale che ricorda – per affinità vocale e atmosferica – le ballate dolci/scorbutiche del primo Bennato La nausea”, “Dino”, “Con i vermi”.

Il debutto di questa band è una bella sorpresa, una piccola indipendenza che ha coraggio da vendere e da insegnare, una ventata d’aria fresca ed elettrica che rigenera l’orecchio, una poetica maledetta che ha anche i suoi momenti che fanno incazzare le pedaliere “Ehi” e torturano il sistema nervoso di un lontano Umberto Palazzo ed il suo Santo Niente Invece no”; i Muleta,  con una line-up in cui gravitano Enrico Teno Cappozzo voce, chitarra, Davide Scapin chitarra, Giulio Pastorello batteria, e Marco Zennari fonico live, danno fiducia e c’è da stare tranquilli per un po’, perché  il rock underground pare si stia rifacendo il tono ed i carboidrati energetici tosti, loro reggono il passo a tante fibrillazioni minori, a tanti entusiasmi interrotti, e quest’Ep di “presentazione” ha il pedigree giusto dell’irresistibile.

Un miracolo sincero che porta ad ebollizione le nuove aspettative del sangue rock.       

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Maraiton – Papa

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Aldilà (inferno) 16 gennaio 2011

 

Ciao mio caro amico poppettaro,

come procede la vita sulla terra? Sei già stanco? Tranquillo, non vivrai tanto a lungo. La fine arriverà prima di quanto immagini. Pensi di finire in paradiso vero? Sei tanto una brava persona. Come tutti i cadaveri viventi senza anima come te, del resto. Mi dispiace dirtelo, ma a casa di Dio la musica è una merda. Credimi, amico. La merda che ti piace tanto. Invece finirai all’inferno. Presto. Non preoccuparti però. Ti aspetto. I geni del rock ti aspettano per pestarti di santa ragione (sono tutti qui, che credevi?, perché “tutto il talento è finito all’inferno”. Lester ci aveva avvertito quando scrisse a Dave). Non resterai mai solo.

Hai acquistato anche quest’anno il box set dei Beatles per Natale, per fare un dono figo? Hai già comprato la compilation di brani d’amore per San Valentino alla tua tipa? Sei andato al concerto di Ligabue con la bandana che ti fa tanto ruocker? Riesci ancora a fartelo venir duro e scopare con in sottofondo Laura Pausini che canta in spagnolo? Continui a chiamare le radio locali e fare le dediche richiedendo grandi classici di Nek? Vai all’Inferno. Verrai presto all’inferno. G.G. Allin ti aspetta con un paio di pinze e una buona saldatrice in mano. Non so cosa voglia farci. Ma mi ha detto che ti aspetta con ansia.

Preparati perché quest’album dei Maraiton sarà la tua colonna sonora per l’eterna dannazione. Questo è il mio regalo per te. Ascoltalo cosi non ti troverai impreparato. Ti regalo un pezzo del tuo Inferno.

 

P.s. Tanto per farti un’idea, i Maraiton hanno due bassi, una batteria, un fonico e due voci. Niente chitarra, carissimo. Rappresentano un progetto prima che una band. Dentro c’è tanta roba. The Bargain, Hilo, The Voids, Mafalda Strasse, Medea, Ceausescu’s Snuff Movie, Verily So.  I tuoi cinque demoni vengono da qui e sono pronti a calpestarti per le strade dell’Hard-Core, del Math-Core/Math-Rock, in vorticosi saliscendi sperimentali, tra Jesus Lizard, Shellac e Capovilla, in un tripudio di sfoghi e urla Noise Rock e Post-Hardcore, in uno pseudo revival Wave/Post Punk, tra parole che faticherai a capire, voci che ti pugnalano da ogni parte e ti sembreranno i deliri di un folle che t’invita nella sua testa malata.

P.p.s. Le parole che senti decantate all’inizio del disco (intro al pezzo Sissy, narrante il sogno di un ragazzo di stuprare la sua ex fidanzata) sono di Andy Casanova, tratte dalla serie “Stupri Italiani”. “Intollerabile; la violenza sessuale è intollerabile. Intollerabili violenze e guerre. Intollerabile l’intolleranza nei pornocritici e nei benpensanti italioti e transalpini. Oscure le nostre zone più remote. Territori da esplorare, inesplorati. Pornografia fa rima con terapia. Avanguardia terapeutica. Ammortizzatori sociali. Integrati senza cassa. Critici senza arte, sempre senza parte. Le forbici censorie di chi ben pensa. Parrucchieri della critica…” Sai di che parlo, vero? Viva la libertà!

P.p.p.s. Uno dei pezzi migliori, Vodka, ci racconta di una bisca clandestina tra gente poco raccomandabile che si ubriaca in un bar di merda e si maledice alla luce del sole, fino a perdere il senso della propria esistenza.

P.p.p.p.s. Certo che, vista la voglia di osare, si sarebbe potuto farlo ancora di più. Papa è come l’ immagine di Colombo che a metà dell’ Atlantico, per paura di quello che avrebbe potuto trovare oltre, si ferma a urlare contro il mare. Per sempre.

P.p.p.p.p.s. A presto, amico!

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“Diamonds Vintage” LED ZEPPELIN – Physical Graffiti

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Doppio Lp che nel 1975 quantificò la potenza e la dinamica emozionale dei Led Zeppelin, il martello degli Dei, che dopo due anni dal precedente e un po’ deludente Houses of the holy, tornarono alla carica con Psysical Graffiti, monumentale tomo che inesorabilmente cade sotto la spietata critica dissacrante per via dei numerosi filler definiti “furbastri” messi a sostegno di una tracklist debole e arruffata. Ma se la critica è una piaga, i Leds sono il toccasana per lenirla. E’ un album che ripesca dagli scarti dei dischi precedenti mischiati a nuove composizioni, immersi nella magia atmosferica di vecchio blues, rock granitico e allucinazioni orientali; tra le quindici takes – ad ogni modo – si percepisce quell’aura esoterica – per i più malefica – che viene sobillata attraverso i testi narrativi  e ossessi di Plant e resi ancor più maudit dalla suprema Danelectro che Page impugna come materia sacrificale. Ambizioso e devastante, il vinile urla, mugola, si contorce tra riff e mellotron, assoli che strizzano la pelle e offbeat di batteria che lasciano lividi all’ascolto; il pedale di basso di Jones è un mantice infernale di singulti che fanno davvero male. In poche parole il rock nella perfezione di una punta di diamante.

L’irrealtà tenebrosa e mefistofelica gira nel rock blues di The rover, nelle visioni offuscate orientaleggianti di Kashmir e nei richiami ancestrali de In the light, ma se si vuole rimanere nel “tranquillo” – per modo di dire – ci si può perdere nelle trame sincopate di Custard pie, nel funky hard-disco Trampled underfoot o nel magnetismo sofferto di Ten years gone. I quattro Zoso sono in forma smagliante, ieratici esemplari vivi di una maestosità impareggiabile, specialmodo Page e quel suo modo di strappare suoni dalla chitarra come pezzi d’anima passati sotto lascivie di slide e d’archetti di violino strusciati sopra; Jones esuberante e perfetto nei suoi clavinet cross e Plant insuperabile nei suoi misticismi vocali e nelle sue allettanti frequentazioni lampo nel country Boogie with stu e Black country woman. E Bonzo? Anche gli angeli hanno una colonna vertebrale, e lui, picchiatore di bacchetta e crash crea l’hard breath idoneo per impalcare di sovrastrutture e ponteggi l’immensa mole di suono del dirigibile. Chiude il rock tirato di Sick again, “ancora malato”, ed è come un presagio nefasto che in questo sesto album del Leds si profila in tutta la sua drammaticità; l’abuso di alcool e droghe, l’improvvisa morte di Bonham e una serie di vicissitudini personali minano la creatività della band che farà rimpiangere a vita milioni di fans, mentre la pomposità del dirigibile pian piano va a sgonfiarsi inesorabilmente.

 

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Madison Affair – Teenage Time

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Questo è un disco che merita più di un attenzione, trattasi di “Teenage Time” album d’ esordio dei tedeschi Madison Affair, un quintetto dedito all’ Hardcore con sfumature Nu Metal ed Electro. Il disco esce per la Let It Burn Records, etichetta che in questo genere ci sta dando davvero dentro, e questi Madison Affair sono una piccola dimostrazione, trattasi di uno dei picchi della label per intenderci. “Teenage Time” mostra caratteristiche e qualità di un certo spessore: a parte il cantato operato con una certa destrezza, troviamo riff e suoni elettronici che in pochi sono riusciti ad usare cosi. Il disco predispone di alcune melodie che non guastano affatto, anzi, rendono questo sfrenato lavoro piacevole e soprattutto scorrevole. Vi basterà ascoltare “New War”, ovvero la traccia d’ apertura tralasciando l’ intro per comprendere ciò che i cinque ragazzi vogliono proporre, certo non c’è nulla di originale ma il disco è fatto bene e la titletrack come “Everything Is Endless” e “Now Let’s Be Honest To The World” danno la prova dell’ attendibilità e della buona volontà dei ragazzi. Gli unici momenti più intimi e calmi si hanno con “Rainbow” e la stravagante “The Hardest Storm”, canzone di chiusura in cui l’ Electro predomina su tutti i fronti. E’ chiaro comunque che anche questo genere è sovraffollato, perciò per poter tagliarsi un proprio spazio bisogna faticare abbastanza, fortunatamente le doti dei Madison Affair fanno si che la band combatta con le unghie e con i denti. Non resta che fare affidamento sul gruppo e dargli una piccola possibilità che credetemi la meritano tutta.

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Hands of Orlac – Hands of Orlac

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Specchio delle mie brame, chi è più horror dell’horrorame? Tra i tanti fuochi fatui, vampate di zolfo e copiose “piene” di sangue gocciolante che l’Avis d’ogni parte non ne vedrà mai altrettanto donato, che da sempre coreografano le mitologie e le fastose “messe in opera” dell’Horror metal e derivati, si fa avanti il debutto ufficiale omonimo dei romani Hands Of Orlac, band immolata alle falangi dei rifferama lamettati e a quello spirito occulto e paranoico che si veste di doom, claustrofobie e poco rassicuranti profezie nerofumo; con un moniker tratto da un film americano del 1924 del regista Wiene, gli Hoc hanno un suono posseduto a metà, che vorrebbe richiamare figure inquietanti ed influenti come King Diamond, ma anche i nostrani Death SS, Goad o Black Hole, oltrechè investire con passione morbosa il “seguitare nel tramandare” il sintomo malato, intenso e pestilenziale dell’horror specifico dentro gli intestini profondi del rock.

C’è anche da dire – oltremisura – che da un gruppo di tal cotta ci si aspettava qualcosa di molto più pesante, molto più ansiogeno e velenoso, invece tutto scorre in queste sei tracce inedite più una cover “Demoniac city” dei Black Hole, come si sei fosse “alla luce del giorno” e non negli inferi torbidi e bui tanto declamati, gli arnesi del mestiere ci sono tutti ma girano alla larga “cattiveria e insidia” che di conseguenza portano l’ascolto ad un qualcosa che di “pauroso” ha poco o quasi nullo, praticamente un senso sonoro che sta in bilico tra il progressive alato e un metal doom buono, ma di prassi, come milioni attorno; il cantato femminile apportato da The Sorceress  – ogni componente ha un nome criptato – addolcisce di troppo l’atmosfera cadente e doommata che il disco tiene in serbo, come pure l’adozione del flauto tra gli arnesi sonori della band svia in territori Prog, alleggerendo oltremisura il già debole impatto totale “Vengeance from the grave”, “Lucinda” su tutte; per ritrovare sembianze “disumane” occorre cliccare l’indolenza sabbatica di una Diamanda Galas che circuisce  “Castle of blood” o il delirium tremens che emana “Witches hammer” dove gli spiriti guida Sabbathiani e le memorie inestimabili degli Uriah Heep prendono le fruste in mano e picchiano sodo, poi tutto sfila via, senza quella sacralità maligna che rimane di solito appiccicata ai woofer quando un disco “nero” passa di lì.

Un debutto “sospeso”, ma che con certe smerigliature da apportare in lungo e largo la vera dannazione avrà modo di venire fuori, intanto l’inferno è da rimandare, toccando ferro e “organi nascosti”.

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SUPER DOG PARTY – The Big Show

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Ormai siamo abituati ad ascoltare musica sporca contaminata da qualche influenza bastarda, abbiamo perso la memoria di quello che furbamente eravamo. Non sappiamo distinguere più il bene dal male. Un disco di puro rock potrebbe sembrare cosa indigesta, noi abituati a mettere post davanti qualsiasi  genere per rendere il tutto più interessante almeno a chiacchiere. E di chiacchiere ne fanno poche i Super Dog Party con il loro disco (hard) “The Big Show”, un lavoro tecnico e pulito da fare invidia alle sfarzose tecnologie musicali odierne, una lezione di musica prima di andare a letto.

Ci vuole molto coraggio nel presentare tale musicalità negli anni zero, ci vuole passione e disinvoltura da vendere. Questa band alza un monumento al rock d’autore proponendo argomenti vecchi ma non noiosi, c’è sempre un fondale inesplorato dove cercare oro. Vogliamo drizzarci poi i peli delle braccia con un suono di basso degno di chiamarsi tale e di una ritmica vera da far inchinare qualsiasi drum machine? Le sensazioni sono vere lasciando ad altri il piacere dell’insipido sintetico, ne abbiamo ingurgitato troppo in questo decennio musicale, ora basta. I Super Dog Party ragionano con la loro testa dando vita ad un disco con qualche capello bianco ma comunque interessante, il fascino del brizzolato. Abbiamo ancora bisogno di band che ci ricordino da dove siamo venuti, nel bene e nel male siamo tutti figli del rock and roll.

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ForasdominE – Electric Ofelia

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Electric Ofelia non è sicuramente un disco “facile” da ascoltare, ma non privo di spunti interessanti. Innanzitutto è ben suonato e, quando il progetto è strumentale, è un requisito fondamentale. L’architettura rock fornita da un uso equilibrato della chitarra si sposa bene con uno sfondo che pare più classico e tenebroso che ci accompagna in ogni traccia; non a caso il disco è influenzato da un universo musicale molto vario, che va dalla musica classica al metal.

Inoltre la mancanza del testo è ben sostituita dal concetto di musica come evocazione: sul sito web di ForasdominE possiamo trovare un immagine associata ad ogni canzone; intento dell’autore è lasciar che la musica ci trasporti, e queste immagini sono le sue trasposizioni visive di ciò che per lui le sue stesse canzoni rappresentano. Quando dico che non è un disco “facile” da ascoltare alludo proprio a questo, e credo che vada preso nella sua totalità per essere gustato al meglio. The last but not the least, la scelta dei titoli. Penso sia necessario in un disco strumentale trovare la giusta armonia tra musica e titolo, se questo concetto di musica evocatrice vuole essere portato a termine. Electric Ofelia (Ofelia dell’Amleto di Shakespeare), Lilith Fatmah (Lilith è un demone femminile mesopotamico associato alla tempesta), rendono bene l’idea di come il dramma e l’oscurità traccino una linea guida a tutto l’album e alle sue sonorità.

Curiosità: ascoltate Classic Variation and Themes di Timo Tolkki cantante degli Stratovarius, album pubblicato nel 1994. Electric Ofelia me lo ricorda molto nelle sonorità cupe e per questi richiami al classico reinterpretato. Un plauso a ForasdominE perché creare da zero e da solo, essendo polistrumentista, un disco di questo genere non è affatto impresa da tutti.

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