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Marco Smorra – Marco Smorra e i Tempi Moderni

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Non capisco bene perchè, ma l’ombra di Rino Gaetano pare rincorrermi freneticamente. Sarà destino (a cui per colpa dell’età inzio a credere sempre di più), sarà voluto (adoro lo sventurato Rino), sarà che ciò che ha valore (non solo in musica ma in ogni forma d’arte) lo ritrovi ovunque, nelle piccole e grandi cose di tutti i giorni e lo fai tuo come fosse un raggio di sole, con la pretesa che illumini soltanto la tua faccia quando sai benissimo che sta scaldando un’infinità di persone.

Ebbene io vedo Rino nella politica, nella religione del popolo, nella vita sociale che siamo costretti a inventarci, ma anche nel traffico frenetico il venerdì sera, negli sconti al supermercato, nella televisione a tavola e negli sguardi dei lavavetri ai semafori.

Ma per ora mi limito a raccontarvi come vedo Rino in molti giovani cantautori del nostro paese. E come anche questo Marco Smorra, classe 76 e nato in provincia di Napoli, prenda spunto dal cantante calabrese, senza scadere in una tragica emulazione.

Il disco ha un titolo a dir poco ambizioso che richiama il capolavoro di Chaplin e il ragazzo in questione ci propone un simpatico mix tra funky rock (un applauso alla grande band che accompagna Marco) e canzone di protesta. Musica sospesa, come l’aria che respira l’acrobata nel salto da un trapezio all’altro. Un filo tra l’irriverente spensieratezza del circo e la tensione di un salto nel vuoto: una vita piena di precariato e di ingiustizie sociali ma vissuta da chi non perde l’antico vizio dell’ironia. Proprio in questa caratteristica vedo Rino.

I testi in questi “Tempi Moderni” però sono ancora acerbi, troppo diretti e il surreale non viene ben ereditato, qui è solo un gioco di luci un po’ svarionante, un illusione. Tant’è che l’episodio più riuscito sembra essere la cover di Stefano Rosso, “Colpo di Stato”, dove purtroppo si nota la distanza tra la grande canzone italiana e le critiche affannate ad escort e reality show. Per il resto del disco ci sono troppi riferimenti diretti e troppe parolacce che (anche se giustificate dalla rabbia) non sono ben accette tra i clown con la chitarra in mano.

Insomma alla fine dello show la bombetta in testa il ragazzo se la merita, non gliela si puo’ estirpare. Però Rino rimane attuale anche oggi e me lo vedrò in ogni dove ancora per lungo tempo, mentre le invettive di Marco contro Maria De Filippi e i suoi tronisti spero svaniscano molto presto, insieme a tutta la programmazione di Canale 5.

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Matta-Clast – Inferno

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L”Inferno” dei Matta-Clast è un frenetico e allucinato ritorno all’originaria carica psicologica del Rock, la discesa introspettiva e mid-velenosa di un sintomo plagiato dallo scavare dentro, dalla lacerazione ossessiva d’anima e sangue che non trovano pace, requiem e linfa alla luce del giorno, che adora la notte come energia vitale sul mortale; la formazione Perugina qui con il loro secondo album, distribuiscono ansie, disagio e paranoia in un viatico elettrico che porta undici stazioni soniche lungo una tracklist che brucia, segna e scarnifica l’ascolto formando un’orgia di riverberi e nervi tesi come estratto esaustivo della loro “malattia di vivere” l’esistenziale.

Tutto è impatto duro e straordinario con il mondo al di qua dei coni stereo, un mefistofelico e desertico “imbevuto” d’estetica noir –  a tratti color bluastro/ecchimosi – che poetica espansioni violente e calme piatte come dentro un cinematico progressive che non conosce contenimenti o linee proibite di sorpasso; con l’intensa atmosfera KuntzianaUn po’ di disperazione sospesa nel buio” che permea i tormenti generali del registrato, timbriche, eccitazioni elettriche e pads sintetici fanno la voce grossa non come incarnazione estrema del musicista cercatore di stranezze emaciate perdute, ma come una diabolica tac del’Io ed il tentativo convinto di evidenziare il male del quotidiano, nudo e crudo nella sua impietosa mossa venefica.

Undici piste che regalano brividi ed obscured vision, undici tratteggi che il trio umbro formato da Nicola Frattegiani voce/chitarra, Paolo Coscia sinth e Tommaso Boldrini batteria/ SH 101/vocoder ti fa arrivare direttamente sottopelle come un dolce supplizio mai concordato, come una pena da scontare con te stesso; percorrendo questo bel disco  andiamo incontro al Luciferino sconquasso di “Inferno”, capovolti dagli spiazzanti effetti doom che cesellano “Replica”, stritolati nei marchingegni rock rutilanti “Campo K”, schiacciati dall’apparenza kraut che robotizza “Allarme all’alba incauta” per finire a cavalcioni estasiati dentro la notte amarognola di Corganiana memoria “Cattivi pensieri in una bellissima notte stellata”, attizzata da un pathos che mette luce e bellezza maxima e porta le quotazioni – già di per sé alte – di questo disco a livelli immaginifici.

Dal de profundis alle stelle, questa è la liberatoria ideale per questo bel ritorno sulle scene discografiche dei Matta-Clast, di questa band che non usa il “basso” tra i suoi arnesi sonori ma gestisce divinamente i suoni del buio per fare definitivamente luce in un underground che senza queste “ toniche sollecitazioni” rimarrebbe continuamente al palo.

http://www.myspace.com/mattaclast

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Stahlmann – Quecksilber

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Ecco un disco che emozionerà e farà la felicità degli amanti dell’ Electro Rock simpatizzanti dell’ Industrial, trattasi di “Quecksilber” secondo disco degli Stahlmann, un quintetto tedesco che nella loro patria oltre che essere affermati e adorati, sono stati inseriti in quel che è la NDA (Neue Deutsche Harte), una corrente nata in Germania nei primi anni 90. Ebbene questo “Quecksilber” non fa altro che confermare le capacità degli Uomini di Ferro (questo il significato di Stahlmann), il lavoro di Mart e soci detto in partenza è promosso a pieni voti. Il loro Rock elettronico condensato con una spruzzatina di Gothic ha dato prova di talento e voglia di fare, insomma potremmo considerarli una promessa. “Quecksilber” si apre con la stupenda melodica e tetra “Engel Der Dunkelheit”, un pezzo da 90 nonché la traccia più bella del disco insieme ad “Asche” e “Diener”. La chiusura è affidata ad una versione remixata di “Tanzmachine”, la terza traccia del platter è la versione originale di quest’ ultima che a dirla tutta non rende bene come questa modificata. In definitiva “Quecksilber” è un gran bel disco gli Stahlmann sono riusciti a procurarsi un proprio spazio mostrando le loro doti, non resta che seguirli. Di questo passo ci procureranno belle sorprese.

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Snow Patrol – Fallen Empire

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Gary Lightbody & C., ovvero gli Snow Patrol, band dal sangue diviso tra Scozia ed Irlanda del Nord finalmente hanno lasciato nell’indifferenza la vecchia label Jeepster –  che non aveva mai creduto loro fino in fondo –  per abbracciare la Fiction e finalmente, con il lancio sul mercato di questo bel “Fallen Empires” come inaugurazione di questo contratto, la diceria che si allungava sin dagli anni novanta d’essere luce di rimbalzo dei Belle And Sebastian va a farsi friggere una volta per tutte.

Band odiatissima da tanti colleghi, specie i Maniac Street Preachers per vicissitudini personali e legali, gli Snow Patrol rinascono come la Fenice, ritornano a piacere con il loro indie-pop fatto di corse e passeggiate, riff e attitudini riflessive, e ritornano anche guardando indietro, ripescando ricordi, memorie, pentimenti , desideri e sogni che non danno sintomi di melanconia appiccicosa, piuttosto quella tenerezza e pathos ben definite tra chitarre variegate e spruzzi d’elettronica.

Quattordici tracce che fanno una collana di canzoni imperniate principalmente sul buon gusto e su una forza di recupero impressionante, che vanno a delimitare apertamente lo spirito originario della soggettiva alternative per fare spazio a nuovi innesti stilistici, a nuovi impulsi creativi, senza dimenticare le origini corali; prodotto ancora da Jacknife Lee, il percorso degli Snow Patrol si va sempre più illuminando per fare in modo di coinvolgere più matrici soniche, ed in questo nuovo disco d’occasioni ne offre a valanghe come gli ospiti che ci girano dentro. La ballata elettropop che zampilla epicità morbida “Called out in the dark” nella quale interviene Tory Van Leeuwen (QOTSA),  il leggero brivido disco che corre in “The weight of love” con finale gospel integrato dalla presenza del coro Losangelino Inner City Mass Choir, un salto nel passato melodioso 90’s “This isn’t everything you are”, un po’ di freddo etereo SigurosianoBerlin”, gli U2 che fanno cucù in “In the end” e per finire in gloria “The symphony” un gioiello da palinsesto dello spirito, da etere da respirare come ossigeno di lunga vita;  sono tutte canzoni che aspettano di essere ascoltate a loop, tutte prove musicali di grande personalità e spregiudicate fino all’osso che solo una band come questa sa regalarci.

Un ottimo disco stratificato che si scioglie, ad ogni giro e alla faccia delle calorie, come burro.

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Pecora – Black Albume

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Fermarsi all’apparenza e rimanerne estasiati. Ad un bel visino giocoso dietro cui si nasconde una violenta punitrice.

Così mi sono fatto incantare da questo album(e) dei Pecora, band a dir poco sperimentale, che presenta una copertina a dir poco geniale data l’assonanza con il celeberrimo disco nerissimo (che poi era scuro solo per la copertina) dei Metallica.

Dall’uovo spiaccicato sul 45 giri mi aspettavo un contenuto a dir poco scherzoso, o per lo meno sarcastico, che mi rimandasse ai fasti versi di Giorgio Gaber e Jannacci. E invece di tutto questo c’è solo un piccolo pizzico di sorriso in un oceano di sintetico e di cupa digitalizzazione.

A differenza degli amici metallusi, questo album è proprio nero dentro. Nero come la rabbia che cresce in un disoccupato di 40 anni, nero come chi spegne la luce perché ciò che vede è più nero del buio, nero come chi chiude gli occhi per bestemmiare ad alta voce. Nero come l’ironia stanca di chi ricerca parole (e le ricerca in profondità) pescandole una alla volta, sandendole bene tra loro, in un deprimente gioco di società. Il gioco però riesce bene, richiama la giusta angoscia e non trattiene la smorfia storta di chi in realtà non si arrende e continua a pescare.

Ad accompagnare questa delirante attività ci sono basi minimal che ripetono alla nausea loop freddi e grigi al sapore di punk digitalizzato. Il risultato, nonostante paia essere buttato nel mixer come si butta la frutta (marcia) nel frullatore, scorre omogeneo e uniforme. Certamente non piacevole all’ascolto.

Ma forse da una band che dispensa perle come “sono meglio di Gesù, sono vissuto di più e in tutti questi anni, ho fatto meno danni” non ti aspetti sonorità piacevoli.

 

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2 a.m. – The End. The Start.

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Non ci sono anniversari di sorta per festeggiare ulteriormente il suolo natio e tantomeno  poco più fertile del brit-pop in tutte le sue declinazioni, vizi e virtù, è come forzare una porta spalancata milioni di volte ed ancor più deficitario aspettarsi colpi di coda o nuove rivoluzioni accordate; il duo di Senigallia 2 a.m. composto da Andrea Marcellini e Andrea Maraschi pare, a dispetto di previsioni chiacchierate, glissare la pillola amara del “ancora qui?” con una verve personalissima, una buona vena sconfinata che riesce ancora a far indorare uno stilema oramai giunto al capezzale dello stato rugginoso. “The End. The Start” è l’Ep d’esordio – già anticipato da quattro singoli in formato digitale – ed è un sette solchi in cui si ritrova, come ad un appuntamento pre-serale nel focus dell’inverno, tutto l’universo malinconico, ironico ed acuto della Manchester (non la Mad) e della London fumè , di quell’inglesismo di stampo ESP e di quell’eccitazione notevole di marca Suede, Blur, Kaiser Chief, Coldplay..

Un Ep organico e perfino gioioso, che porta a termine la resa sonica di rendere già “classico” qualsiasi delle sette “tracce ossatura” di questa snodata prova discografica made in Italy che non ha nulla da inviare gli originals d’oltremanica; tracce che se ascoltate in mezzo all’impertinenza di tanto bailamme che si agita d’intorno, fanno distinzione ed onestà, un’esultanza che non diventa mai sfacciata euforia, eleganti e passionevoli, schizzate e belle a tempo indeterminato, dritte e distorte come i gradi di commozione Oasisiana che vibrano qua e la “Love me and leave me”.

Decisamente godibile nelle sue traiettorie nebbiose e solari nel contempo, ottima la foschia waveggiante che disturba lo spirito di “You’re more (than who you’re told to be)”, tenera, gigiona e triste la spennata in minore che si fa ballata intima “PG”, la confidenza acustica bisbigliata con quel Jarvis Cocker che fa cucù sotto l’armonica a bocca “Format ME”; restituito con un grado di piacevolezza massima, il brit pop imbastito da questo duo/band 2 a.m. coglie nel segno di smuovere qualcosa dentro l’ascolto, con poche e notevoli cose rimbalza tra testa e cuore come acqua fresca di mattina, e di questi tempi di recessione creativa non è poca cosa.

Un giro completo su questo Ep, e le tensioni si tramutano in vibes immaginifiche.

 

 

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Tommi – Always

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Rincorrere il sogno americano a colpi di rock and roll, chitarra sotto braccio e armonica a portata di bocca, Dylan saprebbe cosa fare in certe occasioni. Tommi suona il suo secondo disco “Always” lanciando occhiatine viziose a quel tipo di rock che francamente non ci appartiene affatto lasciando perplessa tutta la scena indipendente italiana. Com’è possibile sentirsi quell’animo americano nonostante l’anagrafe artistica dice Veneto?

Qualcosa di strano annebbia la mente quando l’ascolto del disco entra nel vivo, le chitarre slow sembrano avere una propria identità, il cuore grande di chi crede fermamente in quello che suona. L’armonia del rock, la giusta evoluzione del genere, la strada giusta intrapresa evitando stupide contaminazioni.

Poi Tommi butta rabbia nel disco, “Always” assomiglia ad un essere umano con tanto di sentimenti, una ferita aperta mi ricorda di essere di carne e ossa, una batteria che cade dove il basso puro vuole, il profumo fresco dell’improvvisazione ravviva situazioni perse in partenza. Il rock è l’animo dell’essere umano, un calore che viene dall’interno. Energico ma con molto cuore, la cura essenziale alle sofferenze del mondo? Almeno per pochi attimi viaggio per lo stradone 66 inneggiano a super alcolici ben stagionati fino a perdere il contatto con la realtà. Se mai possa esistere una realtà. Possiamo assaggiare questo disco rock tenendo in considerazione quella corrente resa religione da Bruce Springsteen e Little Steven, un locale a luci soffuse, una bandana in testa e rock and roll nelle vene. Qualcuno potrebbe apprezzare alla follia questo lavoro disegnato con estrema disinvoltura.

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Alphabetagamma – Alphabetagamma

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Gli Alphabetagamma sono una band di Pesaro nata nel 2008 che quest’anno, dopo aver realizzato solo un demo, decide di regalarci il primo vero album, l’omonimo appunto ABG.
Giacomo Pieri (chitarra), Christian Del Baldo (voce/basso) e Stefano Aluigi (batteria) sono una band che ha deciso di mettersi in mostra nel modo peggiore possibile. Imitare. Come se non volessero fare altro che suonare quello che gli piace, senza sbattersi troppo, senza fottersene del giudizio mio o di chiunque dovesse ascoltarli. Imitare senza paura. Suonare senza troppo sforzarsi. Imitare per paura. Sottile la linea. Menefreghismo fasullo, di chi si pubblicizza sul MySpace. Menefreghismo illusorio di chi in fondo cerca giudizi positivi. Ingenuità o menefreghismo. Sottile la linea.
Lasciamo stare il discorso sulle ovvie influenze. Anche il più innovativo rocker di questo pianeta ne ha riversate tante nei suoi lavori. Parafrasando Dali’, quelli che non vogliono imitare qualcosa, non producono nulla. Lasciamo anche perdere il discorso sulle citazioni che, per quanto accettabili, dovrebbero essere quantomeno limitate. Qui abbiamo momenti in cui si sfiora l’assurdo.
Per capirci, la musica che sto ascoltando è un misto di Stoner Rock e Stoner Metal, che non disdegna di ricalcare i riff ossessivi e semplici del Grunge dei Nirvana o sfiorare il Post-Core e il Nu-Metal, soprattutto nelle parti vocali, avvicinadosi anche ai System of a Down, specie nel terzo brano.
Ora vi starete domandando perché questo sarebbe imitare.
Semplice. Premete play e capirete. Kyuss. Kyuss. KYUSS. Sono loro vero? Ovviamente in un momento di grave crisi artistica ed esistenziale ma questi sono i Kyuss. Sound potente e sporco, riff taglienti e ipnotici, percussioni rabbiose, voce che oscilla tra calma e follia urlata. Non sono queste, parole che usereste per descrivere lo Stoner Rock dei Kyuss di Odissey, tanto per citare un pezzo di riferimento? I Kyuss meno Blues e più Metal per capirci. Il suono caratteristico della band di Palm Desert è stato masticato, ingoiato, e digerito a lungo dagli Alphabetagamma che ora, con lo stomaco pieno, hanno deciso di vomitare tutto nelle nostre orecchie. E quella roba verde che ora sgocciola fino a terra non è certo blues per il sole rosso.
È delusione.
Oltretutto, se avrete la pazienza di arrivare al pezzo numero sette, avrete in cambio il disonore di ascoltare una chitarra che copia spudoratamente da quel folle genio di Steve Albini o meglio dai suoi Big Black, ( ai più giovani verranno in mente gli Shellac, altra band di Albini). Un sound inconfondibile che nessuno al mondo è riuscito e riuscirà mai a far passare per originale.
Dunque abbiamo tra le mani un lavoro che imitando i Kyuss, scopiazza qua e là, tra grunge e Big Black. Merda, penserete. E invece non direi. È questa è la cosa più odiosa.
La cosa che fa più rabbia è proprio il fatto che il disco non sia brutto. Il pezzo che apre l’album è anzi molto interessante. Concretamente superiore rispetto al resto. Mostra un’anima propria, cattiva, ci offre i denti come un cane rabbioso. La voce si districa splendidamente tra le lame della chitarra e le martellate della batteria e finisce per liberarsi e urlare carica, viva, pungente e stridula come metallo gelido. Sembra la strada, non proprio facile e in discesa, verso un sound personale, maturo. Il resto è un’altalena tra pezzi mediocri e improponibili e altri tanto interessanti, quanto sempre troppo legati a quella necessità di imitare dovuta alla paura di osare. Se è vero che l’imitazione è la più sincera delle adulazioni, il tempo dei falsi idoli deve però finire.
Il disco quindi non ha nell’aspetto estetico/musicale il suo limite primo. Ci sono tante cose da migliorare, un suono da sporcare e da personalizzare ma c’è qualcosa da cui partire. Ripartire da quella carica sparata nei primi minuti, da quel suono, da quella voce, quel timbro. Partire da li e cercare una strada nuova, diversa, una strada dove mai nessuno sia mai passato prima. È necessario che ogni nuovo pezzo acquisti una sua vita propria, sia distinto dal sound del gruppo e nello stesso tempo sia parte fondamentale per generare le caratteristiche proprie degli ABG. Partire da quei pochi minuti, guardando al resto come a un’ esperienza formativa e far si che la prossima volta che ascolteremo distrattamente musica, il nostro cervello possa ricordare il nome dei pesaresi ad ogni loro nuova nota.
Gli Alphabetagamma sanno suonare, hanno la carica giusta, hanno ora maggiore esperienza. Quello che resta da fare è osare. Staccarsi dal passato e buttarsi dal palazzo in fiamme. Qualcosa da fare troveranno nella discesa. E comunque volare anche per un solo minuto è sempre meglio che bruciare vivi.

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Why Not Loser – 4 Mistakes

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Senza metterla troppo sul socio-culturale, è indiscutibile che il suono chiassoso, casinaro, baldanzosamente nevrastenico del punk ogni tanto – ultimamente spessissimo – torni alla ribalta, anzi se la prende da solo, con suono in apparenza sempre uguale a se stesso, in verità con lievi ma indicativi cambiamenti.  

Why Not Loser, il quartetto trevigiano dall’adrenalina pura al posto del sangue, torna a calpestare (giusta definizione) la scena underground con “4 Mistakes”, un dieci tracce che hanno quei significativi cambiamenti, e che comunque mantengono come missione finale l’istigazione deflagrante di far pogare sopra mine punkyes dal cuore tenerone dentro una frastornante guerra di watt che mette gioia e furore in ogni passaggio di ritmo e pressione di pedaliere; fuori dello schiamazzo politician’s del punk d’oltremanica e molto accasato nella Bay Area Californiana, quella del punkyes bighellone che va dai Blink 182 in poi, fino alla tensione ideale sui movie-frame di “Un giorno da leoni”, il WNL thing è quello d’eterna festa sulla spiaggia, belle pupe, hamburger, birra ghiacciata e la spensieratezza d’anni giovani da bruciare in fretta tra muri di suono e cori da college, una spregiudicatezza garbata che cerca ispirazione dall’esigenza di esserci per fare numero e colore ad una liberalità che ogni giorno potrebbe essere l’ultima.

Il disco scorre come una macchina in corsa, ventoso e generoso, fa compagnia e forza come una pacca sulle spalle da un amico con il quale condividi tanto e tutto e questa band fa pamphlet e manifesto di questa giocosità dolce-amara e sgasa a dovere come una virtuale presa all’ultimo minuto di vita al volo;  con la produzione di Oliviero “Olly” Riva (Shandon) tutto esplode in assolto, nella scorribanda elettrica generazionale “I decide my age”, si rigira nervosamente nella melodia hardcore “Intention”, borbotta insieme al sincopato di un basso “Loser”, inneggia alla scalmana da cardiopalma “Happy song” e finalmente spalanca il suo cuore affaticato nella ballata vaporizzata che al centro di “Someday” riesce a centrare con gusto sopraffino il bersaglio della melodia hook che darà vita dura – durante i liveset – a centinaia di accendini made in China.  

Da Treviso il nuovo terremoto targato Why Not Loser si fa sentire in tutta la sua ginnastica sonora, in tutta la sua rabbia  divisa a metà con una gentilezza di fondo che fa estetica di lusso.

 

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Violentor – Violentor

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Ecco il disco che mi ha fatto rabbrividire, l’ omonimo che al primo ascolto mi ha fatto innamorare del gruppo, i Violentor per essere precisi, un affiatato quartetto proveniente da Firenze, la cui proposta è un esplosiva miscela tra Thrash e Speed Metal old school. Non mi diramo a lungo, mi limito ad elogiare questa piccola perla che credetemi, vale tanto. Già dalla prima traccia, “Too Loud”, Ale e soci mettono in chiaro le loro intenzioni e la presentazione continua con la successiva “Awakened In Death”. Insomma già le sfuriate di queste prime due tracce sono una vera e propria mazzata sui denti senza parlare poi di “Genocide” oppure di “We Hate All”, la preferita del sottoscritto detto in confidenza, un pezzo spaccaossa che in un live vedrebbe pogare come dannati il grande Lemmy Kilmister, Paul Speckmann dei Master e Cronos dei Venom. Anche se la loro proposta si rifà nettamente all’ Old School, c’è da dire che ci hanno saputo fare ed eseguire in maniera cosi eclatante questo genere non è roba da poco, perché molte band cadono nel banale e nel ripetitivo, per i Violentor non è cosi. Questo omonimo è un disco che riusciranno ad ascoltarli in molti: gli appassionati si leccheranno i baffi, le nuove leve capiranno cosa significa fare buona musica. “Go To Hell” mette la parola fine a tutto, è una chiusura in bellezza, di gran classe che mostra definitivamente chi sono i Violentor. Insomma,questo omonimo non dovete lasciarvelo sfuggire per nessun motivo al mondo, è un disco fatto bene e lavorato nei minimi dettagli perderselo equivarrebbe ad un sacrilegio.

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Esclà – Salta il tappo

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Okkio, il nome della band e relativa cover album potrebbero depistare  di non poco, perché verrebbe da pensare che  il tutto sia una stravaganza giocosa di cose messe in musica demenziali e per tormentoni tardo (issimi) estivi da piazzare da qualche parte; invece “Salta il tappo” del quartetto bolognese degli Esclà sorprende perché il suo cantautorato d’insieme fatto di giochi pop-folk striati di rock, fa pensare, riflettere e stare con i piedi in terra senza rinunciare a quattro bei salti di goduria folk nostrana.

Tredici percorsi atletici che infondono calore e forza motrice, tredici tracce ritmate, vive di sensazioni e coraggio che attraversano l’ascolto come un arcobaleno lasciandoti in dote – nel fondo dell’animo –  il senso di soddisfazione di aver ascoltato qualcosa, più di qualcosa, d’intelligente e vero.

Sincerità radiofonica, caratteristiche multi-matrice e quella bella semplicità declamatoria che ne fa un prodotto assimilabile immediatamente, una definizione sonica marcata d’autore che si fa notare specie nelle liriche e nelle ibridazioni che hanno un’inizio e mai una fine; se da stereo il disco da la voglia matta di dimenarsi a sfinimento, figuriamoci il quartetto complice su prestazioni live quello che potrebbero combinare e scatenare a loud al massimo, l’inimmaginabile, pogo e libertà di slogamento a go-go, anche per quel filo teso di nascosto che riporta virtuosismi alla Pogues e affini “Alfredo”, “Spazzanoia”, o per le contemporaneità  di rimbalzo rock-rap  “Io le odio le band emergenti” che non perdonano i momenti di stallo fisico.

Una band che brilla di suo e un vocalist che fa grandi numeri espressivi, teatralità e suggestioni a tutta voce che disegnano ballate sarcastiche “Salta il tappo”, smuovono spennate acustiche che si dondolano in due voci prima di accendersi d’elettrico “Voglio prendere in giro”, scandiscono il movimento di fianchi di un blues canaglia “Il sole a scacchi”  e finiscono in quei quattro minuti e quarantotto di magnificenza, di lusso d’ascolto della ghost track che segna numero quattordici della tracklist, un Guignolesco atto declamatorio di poesia che sanguina bellezza.

Eccellente come un vino d’alta genealogia, come dire…Esclà (mativo) senza riserve!

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Amycanbe – Mountain Whales

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Tutto improvvisamente prende un sapore dolciastro nonostante le vuote giornate spese a fare niente. Gli Amycanbe suonano freddi in una macchina immobilizzata dal gelo dell’inverno appena iniziato, il nuovo disco “Mountain Whales” impreziosisce la fama di questa omogenea band. La voce persuasiva scava incavi profondi fin dove le nostre braccia deboli non possono arrivare schiacciando tutte quelle incomprensioni con le quali siamo costretti quotidianamente a fare i dovuti conti. Tutto sembra essere semplice, spaziare con la fantasia per sentirsi liberi di trasportare la mente dove meglio si crede. Ma comunque freddo polare. L’occhio tagliato di Bjiork e il sound decisamente nord europeo ambientano il tutto in altre storie lontane dal nostro medio sedersi sulle situazioni, boschi innevati e la paura di perdersi per sempre. Il sogno si rende elemento chiave dell’intero lavoro elettro sentimentale che raccoglie maturo l’eredità pesante del precedente disco “The World is Round”, un tripudio di esaltazioni sperimentali arrangiate come la tradizione insegna e forse anche in maniera superlativa.
Niente può essere meglio degli Amycanbe, roba italiana doc da tenere sotto stretta presa per non perdere quello che di meglio possiamo esportare all’estero con petto rigonfio di fierezza e orgoglio nazionale. “Mountain Whales” riamane comodamente piazzato in quel sottile confine che distingue il sogno dalla realtà regalando a chiunque ne voglia una pura sensazione di piacere. Una band ormai affermata che non deve dimostrare il proprio valore a nessuno. Anche questa volta micidiali.

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