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Barachetti / Ruggeri – White Out

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White Out è un concept sul “male di testa”, un male fisico e psicologico che colpisce e porta al declino la società occidentale a causa dal suo vivere alienante dovuto alla scelta di sposare le volontà del capitalismo, portatore, con i suoi eccessi e con le sue gravi e conseguenti mancanze, di quello che risulta essere a tutti gli effetti un angosciante dolore esistenziale. Un male che presentandosi come un miglioramento risulta paradossale, un male che può sedurre e che ci ha sedotti nonostante l’evidente abuso, per altro privo di contenuti, della propria influenza da parte di poche, ma importanti e ricche, persone-società. Un male che sfocia nella perdita e nel delirio della realtà interiore e che viene ottimamente descritto dall’album firmato da Luca Barachetti (ex Bancale) ed Enrico Ruggeri (ex Hogwash) al loro debutto con questo progetto.
I due hanno unito le loro forze per dare vita a 12 canzoni-non-canzoni nelle quali l’alienazione della nostra epoca è tradotta in musica e parole attraverso i poetici testi di Barachetti ed il suo spoken infingardo che mette in collisione patologia e creatività in un’introspezione dove la parola, ora descrittiva ora cronachistica, nella percezione del presente disagio lavora in perfetta simbiosi col corpo e con l’inconscio che manifestano le proprie pulsioni attraverso le trame sonore realizzate da macchine analogiche, strumenti autocostruiti e strumenti tradizionali suonati in modo non convenzionale di Ruggeri. Ne viene fuori un disco per certi versi avanguardistico che a seconda dei momenti potrà farci pensare a La Monte Young o ad Eliane Radigue come a Fennesz, un disco capace di risultare futuristico come primordiale descrivendoci questo dolore ancora troppo sottovalutato tra minimalismi, cacofonie, distorsioni elettroniche, droni e percussività più o meno industriali di ogni sorta.

White Out è dunque un album indubbiamente politico che scava lentamente la solitudine ed il male dei nostri tempi affascinando sin dall’iniziale sussurro dai suoi suoni spettrali e atonali di “Dolore Bianco” cui segue la percussività deviata di “Corpo Occidentale”, dove ogni cosa prodotta è cosa desiderata ed il desiderio stesso, avendo ampiamente superato la sua capacità di tolleranza, risulta essere un sentimento ormai sepolto (desiderio fisico compreso). Ottimi momenti, in un disco dove si potrebbe tranquillamente segnalare ogni singolo brano, sono la ninna nanna dall’andatura Minimal ma tecnoide della title-track, l’amara ironia di “Panda Psichico”, centrata sui ritmi che questo grande Nulla ci costringe a seguire e sul cedimento fisico e mentale che ne consegue, o ancora l’opprimente incontro/scontro tra ragionevolezza e follia di “Macula” (titolo ripreso da una poesia di Paul Celan, a cui il brano è dedicato) ed i cerebrali battiti della straniante ballata “Pulsa”, mantrica e ferrettiana, che ci porta a periodi storici oscuri nei quali era ancora tuttavia possibile intravedere una rifioritura.

Ma White Out è anche speranza, voglia di rivincita, voglia di riprendersi la propria vita e dei 12 brani che lo formano 4 sono “analgesici”. Si tratta di 4 tentativi di salvezza in cui l’umano, fin qui più o meno forzatamente complice della situazione ma in ogni caso disumanizzato, entra in conflitto con sé stesso. “Uomo Scritturato” è ad esempio un invito (al mondo dell’arte ma non solo) a tuffarsi dentro una realtà da rivedere e da riscrivere con onestà e profonda partecipazione partorito dopo dopo aver assistito ad uno spettacolo di Alessandro Bergonzoni. Ma è in “Cretto del Vero” che il tentativo di guarigione si fa ancor più evidente; il brano, indirizzandoci al terremoto del Belice (il pezzo è dedicato ad Alberto Bucci autore del Cretto di Burri di Gibellina, opera sorta in memoria del paese raso al suolo cementificando le macerie in modo da ripercorrerne le strade), dona inizialmente una sensazione di rottura sottolineata dai versi di Barachetti per poi giungere ad una cassa dritta che regala la sensazione di una netta ed improvvisa presa di coscienza accompagnata da una speranza tanto utopica quanto sentita (attendi un glicine, una vertigine che colmi di ritorni e ritorni queste venature di vuoti). Si conclude con l’apocalittica genialità di “Fiume Verticale” brano dove più che mai le parole prendono vita attraverso una reazione che rappresenta l’atto salvifico ultimo; il prendere coscienza del dolore dell’esistenza e tramite esso combattere quello del vuoto esistenziale, per quanto il rischio di ritrovarsi domani ancora una volta riassorbiti e vittime di quell’iniziale dolore bianco (così descritto dal duo nella cartella stampa: ciò che ci lascia il presente è una passione senza resurrezione che il giorno seguente scompare, ma ritornerà. Nel sepolcro su cui è inciso il nostro nome noi non ci siamo) coi tempi che corrono, ahinoi, non si possa escludere.

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Serena Abrami – Di Imperfezione

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Dopo il debutto con Lontano da Tutto, la cantautrice marchigiana torna con un nuovo Lp per l’etichetta Nufrabic, con l’intento di non fossilizzarsi sotto la catalogazione musicale e cercando di riunire una certa poliedricità per creare un’opera di senso compiuto. Di Imperfezioni è dunque opera dalle mille facce, costruito in un lungo arco temporale, con la collaborazione di virtuosi musicisti e degli scrittori Luca Ragagnin e Francesco Ferracuti per la parte lirica. È anche un disco congegnato con cura e non è un caso che abbiano scritto brani per lei artisti come Ivano Fossati o Niccolò Fabi o che abbia duettato con Max Gazzè, con i quali e non solo con loro (vedi Perturbazione, Cristina Donà, Simone Cristicchi, ecc…) ha condiviso anche alcuni importanti palchi nazionali. Tutte considerazioni che lascerebbero protendere per un giudizio positivo ma non è per niente così; quella ricerca di unità nella varietà finisce per portare su territori pericolosi, con un sound banale a far da sfondo a qualche tentativo di eccentricità che molto sa di forzatura. Gli arrangiamenti, certo ben curati, sono paurosamente mediocri, poco coraggiosi, Pop se vogliamo, nel senso più commerciale del termine, ma incapaci di elevare le undici canzoni oltre la banalità del genere. La lingua italiana non è supportata da una voce in grado di mostrarsi superiore per tecnica e timbrica alle sue colleghe e l’idea generale che si costruisce ascolto dopo ascolto, è di un lavoro studiato a tavolino per provare inutilmente a ficcarsi nel plastico mondo del Pop da radio commerciale (ha partecipato a Sanremo Nuove Proposte nel 2011 e la cosa significa più di molte parole), con il problema che per imbucarsi in tali strade, conta saper toccare i tasti giusti delle persone giuste ma anche costruire canzoni che, se proprio non siamo memorabili sotto l’aspetto artistico, possano almeno essere orecchiabili, intuitive, d’immediato e sicuro impatto. I brani di Di Imperfezione non hanno nessuno di questi pregi ma anzi, a tratti infastidiscono per quanto lasciano trasparire certe intenzioni malsane. Il nuovo e secondo disco di Serena Abrami non è altro che un bel costruito esercizio di stile di qualcuno con non molto più talento delle centinaia di cantanti e musiciste che provano a scalare i muri di vetro che li dividono dalla fama. Non è certo di costoro che la musica italiana ha davvero bisogno come non ha bisogno di Sanremo o di altro Pop inutile e ridondante.

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Black Tape For A Blue Girl – These Fleeting Moments

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Nuovo album, nato da una campagna di crowdfunding, per la creatura di Sam Rosenthal a ben 9 anni dal precedente 10 Neurotics. Il progetto ha quest’anno compiuto i trent’anni di attività e con questo nuovo lavoro (trattasi dell’undicesimo full length) li festeggia nel migliore dei modi.
Se il disco precedente poteva infatti aver fatto storcere il naso a qualche fan di questa band, un culto nel suo genere, con These Fleeting Moments ritroviamo i Black Tape For a Blue Girl che tutti noi più amiamo per quanto durante l’ascolto non manchi qualche sorpresa a rendere l’album più differenziato ma mai meno profondo, e non potrebbe che essere così visto tra l’altro il ritorno della più celebre voce della band: Oscar Herrera. Il tenore, presente nei primi 7 album del gruppo, rientra quindi dopo ben 17 anni alla corte di Rosenthal e lo fa, oltretutto, accompagnandosi alla figlia Danielle, nata poco prima dell’uscita di The Rope, prima fatica della formazione.

Il nuovo album è formato da 13 canzoni per 70 minuti di durata e riporta sin dalla bellissima traccia iniziale al freddo calore dei Black Tape anni Novanta con i 18 minuti di “The Vastness of Life”, brano etereo e malinconico che non sfigurerebbe nella loro perla Remnants of a Deeper Purity. La traccia, ricca di pathos, è suddivisa in più parti ed esplora i temi fondamentali dell’album facendosi domande sulle scelte della vita, sulla propria storia personale, su quanto e come sia possibile credere ad eventuali ideali ed agire seguendoli. Il brano è inizialmente un Goth/Neofolk assai cupo dove subito ritroveremo la considerevole solennità della voce di Oscar Herrera che tanto ci mancava, nel suo sviluppo incontreremo poi una parte Neoclassica evocativa e rarefatta dominata da un violino piangente prima che le tastiere di Sam introducano alla seconda metà del brano dove faremo conoscenza con la voce fortemente espressiva di Danielle Herrera; saranno i synth ad accompagnarci al finale, la parte più intimamente gotica di questa ottima apertura di disco, che impegnerà nuovamente al canto Oscar che la figlia Danielle accompagnerà dalle retrovie con la sua angelica voce.
Nel disco ogni traccia ha un suo valore, non troviamo riempitivi. Trovo personalmente da segnalare “One Promised Love”, dolcissimo brano con meraviglioso violino e chitarra acustica in primo piano, delicatezza che fa da contraltare al canto sì delicato ma estremamente denso di Herrera (padre); “Affinity” dove la voce sognante di Danielle emerge dolce e malinconica dal mesto tappeto di synth, o l’ancor più funerea “Please Don’t Go” strumentale di ottima fattura dove la malinconia delle tastiere e degli archi (Nick Shadow è indubbiamente un altro grande protagonista di questo album) scava nei vuoti dell’animo descrivendoli con perfetta desolazione.
Nella seconda metà del disco troviamo l’intensità Tribal-Psych Rock di “Zug Köln” che ci porta ad incontrare la chitarra di Erik Wøllo (artista prodotto dalla Projekt di Sam Rosenthal) co-autore del brano, per poi trovare sentori di Dead Can Dance nei 10 minuti di bellezza ipnotica e ancestrale di “Meditation on the Skeleton” e nella dolce nenia più Folk-Pop “Desert Rat-Kangaroo” con le sue eleganti trame di pianoforte. Sarà dunque il momento di “She’s Gone” brano che mette in risalto la grazia della voce di Danielle che qui, vulnerabile, ci racconta di un amore perduto, il pezzo, triste e dolce, scandito da una chitarra pizzicata con gran delicatezza, nella parte finale va a sposarsi meravigliosamente con l’intensità portata da percussioni, violino e chitarra elettrica che forniscono l’ideale trampolino per il tuffo negli umori Shoegaze/Post Rock delle fragili e vigorose note dell’ottima “She Ran So Far Away That She Can No Longer Be Found”. Nella conclusiva “You’re Inside Me” un Oscar Herrera in gran spolvero si congederà su una base elettronica di pregevole fattura al quale il violino di Shadow andrà ad aggiungere nella parte conclusiva del brano la giusta tensione.

Un disco che offre 70 minuti di seducente malinconia in un riuscito incontro di ricchezza di nuovi spunti e magico stile datato capace di scorrere piuttosto fluidamente nonostante lo spessore (nella durata come in buona parte delle musiche e dei messaggi) che lo contraddistingue. L’opera che aspettavamo, l’atmosfera che aspettavamo, perfettamente descritta dalla copertina dell’album dove troviamo una donna rannicchiata all’interno di un violoncello fracassato all’ingresso di un bosco. Dedicategli il tempo che merita. Sam Rosenthal ed il suo romanticismo filosofico hanno ancora molto da darci.

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Il Babau e I Maledetti Cretini – Il Cuore Rivelatore

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Non ascoltate questo disco, non guardate queste immagini, non leggete questa storia. Gettatelo nel fuoco prima che sia troppo tardi. Dio abbia pietà di noi.

Prende forma la Trilogia del Mistero e del Terrore, con questa seconda prova, Il Cuore Rivelatore, ancora una volta opera ispirata da un racconto del maestro Edgar Allan Poe. Il primo capitolo, La Maschera della Morte Rossa, è un racconto che narra di una pestilenza e delle vicende del principe Prospero, il quale si rifugia in un palazzo per evitare il contagio per poi essere raggiunto e ucciso insieme ai suoi invitati dalla Morte Rossa durante un ballo in maschera. Il secondo fonodramma riprende la stessa linea guida ma stavolta si basa su una narrazione ancor più nota dell’autore di Boston e, dalle precedenti atmosfere medievali e diaboliche, si passa a un contesto più inquieto e ansioso.

Sotto la produzione artistica di Roberto Rizzo, Il Babau e I Maledetti Cretini confezionano un’opera perfetta sotto ogni aspetto, a partire da una ricercata prefazione firmata Dr. M. Scheller e strutturata secondo un artificio noto in letteratura, per cui tale dottore (proprietario dell’etichetta Btf) avrebbe finalmente trovato il disco e la trilogia in un imprecisato futuro e abbia lasciato scritte alcune parole per ammonire chiunque a stare lontano da queste opere malefiche e maledette, come si trattasse di un cimelio oscuro. Anche il resto del libretto di quasi cinquanta pagine è di pregevole fattura con le illustrazioni di Gianni Zara ad alternarsi alle parole dei vari brani riportate sia secondo l’originale in inglese di Poe, sia con la traduzione italiana degli stessi artisti.

Per quanto concerne l’aspetto musicale, Il Cuore Rivelatore è di difficilissima catalogazione e valutazione. Il canto è quasi totalmente assente, visto che Franz Casanova si limita, per modo di dire, a recitare i testi con qualche divagazione più melodica e cori surreali di Andrea Dicò. Stessa cosa per melodia e forma canzone. Il resto del lavoro affidato alle sue tastiere, alla batteria di quest’ultimo e alle chitarre di Damiano Casanova, si risolve in un Progressive di avanguardia che tanto si rifà alle opere dei maestri del genere anni Sessanta e Settanta, con una notevole propensione per gli aspetti più psicotici e psichedelici e, alternativamente, a un sound minimale e aggressivo che, in talune reiterazioni ritmiche, ricorda anche le sperimentazioni degli Swans più nevrotici.

Come detto, la valutazione di questo disco è cosa in sostanza impossibile, se si vuole inserire in un ambiente prettamente discografico. Al di fuori dei confini non ha certo la forza, causa lingua italiana, per attecchire e sotto l’aspetto musicale tutto è forgiato per far si che le note rendano nel migliore dei modi le sensazioni date dal momento narrante, l’agitazione e la tensione crescente, senza distogliere l’attenzione dalle parole. Del resto, non siamo di fronte ad una serie di canzoni o a un semplice concept album ma a un vero e proprio fonodramma, la cui musica ha solo lo scopo predetto, senza fare troppi sforzi per agognare e individuare una stilistica davvero avanguardistica. Il Cuore Rivelatore è un disco/non disco che quasi non ha valore sotto l’aspetto musicale, o meglio, ne ha nei limiti del suo seguire le dinamiche standard del Prog, forgiato da una band che ha l’incredibile merito di aver riscoperto e reinventato la traduzione musicata di opere letterarie, scegliendo di concentrarsi sugli aspetti enigmatici, tetri ed estrosi di tali opere. In questo caso, forse anche più che nell’episodio precedente, l’obiettivo è stato raggiunto pienamente, con una grande cura per i dettagli, musicali e non, esecuzioni impeccabili, eccellente resa sonora della fluidità del racconto e ottima capacità recitativa. Basta questo per definire Il Cuore Rivelatore un grandissimo album.

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Elisa Rossi – Eco

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Dopo Viola Selise e Il Dubbio pubblicato nel 2013, torna la cantautrice riminese con un Ep Pop che più Pop non si può e lo fa con sette tracce gradevoli sia per la voce, sia per melodie e arrangiamenti semplici ma che rendono perfettamente l’idea stilistica di Elisa Rossi. È lei stessa a comporre e scrivere i testi di queste canzoni apprezzabili, con il tutto a fare da cornice brillante ma non invadente al suo canto audace che vuole farsi portavoce del proprio Io, attraverso uno stile energico, passionale, a tratti enigmatico. “Tempo fa ho letto che il profilo è l’immagine di noi stessi che conosciamo meno eppure il suo disegno ci rappresenta in maniera inequivocabile. Il volto di profilo si può disegnare con un unico tratto continuo. È un segno forte, essenziale ma riconoscibile e io, essenzialmente, non faccio altro che seguire la linea del mio profilo e raccontarne i tratti attraverso le canzoni, per riconoscermi e rendermi riconoscibile agli altri”. Questo è l’archetipo essenziale di Eco, secondo la stessa Elisa Rossi e presenta esattamente il senso di questo lavoro della vincitrice 2007 di Musicultura. Un’opera che con semplicità e decisione riesce a esprimere tutta l’artista. Un estended play Pop nel senso più classico del termine, con piccolissime e dosate intrusioni elettroniche e qualche melodia eterea che finisce per accostarla al più delicato Dream Pop e la rende perfetta overture dei live di uno dei più grandi interpreti del cantautorato alternativo tricolore, Paolo Benvegnù. Eco non è qualcosa adatto a chi nella musica cerca forzatamente le spigolature, a chi nella voce non cerca la perfezione estetica e nei testi vuole aggressività e attitudine Punk Rock o malinconia hipster ma è innegabilmente un lavoro confezionato con cura ammirevole, tanta da non poter passare inosservata.

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Mike Spine – Forage&Glean

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L’artista di Seattle fa le cose in grande e pubblica per la Global Seepej Records questo doppio best of che raccoglie le sue migliori canzoni divise in due diverse anime, quella più Folk del volume uno e quella più Punk del volume due. Dopo dieci album all’attivo, Mike Spine, nato nella terra del Grunge ma che divide la sua vita con l’Europa, pubblica per la prima volta un lavoro nel vecchio continente ed anche per questo motivo il suo nome non è ancora materia per le masse, nonostante abbia suonato in ogni dove dividendo il palco con Los Lobos, Creedence Clearwater Revisited, Damien Jurado e tanti altri. Pur non essendo eccessivamente legati stilisticamente, se si esclude la materia prima Folk, la figura di Spine e le sue liriche quasi seguono il solco di quel Billy Bragg che fu strenuo avversario del thatcherismo in Inghilterra. Mike Spine, come il britannico, usa la sua musica, le sue parole e la sua voce per raccontare le vicende e le esperienze dei lavoratori delle diverse città in cui ha soggiornato, osteggiando le ingiustizie sociali, finanziarie e ambientali tanto nei fatti quanto artisticamente. Proprio Billy Bragg affermava: “Io non sono un cantautore politico. Sono un cantautore onesto e cerco di scrivere onestamente su ciò che vedo intorno a me in questo momento”. Questa frase trova altresì applicazione in Spine e quest’onestà la ritroveremo in tutte le trentadue canzoni che compongono Forage&Glean, registrate, per la cronaca, negli studi Haywire Recording di Portland da Rob Bartleson (Wilco, Pink Martini) e masterizzato da Ed Brooks (Pearl Jam, R.E.M.) a Seattle. Prima di giungere a questa raccolta, il musicista ha militato nella band At the Spine pubblicando cinque album che miscelavano il Punk ricercato di The Clash, alla potenza del Post Hardcore, l’intensità di Neil Young al Grunge dei Nirvana; nel 2010 la prima svolta con la band The Beautiful Sunsets, con cui pubblica Coalminers & Moonshiners e, finalmente, nel 2015, il primo album solista; nel mezzo, una serie incredibile di concerti e un tour europeo con la polistrumentista Barbara Luna. Forage&Glean non è dunque semplicemente un’ammucchiata di vecchie canzoni ma un viaggio a ritroso nella vita di Spine, che ripercorre le sue esperienze artistiche e di vita dall’oggi agli esordi, dall’Europa agli States, impreziosendosi delle tante anime con cui è entrato in contatto.

Stilisticamente, oltre ad una voce accattivante che, nella timbrica, molto ricorda quella del cantautore di Huddersfield, Merz, tutte le influenze già citate si ritrovano con una certa facilità, e se nella prima parte è il folk e la melodia a farla da padrone, con pezzi che lasciano spaziare la mente tra reminiscenze di Dylan, Young e Van Morrison, il secondo volume è di tutt’altra fattura, con pezzi veloci, aggressivi, che si distaccano dal Folk per inseguire un alternative e Hard Rock dall’attitudine Punk totalmente inaspettato viste le premesse dei primi brani tanto che andrebbero scomodati termini di paragone quali Beck, Pixies o Sonic Youth per rendere l’idea ma anche Okkerville River pur consapevoli che tra Spine e Will Sheff c’è una bella differenza a favore di quest’ultimo.

Detto tutto questo ci si aspetterebbe un apprezzamento incondizionato a Forage&Glean ma non è così perché, se è vero che la varietà stilistica espressa può accontentare palati dalla diversa sensibilità e se apprezzabilissimo è il tema dell’impegno sociale, è anche vero che questa sorta di punto di arrivo per Spine, vuole essere anche un punto di partenza per puntare a un pubblico più ampio, il quale rischia di finire in confusione per la troppa carne messa sul fuoco. Si aggiunga a questo il fatto che la proposta vista da ogni punto di vista non ha nulla di originale e che le doti del musicista di Seattle sono ben lontane da quelle dei suoi padri putativi ecco che viene a forgiarsi un giudizio che non può andare oltre una timida valutazione.

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Lisa Giorè – Le vie dell’insonnia

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Partiamo col dire che non siamo di fronte al capolavoro dell’anno ne tantomeno è questo un disco degno di nota. Uno di quei tanti traguardi che si rendono preziosi più sul lato personale che non su quello pubblico. Lisa Giorè è alle prime armi con un lavoro di dieci inediti personali e avvolgenti, scuri come si legge da più parti forse perché i testi affrontano tematiche assai intime e “negative” come ansia, insicurezze, depressioni. Non sono testi digeribili e diretti sarà anche per la pressante ritmica che in molti tratti li conduce al limite tra filastrocche e momenti quasi parlati. Ci sono belle melodie dal gusto femminile (e questo ci piace moltissimo), ci sono belle soluzioni, alcuni brani sembrano pesanti e ad un immediato riascolto devo dire che si rivelano interessanti… Probabilmente tutto il lavoro merita qualche possibilità in più e penso proprio di concederglielo. Le Vie dell’Insonnia è un disco Pop dai sapori acustici, poca Elettronica fatta salva l’ultima traccia dal titolo “L’Effetto del Vento” in cui è proprio la Giorè a camuffarsi “vento” almeno per una notte. E se “Lo Stato Attuale delle Cose” oppure “Aria di Tempesta” o ancora “Sabbia” o singoli come “Danza Macabra” sembrano istintivamente somigliarsi nella fattura, sguscia dal tutto il singolo de gregoriano “Scarse prospettive”, estivo, anzi primaverile, dove l’amore viene raccontato da prospettive (appunto) poco serene e speranzose ma decisamente concrete (perché anche un decidere di smetterla con questa recita alla vita di coppia può avere un retrogusto di serenità e di sviluppo), il tutto con colori adolescenziali e sapori appena “latini” di cui la rete ci regala un video ufficiale che, come tutto il lavoro, non viene premiato da una chissà quale livello di fattura. Insomma Lisa Giorè gioca le sue carte che prima di tutto sono sincere e poi sono autentiche e senza filtri. Almeno questo ci arriva ed è sicuramente questo il premio che ci sentiamo di dare a chi prova a dire la sua. Per il resto la strada – come per tutti – è in salita… Chissà che sia anche buono il fiato per mettersi in cammino.

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Cadaveria/Necrodeath – Mondoscuro

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Unire due leggende non capita spesso e quella volta che si verifica l’occasione, chiaramente, non bisogna farsela sfuggire. Ebbene, Cadaveria e i Necrodeath, che sono due pilastri della musica estrema tricolore, uniscono le forze per creare uno split album davvero avvincente: Mondoscuro. Iniziamo col dire che i due gruppi sono prima di tutto grandi amici, infatti, Flegias, singer dei Necrodeath, è anche il batterista dei Cadaveria  e con quest’ultima, fino a poco tempo fa ha fatto parte anche Killer Bob che a sua volta proveniva dai Necrodeath. Come dicevamo, vediamo i due pilastri italiani uniti per un mini disco che vede tracce inedite e cover, la particolarità è sentire pezzi di un gruppo cantato e suonato dall’altro. Uno scambio di stile o la sperimentazione di ascoltare il proprio pezzo sotto un altro aspetto? Dipende dai punti di vista, fatto sta che ascoltare “Mater Tenebrarum” (dei Necrodeath dal disco Into The Macabre de 1987) in chiave Cadaveria è un qualcosa di favoloso, la traccia assume un aspetto oscuro, quasi demoniaco. “Spell” (di Cadaveria dal disco The Shadows’ Madame del 2002) invece, suonata dai Necrodeath,  cambia un po’ forma, nel senso che la velocità del gruppo e i giri di chitarra la rendono davvero alternativa. Insomma, questo primo step di scambi è riuscito alla grande da entrambi le parti. Veniamo adesso ai pezzi inediti. La prima che ascoltiamo è “Dominion Of Pain” di Cadaveria. Cominciamo a dire che la nostra dama oscura ha la capacità di saper mutare, nel senso, che riesce sempre a  ad evolvere il suo sound, lo ha fatto con i suoi dischi e lo ha fatto anche in questa traccia, deliziandoci con un cantato aggressivo che si sovrappone ad uno più tetro, il tutto su una base Thrash Metal. “Rise Above” dei Necrodeath va un po’ fuori dai canoni della band, troviamo innanzitutto un duetto con Cadaveria ed è infine un pezzo cantato sia in inglese che in italiano, ad ogni modo anche qui parliamo di una traccia ben riuscita. La piccola operetta si chiude con due cover: la prima è “Christian Woman” dei Type O Negative eseguita da Cadaveria. Il fascino della traccia  sta nel cantato della caparbia artista, la sua voce che va dal cupo al demoniaco da un valore in più al pezzo che già di suo è spettacolare. Chiudiamo lo split con una grande prova artistica eseguita dai Necrodeath. La band infatti, chiude in bellezza presentando una particolare versione di “Helter Skelter” dei Beatles. Con questo pezzo la band si supera decisamente, propone una versione decisamente alternativa che a dirla tutta con il loro stile acquista un altro tipo di fascino. Insomma, Mondoscuro è un lavoro decisamente ben riuscito e onestamente, era scontato perche’ a suonare e a mettersi in gioco sono due pilastri italiani che hanno davvero l’ arte nel sangue.

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Mantide – Love Thru Blood And Pain

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La mantide è un animale che ha sempre destato in me un fascino tutto particolare per via del colore, della sua postura, dell’eleganza ma soprattutto per via del fatto che la femmina, dopo essersi accoppiata, o anche durante l’atto, divora il maschio. Non potevo quindi non essere attratto da un gruppo che porta tale nome e   propone un genere, il Metal, che fin da tenera età mi ha appassionato. Band nata dalle ceneri dei Mota de brujo, ha iniziato in principio a proporre un mix di Sludge / Doom influenzato dal Southern Rock per poi cambiare rotta abbracciando il Thrash Metal. Oggi invece il Doom predomina su tutto il resto grazie ai riff graffianti di chitarra che tanto devono a Tony Iommi ed ai Black Sabbath, ma anche ai Pentagram e, perché no, a gruppi più recenti quali i My Dying Bride.

Si entra Nel mondo di Love Thru Blood And Pain attraverso l’enigmatica e misteriosa “Tormento”, una sorta di intro strumentale dal passo decisamente in crescendo. La titletrack è invece caratterizzata da un cantato in stile classico che non disdegna ogni tanto l’uso degli effetti. L’urlo durante il ritornello è una vera e propria dichiarazione di guerra, verso voi che ascoltate. Non potrete non essere attratti da Simone Di Girolamo che sa usare la sua voce modulandola al meglio  e si guadagna sul campo per me l’appellativo di Mike Patton italiano.
Le affinità con il cantante dei Faith No More diventano ancora più evidenti in “Unbroken”, indubbiamente la traccia meglio riuscita di questo lavoro a livello di arrangiamenti, liriche. “Farewell” è invece un brano pieno di classe, forse leggermente fuori epoca, ma chi dice che oggi debba regnare sovrano per forza il Nu Metal? In “Spontaneous Combustion” si fa sentire con forza anche Mauro The Butcher che con la sua batteria dà il via a tre minuti e mezzo di pura cavalcata sonora con frequenti cambi di tempo. Chiude “Visceral”, altro pezzo ben costruito nelle sue dinamiche che strizzano l’occhio proprio ai migliori momenti dei Faith No More, ma sempre tenendo ben presente le dinamiche dell’intero disco.
Non ci poteva essere miglior finale per un album ben fatto che ha sì la sua migliore arma nella voce di Simone Di Girolamo, ma è anche molto ben suonato e costruito nel suo insieme.

https://mantide.bandcamp.com/releases

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Project-TO – The White Side / The Black Side

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Project-TO: una sigla dietro la quale si celano Riccardo Mazza (Music & Production), Laura Pol (Visual & Film Making) e Carlo Bagini (keyboards). Un progetto autoriale di musica elettronica e Visual che ha due anime, due facce della stessa medaglia. Il lavoro che noi di Rockambula abbiamo ascoltato per voi in anteprima è infatti un doppio cd che, come si evince dalle copertine del digipak, ha due “espressioni” tanto affini quanto diverse al tempo stesso: The White Side & The Black Side. In fondo il bianco ed il nero si possono trovare anche nei film di Fellini ed Hitchcock e nel mondo della musica, nei tasti di un pianoforte o di una tastiera che si alternano nei due predetti colori. Le canzoni incluse in realtà sono solo sei, per una durata di poco meno di mezz’ora per ogni cd, ma concentrano in così pochi minuti un infinità di emozioni che forse avrebbero potuto anche essere trasposte in colori vivaci. Il White Side ha uno stile che si divide e si interseca fra Elettronica e Big Beat, il Black Side ha invece atmosfere più Ambient/Dark.
Come dire: luce ed oscurità in continuo contrasto. Ed ecco quindi tracce come “I Hope”, “Sign of The Earth” e “Roger” mutare completamente forma per adattarsi forse anche a contesti e ad orecchie differenti. Tante le influenze che si possono tuttavia riscontrare in entrambe le facce di questo lavoro, basti pensare a Chemical BrothersDeadMau5, Apparat ed Andy Stott. Merito del genio di tre artisti che hanno un nutrito curriculum alle spalle (Riccardo Mazza ha collaborato con Chick Corea, Franco Battiato, Giorgio Gaber e Francesco Baccini e sta per pubblicare una personale antologica di 9 cd con Machiavelli Music Publishing, Laura Pol è attiva da oltre due decenni ed ha esposto i suoi progetti fotografici in numerose esposizioni d’arte contemporanea, Carlo Bagini ha militato negli Statuto ed ha lavorato al fianco di Righeira, Rettore e Marco Carena) e che hanno avuto l’ardire di abbracciare un progetto tanto complesso quanto affascinante.
Un progetto che pare orientato più verso il mercato estero che certamente apprezzerà le sonorità di brani quali “Look Further” e “Ya-Ho” e che rimarrà stupito da “Rebirth”.
Il lavoro è stato concepito e registrato interamente a Torino negli studi Interactivesound di proprietà dello stesso Riccardo Mazza, in quella città che da sempre è una fucina di talenti musicali (Fred Buscaglione, Rita Pavone, Arti & Mestieri, Umberto Tozzi, Negazione, Linea 77, Subsonica ecc).
Tutto è stato svelato attraverso i suoni.
Tutto è stato detto.
Per il momento l’unica curiosità che rimane dopo un primo ascolto di entrambi i cd è vedere come si adatterà tutto questo in un contesto live e se anche lì muterà continuamente forma.
Quel che è certo è che dopo il White Album dei Beatles, il Black Album di Prince e il Green Album dei Weezer ora in molti potrebbero ricordarsi anche di qualcosa che ha preso forma in Italia: The White Side / The Black side dei Project-TO.

https://soundcloud.com/project-to/sets/the-white-side-the-black-side/s-LjArG

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Ira Green – RE(be)LIGION

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Ne avevamo sentito parlare, famosa soprattutto per chi segue i talent. Lei che da The Voice of Italy ha fatto stragi di cuori rock, oggi ha accumulato migliaia di fan in giro per l’Italia e si presenta con un video che conta oltre duecentomila visualizzazioni e un disco d’esordio al fulmicotone. Si intitola RE(be)LIGION estremamente consigliato agli amanti dei Black Sabbath macchiati di AC/DC (digitalmente parlando) con retrogusti di Muse per gradire, con una portata a fine pasto di quel grandissimo Rock Pop americano di grandissima fattura. Belli i suoni anche se qualcosa “gira male” all’ascolto. Ma non importa sinceramente: la voce potentissima ma, soprattutto, seducente di Ira Green eclissa tutto il resto. Non ci sono troppe melodie accattivanti, va detto ma anche qui sinceramente non è questo quello che conta. Belle canzoni, begli arrangiamenti, una rabbia controllata con dovizia di particolari ed un’energia che sia benedetta quanto è coinvolgente. Ira Green sforna un disco di inediti in lingua inglese, tra questi troviamo anche “Music’s Tramp” che è la nuova versione in lingua inglese (ovviamente) del suo singolo “Mondo Senza Regole” pubblicato nel 2014. C’è suspance, c’è tensione, c’è lo sfogo e la riflessione, c’è la punta alla cassa che quasi sembra trincerata, ci sono i suoni di chi si nutre di metallo, ci sono i power chord di un Crossover purtroppo fin troppo italiano e ci sono i gusti femminili che prima di tutto affascinano e poi vincono sul resto del mondo. La scena Indie in rosa porta a casa una paladina armata di corazza e cavallo ferrato; in rete il video di “I’m Wrong” che vi presentiamo a seguire e direi che non serve altro. Un disco da sentire ad altissimo volume.

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