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Ira Green – RE(be)LIGION

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Ne avevamo sentito parlare, famosa soprattutto per chi segue i talent. Lei che da The Voice of Italy ha fatto stragi di cuori rock, oggi ha accumulato migliaia di fan in giro per l’Italia e si presenta con un video che conta oltre duecentomila visualizzazioni e un disco d’esordio al fulmicotone. Si intitola RE(be)LIGION estremamente consigliato agli amanti dei Black Sabbath macchiati di AC/DC (digitalmente parlando) con retrogusti di Muse per gradire, con una portata a fine pasto di quel grandissimo Rock Pop americano di grandissima fattura. Belli i suoni anche se qualcosa “gira male” all’ascolto. Ma non importa sinceramente: la voce potentissima ma, soprattutto, seducente di Ira Green eclissa tutto il resto. Non ci sono troppe melodie accattivanti, va detto ma anche qui sinceramente non è questo quello che conta. Belle canzoni, begli arrangiamenti, una rabbia controllata con dovizia di particolari ed un’energia che sia benedetta quanto è coinvolgente. Ira Green sforna un disco di inediti in lingua inglese, tra questi troviamo anche “Music’s Tramp” che è la nuova versione in lingua inglese (ovviamente) del suo singolo “Mondo Senza Regole” pubblicato nel 2014. C’è suspance, c’è tensione, c’è lo sfogo e la riflessione, c’è la punta alla cassa che quasi sembra trincerata, ci sono i suoni di chi si nutre di metallo, ci sono i power chord di un Crossover purtroppo fin troppo italiano e ci sono i gusti femminili che prima di tutto affascinano e poi vincono sul resto del mondo. La scena Indie in rosa porta a casa una paladina armata di corazza e cavallo ferrato; in rete il video di “I’m Wrong” che vi presentiamo a seguire e direi che non serve altro. Un disco da sentire ad altissimo volume.

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Parranda Groove Factory – Nothing but the Rhythm

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Xiu Xiu – Plays the Music of Twin Peaks

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Probabilmente non esistono molte persone nel mondo occidentale che non associno il nome Twin Peaks al capolavoro di David Lynch d’inizio anni 90. Se qualcuna di queste però sta leggendo la mia recensione, sappia che si tratta di una serie televisiva realizzata dal maestro del surrealismo cinematografico che racconta della morte della giovane Laura Palmer e delle indagini che ne sono seguite dentro una misteriosa cittadina al confine tra Stati Uniti e Canada. Chi sa di che parlo troverà riduttiva e semplicistica la mia descrizione ma non è questo il luogo per parlare della pellicola che invito tutti a riscoprire, in attesa dell’agognato seguito. Quello di cui discutiamo oggi è invece l’ultimo lavoro di una band meno nota del telefilm ma che meriterebbe più attenzione e almeno una volta nella vita una vostra presenza a un live.

Gli Xiu Xiu sono un’eclettica formazione californiana che ruota attorno al talento di Jamie Stewart e che, nel corso degli anni, ha visto più di una volta stravolto il proprio stile tanto quanto la sua compagine. Partendo da una materia prima New Wave, hanno esordito con lavori sperimentali degni di nota come Knife Play o A Promise di stampo sintetico ed elettronico, profondamente inclini ad ambientazioni malinconiche, sconfortate, mortifere, tragiche, tutto fino al capolavoro Fabulous Muscles in cui, mantenendo intatti i punti fermi estetici, hanno amplificato la loro vena Art Rock al massimo. Da qui in poi (era il 2004) hanno messo al mondo un numero impressionante di opere che non hanno disdegnato di accarezzare territori diversi e più morbidi come il Pop (“Angel Guts: Red Classroom”) ma anche lo Spiritual e l’Avant Rock oltre ogni immaginazione, con pochi lavori degni di nota e tante porcherie, specie in tempi recentissimi con Neo Tropical Companion Hearts, Tired of Your World… Peru e Kling Klang eppure quello che mi ha sempre spinto a tenerli d’occhio è un incredibile coraggio dovuto a una necessità di mantenere intatta la loro (in realtà sua, perché è Stewart il cuore degli Xiu Xiu) libertà espressiva.

A questo punto arriviamo a Plays the Music of Twin Peaks, una scommessa apparentemente persa in partenza viste la difficoltà di ridare linfa a una colonna sonora che è stata incredibile a tal punto da aver reso l’opera di Lynch ancor più intensa, terrificante, inquietante e memorabile tanto che bastano un paio di note di Angelo Badalamenti per far venire la pelle d’oca a noi trentenni che con l’incubo di Bob siamo andati a letto ogni sera.

Chi invece sa bene di cosa parliamo starà chiedendosi in che modo possano aver proposto questa parziale rilettura ed è quello che mi sono chiesto anch’io e che ho scoperto solo poco fa. Certamente lo stile tetro, perturbato e disperato degli americani ben si sposa con l’opera di Badalamenti eppure forte è il rischio che le esasperazioni sonore da loro adorate finiscano per stravolgere eccessivamente gli originali. Quello che, invece, hanno fatto ottimamente gli Xiu Xiu è stato abbassare i toni sugli aspetti loro meno consoni come quella certa eleganza jazzistica e quella soavità a metà tra Chamber e Dream Pop, per amplificare le parti più crude, brutali, senza per questo esagerare nell’interpretazione personale e suggerendo un punto di vista diverso allo “spettatore”, ora meno vittima sessuale e sacrificale al fianco della Palmer e più vicino alle figure malefiche del film. Tutto è meno tormentoso; le postille rumoristiche dilatano l’eccitazione e spezzano quell’inquietudine donando maggiore energia; la voce, nei pochi casi in cui compare, è perfetta nella sua disuguaglianza con l’originale per seguire l’impronta di questa versione disarmonica dei brani e il senso di angoscia è comunque riproposto con una forma dissimile (si pensi al lungo monologo -anzi no, ma non vi rovino la sorpresa- finale, “Josie’s Past”). Questo Plays the Music of Twin Peaks non può e non deve essere visto come una semplice riproposizione di vecchie canzoni e brani di una grande serie e soprattutto non deve essere inquadrato collegando le sue note alle immagini che avrete bene impresse nella mente se avete visto la serie. Quelle icone, le tende rosse, la luce soffusa, la nebbia del nord America, gli abiti sensuali delle ragazze del One Eyed Jacks, la convenzionalità yankee della casa di Leland, l’oscurità del bosco, sono già state descritte con perfezione e minuzia da Badalamenti e queste nuove trasposizioni non riuscirebbero a dare lo stesso effetto. Per riuscire ad apprezzare al meglio il collegamento tra audio e video dovreste vedere una versione di Twin Peaks che non è mai stata impressa su pellicola, mai probabilmente immaginata, una versione in cui ogni momento è vissuto nella testa disturbata dell’assassino.

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Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree

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L’ennesimo ottimo lavoro di un musicista infinito, il più bello da quindici anni a questa parte.
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Merkel Market – La Tua Catena

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Il progetto nato a Milano solo quattro anni fa è radicato ben più lontano negli anni; sia nello stile che nelle esperienze dei quattro componenti della band, già protagonisti della scena al fianco di Zona, Pino Scotto, Node, Yak la mente è costretta a tornare indietro fino all’inizio di fine millennio scorso. Proprio per questo, la loro proposta è tutt’altro che originale: onesta gravezza Post Hardcore in lingua madre stile Negazione con  lezione Refused ben impressa nella mente miscelata all’immediatezza violenta dell’Hardcore Punk e al casino controllato del Noisecore che a tratti ricorda sia The Locust sia certi Today Is The Day.

La Tua Catena è un macigno in diciassette frammenti aguzzi, diciassette “canzoni” velocissime e dirette, costruite sulle semplici basi ritmiche fatte di due bassi e una batteria a reggere il peso delle parole urlate, cantate a fatica, stravolte, stuprate e sputate sulle nostre orecchie. La violenza non è solo narrata dalle note aggressive dei quattro ma è anche raccontata come il prodotto malsano e multiforme che marcisce e prende sapore ed odore sugli scaffali di questo orrido supermarket che è l’esistenza umana non sotto l’aspetto morale ma piuttosto comportamentale. Le canzoni sono la trasposizione ideale, la mercificazione di questi prodotti incorporei, offerti dai Merkel Market a prezzo scontato affinché assaggiando il male , chi ne è in grado, riconosca la miseria della società occidentale intesa come consumistica e falsamente globalizzata.

Messa da parte la ridondanza metaforica, ciò che resta è un disco sicuramente riuscito sotto l’aspetto dell’immediatezza e della brutalità che un po’ stanca all’ascolto ripetuto, nonostante non raggiunga i trenta  minuti, per un’eccessiva omologazione al genere, senza alcuna variazione sul tema che desti reale interesse e fornisca nuova linfa a tutta l’opera. Certo è interessante l’inserto di alcune sonorità “extra occidentali”, così come ottimo è il lavoro di Marco Di Salvia alla batteria, capace di unire tra loro tutti i brani a creare un’entità unica, ma tutto questo non basta a fare di La Tua Catena qualcosa di più di un buon disco Italian Post Hardcore per amanti del genere.

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Le Sacerdotesse Dell’Isola Del Piacere – L’Interpretazione dei Sogni

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Plastic Light Factory – Hype

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Freschezza, sfrontatezza e gioventù sono le tre parole magiche che vengono subito in mente ascoltando Hype, l’EP d’esordio del trio mantovano Plastic Light Factory. Cinque brani completamente autoprodotti che propongono un sound brioso e leggero, fortemente ispirato e influenzato dall’Indie Rock britannico. I riferimenti principali nello stile e nel mood sono gruppi come Franz Ferdinand, Artic Monkeys e Rooney. Tecnicamente il trio dimostra di padroneggiare bene materia e genere riuscendo a mantenere in tutti i pezzi la qualità alta e il ritmo sostenuto, tanto da pensare di trovarsi davanti a un gruppo straniero e non italiano. Se da un lato però i Plastic Ligh Factory ci portano in pista con le loro ritmiche pulsanti e ci solleticano il palato con i suoni effettati e la cassa dritta, dall’altro non provano mai a distaccarsi dal territorio prescelto e fare qualche passo più imprudente e sperimentale. In generale all’EP Hype non manca davvero nulla, e si può benissimo considerare un lavoro ben fatto e molto piacevole da ascoltare: le melodie sono accattivanti, la cassa fa battere il piede e i riff ti travolgono velocemente. Speriamo che le buone premesse e le capacità dimostrate in questo esordio possano solo essere la base sulla quale costruire un futuro sfacciato e personale.

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Bol&Snah – So? Now!

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In che modo si può mettere insieme il sound di una semi sconosciuta band norvegese oscillante tra Ambient e sperimentazione con l’esperienza Psych/Prog/Jazz Rock del fondatore dei Motorpsycho, Hans Magnus Ryan? A questo provano a rispondere Bol&Snah, band nordica di Trondheim miscelata allo pseudonimo di voce e chitarra della mitica formazione concittadina.

A tenere insieme questo delicato legame è soprattutto la voce di Tone Ase, perfetta, nonostante non sia proprio fuori dal comune, nella sua capacità di essere potente, intensa e delicata nel declamare le parole del poeta Rolf Jacobsen nelle sue digressioni sul tema del delicato rapporto tra uomo e natura, decantato non con idea unilaterale ma affrontando il problema da diverse prospettive, senza soluzione di continuità.

La profondità e l’attualità del tema, unite alla vocalità della Ase e alle peculiarità dei diversi musicisti, Snah in primis sebbene le sue doti di chitarrista puro non siano quelle più apprezzate dai fanatici tecnicisti, fanno sì che le sei canzoni che vanno a formare So? Now! si alternino in strutture composte, a volte più decise, altre più eteree, con diversi crescendo e in una scrittura musicale precisa ma capace di notevoli aperture sinfoniche e tendenti all’Hard Rock più irruente in diversi passaggi.

Un album costruito perfettamente, in melodie e arrangiamenti, capace di mettere in mostra qualità strumentali, vocali e liriche, con uno Snah in grado di palesare le sue doti, non tanto di virtuoso, quanto piuttosto di compositore, che ha l’unica grande pecca di suonare prolisso e ridondante ascolto dopo ascolto, con tante idee già usate e abusate che, tutto sommato, riescono comunque a reggere la facciata pur se con molta fatica.

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Ottavia Brown – Infondo

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Di certo apprezzabile l’ impegno e lo stile con i quali Ottavia Bruno (ironicamente in arte Ottavia Brown) ha confezionato in autoproduzione la sua opera prima. Dalla cover all’artwork fino al packaging tutto è fatto in maniera professionale e con la voglia di non passare inosservata e apprezzabile è anche che progetto grafico e illustrazioni siano curate dalla stessa la quale, oltre ad essere compositrice è, per l’appunto, anche illustratrice di professione. Questo, però, è solo una luce fluorescente tesa a carpire la nostra attenzione. Ciò che conta non si vede ed è nascosto in dieci tracce in italiano scritte sotto la produzione artistica di Marco Franzoni.

Non fatevi confondere dalle mie parole perché il legame tra i disegni e la musica è molto stretto e necessario per comprendere l’estetica della Brown che, parafrasando le sue parole, al momento della composizione da spazio prima agli occhi e poi all’udito, creando così un legame tra un brano e il successivo come quello che si crea tra le pagine di un libro. Dieci canzoni che parlano d’inquietudine e sogno e raccontano di personaggi apparentemente distanti ma spesso uniti da ambientazioni favolistiche. Assolutamente godibili gli arrangiamenti e lo stile, miscela di Pop moderno e Swing anni 50, con venature Folk e tratti da Film Score Noir, il tutto ad avvolgere una voce gradevole.

Certo, con qualche sforzo in più in fase di scrittura e di ricerca melodica si sarebbe potuto apprezzare con più fermezza, tralasciando il fatto che la voce stessa non è nulla più che una piacevole voce di una seducente songwriter italiana. La costruzione stessa di testi, arrangiamenti, ritmiche e tutto il resto sembra studiata a tavolino per suonare irreprensibile tanto da mancare di coraggio, originalità e voglia di superare taluni limiti. A queste condizioni, è solo un disco ben fatto che, tutto sommato, stanca dopo qualche ascolto, non lascia il segno in nessuna delle tracce e mai riesce a trasportarci dove solo i migliori riescono.

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I DISCHI CHE NON TI HO DETTO | Italia sintetica

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I confini tra Rock ed Elettronica sono ormai estremamente labili e da tempo la materia sintetica si insinua anche nelle produzioni nostrane, contaminando e rinnovando la tradizione cantautoriale o rinnegandola totalmente con lo sguardo proiettato oltre i confini della Penisola.
Tra le uscite degli scorsi mesi di questo 2016 abbiamo selezionato alcuni dischi in cui, sebbene giochi di volta in volta un ruolo diverso, la componente Elettro è di certo essenziale e imprescindibile.

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Daniel Lioneye – Vol. III

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Siamo giunti al terzo disco di Daniel Lioneye, chitarrista dei talentuosi HIM e mente di riff e assoli a dir poco sbalorditivi che senza esagerare fanno gola a tantissimi musicisti di alto livello della scena Hard Rock ed Heavy Metal internazionale. Purtroppo in molti lo conoscono, come già detto, perchè si tratta di uno dei pilastri della tanta amata/odiata band finnica, creatrice addirittura di un genere quale il Love Metal. In pochi sanno però che Mikko “Linde” Lindstrom, ovvero  Daniel Lioneye, ha un suo progetto nato nel 2001 con alle spalle altri due lavori.

La band di Lioneye è composta da altri due membri degli HIM: Migè Amour al basso ed Emerson Burton alle tastiere. Attualmente alla batteria troviamo Seppo Tarvainen dei The Stourger che va a sostituire Bolton degli Enochian Crescent.
Vol. III è un disco che come il precedente ti spiazza perchè comprendi a fondo le potenzialità di determinati artisti. Con questo lavoro non si tratta di cogliere l’ efficienza tecnica dei musicisti, bensì l’inventiva, il gusto musicale, la raffinatezza culturale e la capacità di assemblare generi più “duri”. Vol. III spazia dallo Stoner alla Psichedelia fino a toccare sonorità Black Metal, insomma tipi di musica differenti rispetto alla band madre che si occupa, invece, di un genere dalle tinte cupe, rockeggianti ed oscure. Ci si accorge dell’ottimo prodotto ascoltando tracce come “Break It Or Heal It”, che vanta di massicci riff e giri di chitarra, oppure la possente “Aetherside”, dove lo Stoner è predominante (gli Electric Wizard impazzirebbero per un pezzo di questo tipo). “Licence To Defile” ricorda un po’ l’andazzo del disco precedente solo che questa volta l’accurato lavoro delle tastiere fa la differenza rendendo il pezzo sinistro. “Dancing With The Dead” si posiziona tra le tracce più riuscite: ha un mood cupo dovuto al buon gioco delle tastiere di Burton, i massicci giri di chitarra presenti che vanno poi a comporre un interessante ritornello rendono il pezzo formidabile e il cantato di Mr. Lioneye da un tocco di fascino in più. “Neolitic Way”, già presente in Vol. II, qui è riproposta in una versione più pesante e pulita.

Questo Vol. III è un album di ottima qualità, dove non solo la musica suscita interesse ma anche i testi scritti da Mige Amour. Nell’attesa di riascoltare gli HIM possiamo goderci questo affascinante lavoro di Daniel Lioneye, magari qualche accanito fan di Sua Maestà Infernale potrà deliziarsi con qualcosa di diverso mentre i guru del metallo pesante o i fondamentalisti potranno ricredersi sulla bravura e la genialità di questi musicisti.

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Emiliano Mazzoni – Profondo Blu

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Di Emiliano Mazzoni apprezzo soprattutto la schiettezza. Quell’evidente trasparenza della scrittura che rende le sue emozioni tangibili senza ritocchi, senza filtri che non siano quella voce calda e sghemba, quei pianoforti zoppicanti. Già ascoltando il suo ultimo disco avevo goduto del suo sguardo netto sul mondo, che si inoltra negli orizzonti dalle montagne (si sente l’aura dell’eremo, io credo, nelle sue canzoni), si inerpica tra le valli della vita, osserva momenti sparsi, prova qualcosa e lo rende a parole piccole, intagliate nel poco.

Qui, rispetto all’ultimo disco, c’è un’armonia di fondo più centrata, un’ambientazione sonora che avvolge, un Profondo Blu, appunto: è una discesa nuda in un cupo che, a dispetto delle apparenze, non è freddo, anzi, e Mazzoni nudo ci si sente a casa, non ha paura: guarda la nuvola che passa e che va fuori dalla finestra, e lui lì, fermo, che sta molto bene dove sta (vacca se sta bene), complici anche gli arrangiamenti spesso sussurrati ma mai incerti, la voce calda e segreta, la semplicità storta (o la stortezza semplice) che serpeggia negli undici brani che raccontano di donne e dei loro fantasmi, di strade e dei loro bordi, di funerali propri ed estranei giorni d’amore, di immortalità.

Un disco laterale in cui si compie la più poetica delle traiettorie: sempre verso il centro, senza toccarlo mai: sfiorare.

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