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Dillon – This silence kills

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Acuta, per aver capito le doti insondabili della rete dove lei stessa si è fatta conoscere con dei suoi video cliccatissimi, fortunata per aver incontrato il talent scout Dj Koze che sentendola, ha voluto puntare carte importanti sulla sua arte e sulla sua musica. Dominique Dillon de Byington, in arte Dillon esordisce per la Bpitch Control – dopo svariate esperienze – con questo disco “liquido”, “This silence kills”, una favola minimale, un sabba etereo dove elettronica, pop dilatato, Bjork, Robyn, Dresden Dolls, un freddo esistenziale e una melanconia che si taglia col coltello, giocano in tutte le posizioni possibili per tenere alto e vivo l’interesse necessario lungo la sua durata d’ascolto, riuscendoci in pieno.

L’artista berlinese chiarisce, con un timbro vocale bellissimo e fuori degli schemi, che è possibile guardare ben oltre i capostipiti del genere, paragonarsi senza timori reverenziali con chi “col gelo” ha fatto fortuna e fama mondiale, e con queste premesse si capisce che sì a che fare con un carattere forte nascosto dietro un’esistenzialità appannata come un vetro d’inverno; un bel disco che rimane a galla come una medusa senza peso, tra i suoni ovattati digitali ed il pop intimo, sotto l’elettronica poco colorata e sopra le bolle d’aria  di canzoni lontane, minimalistiche, un suono totale di un mondo che non abita il nostro, ma possiede tutta la liricità e il cuore palpitante della “solitudine bambina” che la Dillon si porta dietro da sempre.

Prodotto da Tamer Fahri Ozogonenc del Collettivo post Kraut MIT e da Thies Mynther (Phantom/Ghost), il disco è una dedica esplicita alla lattiginosità della malinconia, a quegli splendori offuscati che si ribaltano e delineano oltre certi paralleli onirici, nordici e a tu per tu con la ricerca di un qualcosa che scaldi, a volte ci riesce come nella teatrale operetta che si muove in “Tip tapping”, nelle pieghe di un pianoforte “Thirteen thirtyfive” o nella dinoccolata sensazione che vive in “Hey beau”, ma successivamente il climax ritorna sotto zero e pare nascondersi a fondo nelle sembianze del bel “Debut” di Bjork, specie se si scende ad esplorare le coralità breeze di “You are my winter”, gli intrecci vocali  appesi a tastiere celestiali “Gumache”, per finire in baldoria campionata sulle orme schizoidi delle CocorosieAbrupt clarity”.

La 23enne Dillon, comunque stupisce a tutti gli effetti, lassù dal suo mondo personalissimo e “below zero” trasforma ghiaccioli in stelline di tutto rispetto, e fornisce anche una chiave di lettura aperta delle sue musiche, quella che da ragione a molti detti popolari, praticamente che le cose migliori, quelle da conservare gelosamente, arrivano unicamente dal freddo.
 

Max Sannella

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The PotT – To those the eyes of god

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To Those In The Eyes Of  God” è il primo passo ufficiale della band torinese The PotT, ed è tutto meno che esizialeità creativa, anzi una rinnovata forza e una ritemprata maledizione con direzione i neri contorsionismi dello stoner, di quello poco rassicurante, specie poi quando la band lo inietta di una soluzione elettro che fa tanto noise avveniristico, del tipo soundtrack per metropoli disperate ed in preda ad allucinazioni collettive.

La band mette in pista un articolato corredo di deliri, angosce ed un paludoso stato comatoso da cui s’intravedono tanti mondi e qualche fondamentalismo come fonte di ispirazione dentro una tracklist che non alleggerisce mai la sua corsa verso gli inferi doloranti, un disco emaciato e pieno di lividi formidabili, la giusta colonna sonora piena di ombre che potrebbe devastare l’inquietudine di un ascolto sopra le righe; un disco dal passo pesante, dall’umore darkeggiante e dal sangue stratificato, amaro e nero come la pece, un limbo dove rotolano ossesse le carnalità degli APC come le rivelazioni mistiche dei Tool a fortificare l’intenzione primaria di questa formazione a disintegrare l’esistente ed eccessivo cromatismo stilistico che il genere, ahimè, sta prendendo.

Potenzialmente il registrato mostra numeri importanti, arrangiamenti ricchi e ambiziosi il giusto, musica che deflagra appena viene immessa nel circuito uditivo, romantica come un calcio nei testicoli, di rara perfezione informale “Showing muscle” e perfettamente “residence” nei territori acri, devitalizzati e psich dei deserti dell’anima “Prison of social conformity”, “Sick”; tutto quello che impazzisce nel corpo sonoro dell’album è rischiarato da un sole pallido, malaticcio, da quel malessere amplificato e distorto che si sovrappone in una micidiale proposta vincente, rifferama ed elettronica da pelo e contropelo, poetica empirica e Dei  da bestemmiare si accoppiano come in una lussuriosa prova d’amore.

Buoni gli asimmetrismi robotici “In this hole”, le distonie pompanti di “Alice”, beato il noir del siparietto lullaby che si apre su “SBV”, un insieme di nove fiamme premonitrici che si abbattono contro un ascolto contemporaneo ed ai bordi della notte; la Sinusite Records – al contrario del moniker – ha buon fiuto, e questi The PotT ci mandano a dire che – se anche in queste canzoni ci sia più luce dello stoner consueto – non vuol dire minimamente che il fuoco sacro dell’inferno sia spento.

Piccolo gioiello sciamanico, specie nella ghost track!

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Miriam Mellerin – Miriam Mellerin

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Sabato mattina di una pessima settimana passata in compagnia di un tipo in accappatoio che chiamano Drugo che gironzola nella mia testa raccattando cartoni di latte semi vuoti e pezzi di vetro. Il mio corpo rintanato in una casa vuota accarezza una tarantola che ringhia ai miei demoni che picchiettano dietro la finestra del secondo piano del palazzo. Come una bestia osservo i poliziotti che picchiano un barbone che mi somiglia addormentato a terra ubriaco. Tutta questa gente che dorme all’aria aperta non rende la cosa invidiabile. L’attesa del nulla non m’innervosisce. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Le case esplodono una dietro l’altra intorno a me, nascondendo il rumore del vento e degli aerei che ci bombardano sotto il sole freddo. Le casse bruciano lacrime di rabbia. La stanza è colma e sazia di energia. La sento stillare dalle pareti nere. Tutto sta per esplodere. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Sette candelotti di dinamite infilati nel culo dell’anima.

L’omonimo debut di Diego Ruschena (voce, basso), Daniele Serani (chitarre) e Andrea Ghelli (sostituito a fine 2011 da Pietro Borsò, batteria) propone una formula che pochi altri in Italia ci hanno proposto in maniera credibile soprattutto con l’uso della nostra lingua. I pisani caricano il Post Punk e il Post Rock di puro energico Noise rischiando, a tratti, che tutto esploda tra le loro mani.

L’album inizia con “Parte Di Me”, episodio tanto intimo, soprattutto nella parte vocale, quanto demoniaco in quella strumentale. Alla voce di Diego si aggiungono subito quella di Lady Casanova (The Casanovas) e il clarinetto di Edoardo Magoni, tanto che il pezzo è quasi spaccato in due in verticale da una linea retta che divide l’empatia della vocalità dei due dalla pesantezza del sound a tratti echeggiante il Black Metal meno potente e più teatrale.

“Made in Italy” rappresenta il dito puntato contro il sistema Italia, il suo campanilismo, la sua pseudo libertà, la sua incapacità di reazione. Il basso è il reale padrone del pezzo. La linea guida che ci accompagna fino alla chiusura. Il resto è a tratti cacofonico senza volontà, soprattutto il coro che incita alla fuga, piazzato in alcuni punti del brano in maniera assolutamente inopportuna. Pensate al minuto uno e quindici secondi in cui il giro di basso che anticipa il coro e le sue parole “Scappa”, creano un suono che puzza di sbagliato alle nostre orecchie. Cosi le note psichedeliche della chitarra al minuto uno e cinquanta che finiscono per impoverire il pezzo invece che arricchirlo.

In “Insetti” torna la voce di Lady Casanova a supportare Diego che stavolta invece di recitare corre come un ossesso. I Miriam Mellerin riescono finalmente ad alzare quel muro sonoro che stavamo aspettando. Non siamo però ancora davanti a qualcosa di maestoso. Sembra sempre mancare qualcosa.

Con “Trust” un altro mattone si aggiunge a quel muro. L’inglese sostituisce l’italiano e il sound si fa pulito ricalcando il più classico Alternative Rock e Post Grunge degli anni novanta.

“Ostrakon” inizia in perfetto stile Spoken Words con una melodia estremamente semplice e ripetitiva. La rabbia, la potenza espressiva è tutta affidata alle parole e le urla di Diego ma alla fine il risultato è un pezzo troppo banale per essere vero con cambi di ritmo (degni di essere considerati tali), praticamente assenti. L’ovvia ingenuità di ragazzi per lo più ventenni si palesa in questo brano in maniera netta.

“B.H.O.O.Q.” anch’essa cantata in inglese rappresenta l’apice della creatività dei Miriam Mellerin. Finalmente un brano eccelso che racchiude tutte le qualità proprie dell’album e plasma quelli che ne sono i punti deboli trasformandoli in qualcosa di apprezzabile. Il brano esplode immediatamente, scaricando rabbia e potenza nella nostra testa senza riguardo alcuno. La chitarra di Daniele stride sperimentando improvvisazioni rumoristiche eccezionali. Al minuto uno e venti circa senza preavviso alcuno si vola. Diego canta poche parole in spagnolo ed entra in scena la tromba di Marco Calaprina che sembra echeggiare come il ricordo di un incubo prima di impazzire totalmente in chiusura di brano.

Siamo in fondo. “Stilnovo” prende in prestito le parole di Cecco Angiolieri e pur essendo il brano di buona fattura crea un certo imbarazzo nell’ascolto dovuto al palese tentativo di intellettualizzare la musica nel modo più semplice possibile.

In teoria l’album è alla fine. Aspettate qualche minuto, però, prima di riporlo nella sua custodia. C’è un fantasma che vi aspetta. Rock strumentale nudo e crudo, grezzo e graffiante. L’ultimo morso letale della tarantola Miriam Mellerin.

Tante cose da migliorare. Tanta carica ed energia da incanalare, affinché non si disperda inutilmente. Tanto potenziale. Potenza e teatralità, passione, testa, cuore e sangue.  I tre hanno tutto quello che serve per diventare grandi.  L’importante in un disco è che ti ponga nella condizione di voler continuare ad amare la musica. Ci siamo. Ora serve di più.

P.s. Io lo prenderei un secondo chitarrista. Voi no?

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Mapuche – L’uomo nudo

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Un tempo non troppo lontano cantavo stronzate accompagnato dalla mia  chitarra scordata che non sapevo suonare e il cervello offuscato dalla stupidità della giovinezza portava alto quel senso di onnipotenza che massacrava involontariamente il mio fisico (è la storia di qualcun altro, il fisico era mio). Strano ma non sarei mai potuto diventare un cantautore lodevole, non ci ho mai neanche pensato. E in questo periodo di crisi economica e morale il cantautorato diventa subito ragione di vita, un mezzo indolore per manifestare le proprie frustrazioni realizzando canzoni poeticamente attuali dal maligno sorriso.

Enrico Lanza al secolo Mapuche entra di forza nella fitta schiera dei menestrelli incazzati di questi stupidi anni con razionale presenza. “L’uomo nudo” è il suo disco ruspante. Voce devastante e impegnata, la band accompagna il sentimiento nuevo dell’attuale razza umana padrona di un pianeta privo di valori indispensabili per il sano e logico vivere comune. Folkeggiante nel sentirsi vicino alle persone nella maniera più efficace lasciandosi incastrare da quel rock and roll timido elettrizzato da una chitarra picchiata decentemente, una carezza in un pugno per Celentano, una moglie paziente era la bottiglia per Dario Brunori. Finiremo col farci del male, le donne perderanno il clitoride e con esso il piacere, non abbiamo bisogno d’amore noi arroganti venditori di dolore. Un disco ricco di motivazioni, ne abbiamo ripetutamente bisogno, il calore personale di chi suona canzoni d’autore alla ricerca di corpi vergini ancora tutti da modellare. Mapuche piace e convince anche quando tutto ormai sembra perduto irrimediabilmente, un lavoro dal cast deciso, Cesare Basile tra i tanti. Viene voglia di riprendere la chitarra e urlare nuovamente.

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Freddocane – Freddocane

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“The only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at same time, the ones who never yawn or say a common place thing, but burn, burn, burn, like fabulous yellow roman candles exploding like spiders across the stars…”

–         Jack Kerouac

 

Senza dubbio il punto forte dei Freddocane sono i testi il il loro modo di usare le parole. L’uso frequente di figure retoriche e uno stile, che come loro stessi confermano, deve molto alla letteratura di Jack Kerouac e alla sua “prosa spontanea”, spesso confusa con un non stile ma in realtà il modo più difficile per affrontare un testo: poche regole e un proficuo uso di figure retoriche. Bisogna saper dosare bene ogni parola, e Beppe Fratus, Ivano Colombi e Stefano Guidi dimostrano di saperlo fare, dimostrando anche un’ottima capacità di accoppiare parole e musica, che non è da tutti.

Ho rilevato nel disco quattro filoni ben definiti e collegati fra loro. Insane, traccia con cui inizia l’album e che riprende a suo modo le considerazioni di Kerouac sulla follia, è un notevole esempio di come accoppiare le parole fino a crearne quasi una poesia con la loro musicalità. E proprio la follia in cui non si distinguono né i suoi aspetti positivi né quelli negativi, ripercorre tutte le tracce. Come allo stesso modo possiamo intravedere il passare inesorabile del tempo come condizione di immobilità e paura. Questo concetto è ben scandito in Dentro il tempo dove il ritmo del pezzo è dato nuovamente dalla musicalità e dall’armonia delle parole; andando avanti nel disco immobilità e paura diventano pian piano confusione mentale e stanchezza, concetti che si vedono realizzati in Nebbia e Stanco. Un finale più cupo e psichedelico raccoglie in pieno tutte queste sfaccettature di un disco all’altezza delle sue ambizioni.

Primo singolo dell’album è la traccia n°5, Freddocane; sono però convinto che questo lavoro possa esprimere il meglio di sé se ascoltato come fosse una traccia unica, per le evocazioni di immagini che riesce a procurare nel suo tutt’uno.

Curiosità: potete notare che la voce ETICHETTA è rimasta vuota. Per ricollegarci a Kerouac e a quella generazione di cui era stato fatto portavoce, la beat generation, in un saggio del 1958, la scrittrice e giornalista Fernanda Pivano scriveva: “…i ragazzi raccolti sotto il nome di beat generation…non sono professori o scrittori professionisti aggrappati ad un impiego in Case Editrici o giornali…ma giovani che credono nella vita ma respingono i sistemi morali e sociali e vogliono scoprirne da sé di nuovi sperando di trovarli più efficienti”. Concetto che mi sembra in piena sintonia con le parole apparse in un comunicato stampa dei Freddocane: “non hanno mai cercato etichette discografiche che li producessero non per snobbismo, ma perché teorici del DIY che, se fatto bene, è più che sufficiente, l’album si può acquistare solo ai concerti o contattando la band, perché il contatto con chi ti apprezza è più importante della monetizzazione”.

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Marco Spiezia – Smile

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“Satanasso, questi faranno strada, questa è musica esplosiva per smuovere le chiappe e pompare il cuore”; questo è quello che esclamò un po’ di tempo fa Paddy Moloney (Chieftains) attraversando l’Hyde Park dei buskers corner mentre un allora sconosciuto e allampanato Eugene Hutz si destreggiava tra mosse avvinazzate, urli e folk’n’roll forsennato insieme a quattro picari sconvolti che un giorno si riveleranno i Gogol Bordello; e questo potrebbe essere anche il pensiero a yo-yo nella testa di chi incappa in questo fulminante Ep “Smile”, un tre tracce – chiaramente con le dovute quote stilistico distanziali dai sopraccitati – da inseguire e non perdere di vista e ascolto, poiché hanno la peculiarità di correre, agire e stringere il tempo in una rutilante goduria di gran classe musicale. L’autore? Il cantautore Marco Spiezia che, con la sua voce e chitarra, insieme alla sua band composta da Luca Taurmino batteria e Danilo Asturi basso, riesce nell’intento di  fissare i suoi accordi frenetici tra le giovani e nuove passioni musicali che si stanno cercando col lumino pur di “credere in qualcosa” di veritiero; dunque dicevamo swing, libertà e ritmi slogati, tre tracce che ci salvano dalla dannazione eterna dell’hipsterismo imperante per portarci nel caldo guascone, canaglia e beatamente retrò della rappresentazione azzeccatissima e atmosferica da pajetta in testa e performances sulla Tube Londinese, tra doo-woop urbani e nigger dreamers che pubblicizzano Apple-cake sbrodolanti, una decisa strattonata sulle strade del piacere uditivo che non ci aspettavamo neanche a pagarla oro.

Musica e pensieri, non solo suoni in diffusioni, tutto si concentra nel dissipare i black things che transitano quotidianamente tra i neuroni già spossati da tanto altro nel charleston punzecchiante “Smile”, il dolce fiatone ska che fa dinoccolare ogni resistenza dovuta alle castrazioni che tante cose vanno ad impedire il riprendersi la propria libertà vitale “Scaramouche” o la polka-western che vuole tagliare “gli interessi” di tanta carta moneta e le teste magari ad altrettanti banchieri “Apple tree”; senza ombra di dubbio tre canzoni scritte come squarci urbani di pura resistenza poetica a tutto, condite con  contemporaneità e la precisa logica di sorprendere.

Marco Spiezia, dopo svariate esperienze in terra d’Albione, viene a seminare la sua goliardica verve in terra natia e nel compendio della nostra fragilità “esterofila” notturna possiamo finalmente riprendere in mano la dicitura “è nata una stella, ma di una galassia finalmente nostra”!  

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Disguise – Second Coming

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I Disguise non sono nuovi al pubblico italiano, anzi, alle spalle hanno una carriera di ben tredici anni che oltre questo nuovissimo “Second Coming”, vantano nel loro repertorio di altri due dischi ed un demo. Il percorso intrapreso dal gruppo nostrano è stato uno di quelli davvero costruttivi: se prendiamo in considerazione “Human Primordial Instinct” e questo “Second Coming” si nota subito in primis la qualità del suono e dopo, oltre la crescente tecnica anche l’ uso di determinate atmosfere che in un genere come quello del Black Metal se inserite in maniera non attenta, rischiano di rovinare buona parte del lavoro. “Second Coming” è cosi il disco definitivo, quello che testimonia della maturazione dei Disguise, insomma è un disco che la dice lunga. A parte il buon cantato di Vastator Mentis, ma i riff creati dalle chitarre sono veramente affascinanti e tracce come “I am Alone” e “To Dominate”  ne fanno da prova.

Ma veniamo ai punti forti che riguardano le atmosfere in chiave abbastanza elettroniche inserite dalla band: le troviamo in diverse tracce e come dicevo prima sono usate a dovere, queste non cercano di creare suoni epici come spesso viene fatto per il genere in questione, i Disguise hanno tentato il connubio con l’ elettronica e ad esser sinceri in parte ci sono riusciti perché in fin dei conti “Second Coming” è un buon disco, più che piacevole. I Disguise sono una realtà italiana, in un modo o nell’ altro  sono riusciti a trovare un proprio spazio e a far propri una schiera di Fan, il motivo è il più semplice: è un gruppo che ci sa fare con tanta voglia di mettersi in mostra.

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Consenso – Un disco onesto

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Delle volte non riesco a dare il giusto peso alle cose sputando arroganti giudizi neanche ne avessi il diritto, dischi bastardi da prendere con le pinzette per coglierne quel senso troppo nascosto, un giorno allargherò le mie vedute. Un disco pienamente elettro vintage dopo riesce a mettere in crisi chiunque lo ascolti, il duo Consenso porta sotto la nostra attenzione un lavoro reclamato schiettamente “Un disco onesto“. E questo risulta essere vero, la semplicità rimane indubbiamente la colonna portante dell’intero disco onesto, basi elettroniche non esageratamente complesse con voce light che canta in inglese e italiano testicini stimolanti e demenziali allo stesso tempo, un binomio scaccia rimpianti. Un rischio che vale la pena correre se i consensi stranamente sterzano tutti a loro favore nonostante non riesca a trovare nulla di confortante, l’istinto pensa positivo, la ragione vorrebbe impiccarsi. Chi la spunterà? Chi sono i Consenso? Riuscirò a scacciarli definitivamente dal mio agonizzante corpo?

Niente da fare e complessivamente mi trovo in faccia una creatura geniale dinanzi la quale bisogna soltanto togliersi il cappello urlando disperatamente per scacciare i cattivi pensieri, sound dance anni 80 inizi 90 con l’ombra di Battiato sullo scalino d’ingresso. Non finiremo mai di stupirci questo è ovvio. I Consenso alla ricerca di consensi ancora tutti da guadagnare, si gettano nella mischia scegliendo soluzioni poco semplici da interpretare ma dalle interessanti prospettive se si guarda a pezzi come “La struttura” del quale esiste anche un video clip. Tutta roba nostrana, un disco che mantiene una propria identità rispettando tutte le regole per essere definito “Un disco onesto“.

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Corrado Meraviglia – Parlo sempre con le persone sbagliate

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Se tra le sconfinate proposte di nuovi cantautori dovessimo  evidenziare solamente quelli davvero degni di nota per i loro effetti speciali, si parlerebbe mediamente di tre, quattro o al massimo cinque dischi l’anno; eppure sono centinaia gli altri diamanti grezzi che potrebbero essere osannati da critica e pubblico se “strappati” dal sottobosco e messi in luce, nudi e crudi,  come si dovrebbe, cantautori che si rifanno alla vecchia scuola dell’intimità esistenzialista, di quel magma di spore poetiche  trasversali che hanno un loro vitale e indipendente respiro. Tanto per essere nel discorso eccone uno di quei diamanti grezzi, si chiama Corrado Meraviglia, ligure di Savona e “Parlo sempre con le persone sbagliate” è il suo disco, il suo personale mantra cantautorale che scava come acqua un evidente  smania di amplificare la storia delle sue storie, con semplicità e senza quei camuffamenti last minute che giocano l’astuzia ed il vuoto a rendere; dunque tracce che – dopo un rapido giro d’assaggio – scorrono canaglie e si fermano, a turnazione, dentro, rimangono in circolo e danno la scossa al pensiero, storie intime e urbane, amori e rapporti andati, constatazioni che non sgomitano, ma che vanno al sodo, trasmettono e questo è tutto, non cercano di mantenere quella freschezza finta degli esordi gloriosi, sono oneste e stupende.

Scovato ed intelligentemente catturato per il rooster della label La Fame Dischi, l’artista Meraviglia con questi registrati sorprende sinceramente, undici tracce belle, sono pochi rimasti a lavorare così, con questo taglio solitario, schietto, riflessivo senza prendere la scorciatoia della routine e dell’imitazione, pochi davvero; prettamente in solitaria, acustico e bisbigliato – salvando piccole esplosioni elettriche “Un nuovo inverno” e soffusi stati allucinati “Graffi” – il disco è spudoratamente affiatato con il looner che si porta addosso, livido del colore dei ricordi appannati “01:00 am”, il non ritrovare nella mente i punti focali di un passato “Quattro anni a Roma” o l’intarsio d’arpeggi che in “La tua vita” fa il sangue amaro come dentro un cinematismo brullo ma pieno di cose inespresse che vengono sputate fuori come in una confessione definitiva; Corrado Meraviglia – e già il cognome è un buon presagio – è uno di quei nuovi poeti che morde la vita ma dalla parte dell’anima, come un Drake o un nostrano Zampaglione, e se questo è solo il “primo disco”, chissà quello che verrà poi, è un’allerta per  tutti,  aspettiamo ancora bellezza & Meraviglia ad intasare i nostri ascolti, a riempire i nostri spudorati sentori.

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Jumping Shoes – Non contate su di me

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Non contante su di me. Ovvero, perfetto esercizio di stile.

Prima di parlarvi della musica volevo congratularmi con quel genio che ha scelto la copertina del disco. Nome di band e album in un bel font rosa, cinque soggetti che, cosi vestiti, potresti trovare insieme solo in una casa di cura (su tutti, eccezionale Sergio Bartolucci, batterista della band, col suo cappellino sempre in rosa girato a metà), espressioni che non sai se ti stanno prendendo per il culo o cosa. Poi giri il disco e la confusione peggiora.  Marco Radicchi, che nelle foto fa la faccia da duro pronto a picchiarti, fluttua nel sistema solare salutando ogni nostra certezza con l’aria tranquilla di chi non gli frega un cazzo. Geniale. Se non conoscete già la loro musica, ditemi che cosa ci si potrebbe aspettare da questo casino che ho tra le mani.

Ho ascoltato il disco e tutto ho trovato tranne quello avrei dovuto intuire. Prendete quattro ottimi musicisti e un altrettanto bravo cantante, fateli suonare insieme e il risultato sarà vicino alla musica dei Jumping Shoes più di quanto le immagini vi potessero suggerire.

Il gruppo nasce nel 1988 e da allora le novità più importanti sono l’innesto della seconda chitarra e il cambio di voce, da Amir Billal a Samuele Samba Bracone.  Non contate su di me è la quarta tappa del loro lento viaggio e a differenza dei lavori precedenti, “Out of the Window” demo autoprodotto, “Nightpieces II” compilation con la Dracma Records e “Limbo like a bubble” con la New LM Records, stavolta i brani sono proposti in lingua italiana.

La musica è puro Alternative Rock italiano con le radici negli anni novanta e soprattutto sempre aperto alle contaminazioni. Ascoltando l’album troverete Hard Rock, Funk Rock, sfumature Rap e accenni minimi di Elettronica, momenti Pop e schitarrate Metal, Psychedelia, Faith No More, Prog Rock, Jane’s Addiction (noterete una somiglianza anche nella voce di Samba oltre che nella musica) e tanto Rock puro. Eppure non ascolterete un incomprensibile calderone. Ogni innesto, variante sul tema, ogni riferimento, s’inserisce alla perfezione nel semplice puzzle della musica dei Jumping Shoes. A livello strumentale il lavoro è perfettamente ordinato e preciso e l’alternarsi di momenti più carichi, con altri intimi, i passaggi dal Pop meno impegnato alla maggiore ricercatezza, i continui cambi di colore dell’album avvengono tutti in perfetta armonia, legati dalla bellissima voce di Samba.  I testi rappresentano la parte meno importante del disco. Troppo banali, sia quando seri sia quando scelgono la strada dell’ironia come in “Caramelle” e comunque sovrastati dalla bianca magnificenza della musica.  A questo punto sarebbe opportuna una maggiore attenzione alle parole per dare un senso alla strada della lingua madre e soprattutto salire quel gradino che permetta di guardare la massa delle band italiane dall’alto ed evitare di essere fagocitati dalla calca della mediocrità.

È il quarto lavoro per la band e forse è questo il momento più importante della loro carriera. Ora è ora di fare sul serio.

 

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Distorsonic – Dose Minima Letale

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Parole e distorsione. O meglio poesia distorta, perché di poesia si tratta in questo disco bello denso del duo romano Distorsonic.

La band è formata da due veterani della musica underground italiana: Maurizio Iorio, basso, parole e distorsione (appunto) e Gianluca Schiavon, batterista che ha accompagnato One Dimensional Man e Skiantos.

Dalla prima nota dilatata di basso parte il richiamo al rock nostrano più rabbioso e libero dalle catene pop, quello che pone le radici nelle cantine e si dirama nei centri sociali. Una pianta che cresce in autunno, in luoghi umidi e lerci, che fotografa il degrado e l’(auto)distruzione di una società sotterranea fin troppo nascosta ma viva e piena di bava alla bocca. In ogni caso una pianta assai comune nel panorama indipendente: i Massimo Volume proponevano queste sonorità già 20 anni fa.

Dilatato come un elastico spanato, frenetico come la forma distorta delle luci autostradali, ossessivo come un altalena che continua a dondolare senza nessuna spinta, violento come la sigaretta del killer dopo la strage, furente e decadente. La lirica è sempre curata nel minimo dettaglio da Maurizio Iorio e a volte impreziosita dalla voce coinvolgente della doppiatrice Raffaella Castelli (“Carne Cruda”).

Detto questo, due sono i grandi pregi di “Dose Minima Letale”. Il primo è tecnico: il suono di basso, splendidamente registrato tanto da tagliare a metà le casse dello stereo.

Il secondo punto di forza è di essere un album di immagini: fotografie sbiadite, scenari cupi di sgabuzzini illuminati soltanto da una piccola lampadina nuda, appesa al soffitto. Il sole qui non lo si vede mai, regna il gelido pallore e come recita “Stordito da una gioia fredda”, la felicità è solo l’ultimo rantolo della vera passione che va a morire.

Un disco che passa il testimone della rabbia alla signora rassegnazione (“un cane rabbioso senza denti con la bocca impastata”). Un disco che di questi tempi è dovuto, ma forse non necessario.

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Fadà – Polvere di musica

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William Fusco in arte Fadà, musico del lato sghimbescio della  nuova arte cantautorale emergente, esce con il primo disco ufficiale della sua carriera “Polvere di musica”, un dieci tracce che suona come un diabolico ronzio infinito nelle orecchie, un crescendo vertiginoso di storie, storiacce e storioni grandi come i sogni appannati di un Capossela rilassato, dieci tracce con le quali non si può usare il termine “una tantum” per farsi capire: appena in circolo, come bislacche farfalle, ti si appiccicano addosso e ti ci rimangono per molto, con una ironia  che sposi immediatamente o in men che si dica.

Un artista, Fadà, che sfugge ad ogni epitaffio che di solito si affibbia ad artisti stravaganti e fuori delle righe, e l’inusitato effluvio che il disco emana ti porta alle pendici di sensazioni caricaturali psichedeliche, forse il versante ancor più allucinato di un Marcovaldo strampalato, una forma teatrale della musica con tutti i panneggi della poesia contaminata dall’idioma sonico indie, un modo inafferrabile di stare sull’onda degno dei grandi equilibristi scenici della benedetta surrealità.

Polvere di Musica, polvere di stelle e di palcoscenico, ma anche una infinita professionalità che, nell’effetto d’insieme di questa tracklist, trasporta in ogni angolo del sogno, del delirio e della circense botta di libertà che Fadà si prende e si permette alla faccia di tutti e di tutto, dentro un incredibile aggiornamento di vita e relativi scazzi d’intorno che lui fa salire a galla dal profondo malessere che fa scrigno inviolabile alla quotidianità.

Se i testi scavano volentieri nel melò esistenziale, il marchingegno musicale disvela un impasto denso di trame disco-elettroniche “Antidoto”, forte di “tonfi RnB” e boccoli Caparezziani “La donna cervello”, fresco nel beat seventies “Il poeta”, liquido nel funky, jazzly che sembra uscito dalle magie di Franco CerriLike a danz”, magico nella stupenda visione deformata di “Perfect face” e pirotecnico nella spennata gispy che strattona “Souvenir”, sì un impasto che si fa perla e fermaglio di un progetto discografico che, ripeto – non ha bisogno di ripetuti ascolti per essere annesso al nostro patrimonio underground  – occorre solamente dargli carica, prepararsi ad un volo libero ed il gioco è fatto.

Fadà crea un disco che non è solo un disco che suona e canta, è anche una stupenda pellicola che “si sente e non si vede” di devastante contemporaneità.

 

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