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Acinideva – Fuori dall’Eden

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Ecco un disco che è davvero degno di nota, un lavoro che ti spiazza soprattutto se si considera la casa discografica, la Nadir Music che solitamente tratta di generi più estremi. Il disco in questione è Fuori dall’Eden, composto dai genovesi Acinideva. Un ottimo prodotto Rock dall’ impronta cantautorale che riesce ad emozionare con i suoi riff e i suoi testi riflessivi i quali si indirizzano su tematiche sociali e sul genere umano in generale. Fuori dall’Eden è un disco di dieci tracce, ognuna con qualcosa da raccontare e far provare. Questo disco vanta di un sound roccioso ed elettronico fatto a pennello, non ci si stanca mai di ascoltarlo e la voce di Alessandro Ottaviani è un vero portento. Parliamo di un gruppo che potrebbe camminare a braccetto con i più affermati, come il Teatro degli Orrori, Johnny FreakMarlene Kuntz Massimo Volume.

Il platter si apre con “Eva” una canzone che ha la giusta dose di potenza e dolcezza con il basso di Loris Andreotti che fa davvero la differenza. Con la successiva “Norwegian Suite” si comincia a sentire la vena nervosa della band. “Lampedusa” mette in mostra le possenti chitarre di Fabio Cloud e Tommaso Piana: riff taglienti e nevrotici giri di chitarra il tutto condito con l’ottima prestazione di Ottaviani. Il brano già presagiva il successivo divampare dell’ incendio di fronte l’ incapacità dei governi europei di affrontare la questione. “Il Cantico dei Cantici” è il momento di pausa del disco; questa traccia per la maggior parte del tempo è dominata dalle prestazioni cantautoriali di Alessandro Ottaviani.  Si riparte a razzo con “Ossigeno”, altra traccia di ottima fattura che presenta rocciosi riff. “Arbeit Macht Frei” è un’altra canzone particolare, melodica e movimentata.

Le ultime canzoni da citare obbligatoriamente sono “L’Inganno” e la conclusiva “Prima del Bacio (Tra Paolo e Francesca)”, la prima forte e di un certo impatto e la seconda invece calma; quest’ultima assomiglia quasi ad una ninnananna, la giusta canzone per addormentarsi lievemente e scappare in un altro mondo sognando una realtà migliore.

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Andrea Fardella – Le Derive della RAI

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Un bel disco sofferto, masticato, rimasticato e sputato con rabbia, disillusione, ma anche speranza, anche amore. Le Derive della RAI di Andrea Fardella è tutto questo: è una cavalcata visionaria e allucinata tra il dolore e la salvezza, che non è mai a buon mercato, condotta con piglio nervoso e sguardo impietoso dall’attore/musicista/cantautore.
Fardella scrive in modo personale e intenso, in uno stile che spesso illumina scene pronte a colpire allo stomaco non tanto nella singola immagine, che magari non brilla d’originalità, quanto nell’insieme: un panorama dissestato, crepato, di una nudità impudica di sé e degli altri che forse tanto deve alla sua esperienza d’attore. Qui e là si avverte il rischio di perdersi nelle frange spezzettate di un ruminare denso e continuo, di un getto poco controllato di spurgo psicologico, ma è un rischio limitato a pochi angoli.

Le canzoni, nella loro forma finale, devono moltissimo all’apporto in fase di produzione di Carlo Barbagallo, che le veste in maniera inconsueta e vivace, schivando l’ovvio che certe scelte di scrittura si portano dietro con arrangiamenti sghembi e puntualissimi, dove la batteria di Francesco Alloa pesta e si srotola quasi con un’anima propria. Le stesse canzoni nude, forse, si sarebbero perse in una semplicità un po’ troppo marcata, in andamenti che avrebbero dovuto appoggiarsi solo su voce e parole e che qui possono invece incuriosire e convincere anche quando tirano lungo (penso al finale perfetto di “Petit”, pezzo da nove minuti e dieci secondi che, miracolosamente, fatica ad annoiare).

Altro punto di forza è la voce selvaggia di Fardella, acuta e pungente, animale, quasi, in certi sforzi e in certi lanci, trattata a livello sonoro con effetti che sporcano e distanziano ma che comunque lasciano passare lo slancio, l’afflato primordiale di questa gola nuda e disperata. Sempre più raramente si incrociano cantautori che sanno unire la passione per la parola e per il cantato: qui la connessione è immediata, e la voce e le storie non possono slegarsi. È una voce che può anche non piacere nella sua ruvidezza: potrà pure apparire fastidiosa a qualcuno, ma di certo non annoia.
Le Derive della RAI è un disco in qualche modo claustrofobico: canzoni che si tendono e si gonfiano dentro gabbie e vogliono uscire e urlare, raccontare attimi di vita spesso sofferta in cui la luce è, bene che vada, comunque dietro un angolo; sfoghi, espulsioni catartiche, rigetti e riconquiste. Uniche controindicazioni i suoni acidi, virulenti, e certe già citate scariche a salve, attimi fuori fuoco, brevi scivolate. Per il resto un disco vivo, sentito, “vero” per certi versi, quanto può essere vera una rappresentazione cruda e umida di una sorta di nostra disastrosa, tenace, fragile umanità.

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Flowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste

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Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.

L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.

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Zirkus der Zeit – A Shape in the Void

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Probabilmente, tra l’infinità di dischi che ho avuto il piacere di ascoltare negli ultimi mesi, nessuno come questo A Shape in the Void dei liguri Zirkus der Zeit è riuscito a mettermi nella stessa condizione di difficoltà valutativa.

Partiamo dalle prime impressioni e da quei fattori che servono poi a costruirsi un’iniziale opinione; cominciamo da quegli elementi congegnati dal duo e che, inevitabilmente, vogliono innalzare l’asticella del nostro interesse. Un nome in tedesco che significa Il Circo del Tempo; due membri di sesso opposto rintanati sotto gli pseudonimi di V e Z; un album dal titolo in inglese che si traduce in una forma nel vuoto; un artwork minimale, oscuro e accattivante; una foto/disegno che ritrae V e Z in una posa che ricorda un’altra coppia che, come vedremo, è da considerare punto di riferimento dei nostri Zirkus der Zeit. Se l’intento era di rapire la nostra attenzione, ci sono riusciti; quello che resta è andare al sodo con l’ascolto e qui iniziano i dubbi. Tanta “solennità” inizia a sciogliersi col passare dei minuti e la prima cosa che viene voglia di fare è incazzarsi per una sorta di tradimento artistico ma poi subentra la serietà di chi è chiamato a descrivere qualcosa che probabilmente non conoscete (nonostante sia il secondo album) e non avete ancora ascoltato. Quello in cui certamente riesce il duo è, prima di tutto, creare un immaginario che coinvolga reminiscenze che superano la sola musica e fornire elementi per fantasticare e viaggiare nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro, dentro e fuori i confini del mondo. Quello che colpisce è sicuramente il coraggio, soprattutto di V che crea trame soniche complesse, articolate, dalle continue variazioni e sicuramente non consone alle più ovvie produzioni nostrane. Quello che, invece, diventa il punto debole dell’opera è, prima di tutto la voce di Z, la quale, sopra tappeti sonori contorti e oscuri, prova a fare sfoggio di muscoli ma non regge il peso con la sua timbrica mediocre e una tecnica non proprio fuori dal comune.

Eppure non è solo lei a non convincere perché, se è vero che di V possiamo apprezzarne il coraggio (del resto, in Italia essere coraggiosi, nel senso di diversi non è poi cosa di troppo sforzo) non possiamo dire altrettanto degli arrangiamenti e del sound nel suo complesso, che da più parti si vuol far ricondurre a influenze di prestigio quali NIN, King Crimson, Tool addirittura, ma che in realtà, finisce per forgiare solo una copia non troppo riuscita dei Dresden Dolls in chiave Rock. Sono proprio loro il punto di riferimento principale, o almeno l’accostamento più opportuno, nonostante mai citato a quanto pare, per i nostri Zirkus der Zeit, soprattutto nelle sessioni di piano/voce che sono poi anche le più interessanti. Proprio come la band di Boston capitanata da Amanda Palmer, i liguri lavorano su atmosfere cinematografiche noir, su sonorità da Dark Cabaret, su immagini nostalgiche come sbiadite foto in bianco e nero, alternando poi Piano Rock e un banale Alternative Rock misto a Prog e Metal senza vera convinzione ma che finisce per essere l’unica vera variante notevole dal più noto e già citato duo.

Se dunque la fortuna del duo americano è da ricondursi alla creazione di questo varietà grottesco e circense da Belle Epoque, non si può dire lo stesso di chi cerca di imitarne all’eccesso lo stile e se i primi hanno avuto non solo la capacità di essere primi e diversi ma anche di produrre brani eccelsi e immortali, unendo sensibilità e divertissement ad arrangiamenti notevoli e una voce incantevole e intensa, gli italiani non riescono a colpire nello stesso modo, riducendo il tutto a una sorta d’imitazione basilare che vorrebbe forgiarsi di derivazioni più complesse senza riuscirci.
Detto questo, sembrerebbe ovvia una bocciatura per il secondo album dei Zirkus der Zeit, ma da qui i dubbi palesati all’inizio. A Shape in the Void è come un tema copiato dal primo della classe ma un tema ben scritto, con qualche spunto interessante e comunque diverso dalle banalità di quattro asini che si scopiazzano tra loro senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Dunque, dopo una serie innumerevole di ascolti, non posso che promuovere il duo, se non altro perché hanno tutte le potenzialità per andare ben oltre quei limiti. L’importante sarebbe iniziare a essere davvero se stessi e partendo da questo presupposto si potrebbe veramente capirne il valore. Avvolgere i Dresden Dolls di fumo e veli neri, di schitarrate e ritmiche pesanti e contorte, non può bastare.

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I Cani – Aurora

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I Cani sono uno di quei gruppi che vince anche solo partecipando. Creano polveroni sia che si odino o che si amino. Ritenuti solo degli hipsters dai detrattori, dei poeti dai loro fans. Aurora è uscito a Gennaio ed è diversissimo dagli altri loro album. Non ha l’irriverenza Lo-Fi de Il Sorprendente Album d’Esordio de I Cani né l’immediatezza di Glamour. Questo è un lavoro che arriva subito dopo la realizzazione della colonna sonora per la commedia agrodolce di Gianni Zanasi “La Felicità E’ Un Sistema Complesso” da parte di Niccolò Contessa, leader della band. Un’esperienza che può aver lasciato il segno in sede di stesura.
Aurora è un disco malinconico che analizza l’amarezza dei sentimenti ai tempi dei social network (“Questo Nostro Grande Amore”), dove tutto è pubblico e niente rimane chiuso nel cuore di chi vive quelle emozioni.  Stesse sensazioni che si provano ascoltando “Baby Soldato”, una canzone che offre uno squarcio triste sulla decadenza delle mode e delle tendenze nichilistiche. “Il Posto Più Freddo” narra della fine di un amore e dei rifugi illusori che possono darci i falsi idoli. Musicalmente, senza fare forzatamente un riassunto delle puntate precedenti, i ritmi si sono abbassati anche perché ogni singola composizione necessita di una struttura più riflessiva. L’emotività senza pietà di “Una Cosa Stupida”, ad esempio, affronta il tema della perdita dei contatti tra persone vicine e come si arrivi a degli spontanei allontanamenti. Aurora vive in questo limbo fatto di fallimenti, incomprensioni, vuoti cosmici. E’ impossibile, scrutando all’interno di una sua canzone, non ritrovarci noi stessi. Il dolore esistenziale non è mai stato così dolce.

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Cosimo Morleo – Ultreya

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Non so se sia mai nato un nuovo David Sylvian in Italia (a parte forse Andrea Chimenti), ma se così fosse indicherei come primo nome il cantautore torinese Cosimo Morleo. Dopo essersi dedicato a lungo alla musica antica e barocca e alla regia teatrale arriva nel 2012  l’attesissimo esordio Geni Dominanti (Controrecords/ NewModelLabel) prodotto da Enrico Fornatto (Alberto Fortis) e che ha visto la collaborazione di Exir Gennari (Tribà, Fratelli di Soledad), Gianfranco Nasso (Mambassa) e Andrea Rosatelli (Simone Cristicchi, Chiara Civello). Oggi torna con Ultreya, disco anticipato dal singolo “Fonteyn (Madame)”, in cui l’artista piemontese affronta il delicato tema del bullismo omofobico. Cosimo Morleo si era già schierato in passato al fianco del movimento Glbt con “Turing”, brano contenuto in Geni Dominanti, ma pur essendo passati alcuni anni la società italiana appare ancora troppo “chiusa” nei confronti degli omosessuali ed ecco quindi che la musica può giocare un ruolo fondamentale a livello di comunicazione per lanciare un messaggio di uguaglianza che si auspica arrivi presto. Ultreya però affronta anche altri temi delicati quali gli amori clandestini con “Kavafis”, che è ovviamente ispirata dal famoso poeta greco (nato e morto però ad Alessandria d’Egitto). Credetemi quando vi dico che qui la raffinatezza è di casa , già dalle prime note della canzone. Tuttavia Morleo raggiunge l’apice sicuramente in “Mr Thoreau”, questa volta dedicata al celebre filosofo statunitense che visse a fine ottocento. Riferimenti quindi anche ai grandi testi letterari, per un prodotto destinato a un pubblico colto che di certo non segue i talent show. Riferimenti anche ai fatti di cronaca e al film documentario “Io Sto Con la Sposa” in “La Sposa”. Un Pop elegante e mai banale, un po’ retrò, un po’ tipicamente anni ottanta ma anche proiettato al futuro. Che siano queste le nuove direzioni da intraprendere? C’è anche una cover fa le nove tracce contenute nel disco, “Per Una Bambola”, brano scritto da Maurizio Manzi, interpretato da Patty Pravo e portato a Sanremo nel 1984. Trent’anni circa quindi separano la versione originale da quella proposta da Cosimo Morleo. Di differenze se ne notano tante, di affinità altrettante, ma anche il fan più incallito della “ragazza del Piper” non rimarrà deluso. “Retròromantico” è pura poesia sonorizzata; un basso alla Mick Karn e chitarre alla Alberto Radius coesistono nello stesso universo intrecciandosi con il violino di Sergio Caputo. Se Mango fosse ancora vivo sarebbe stato invece l’interprete perfetto per il brano “Un film di Godard”. Sarebbe stato interessante se il più grande cantautore lucano di sempre avesse potuto ascoltare il pezzo e magari duettare con Morleo. “Desiderantes” è l’ultimo brano in italiano, uno sguardo verso il cosmo e le stelle, con l’amore come tema ricorrente. Chiude il disco “Leave The Boy Alone”, composta per il film di Giovanni Coda in uscita nel 2016 “Bullied to Death”, scritto a quattro mani con Maddalena Bianchi, che affronta il tema del bullismo. Curiosamente “Ultreya” è un’antica parola usata dai pellegrini durante il cammino di Santiago in epoca medioevale che significa “Vai oltre, sempre più avanti”. Ecco, questo è l’invito che rivolgiamo a Cosimo Morleo. La strada intrapresa è quella giusta. Sarà importante non smarrire la retta via, perché oggi come oggi molti non guardano più al nostro patrimonio artistico e cercano ispirazione altrove. Morleo invece non ha avuto paura di confrontarsi persino con un mito vivente come Patty Pravo e ciò lascia solo ben sperare per il suo futuro.

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Kaouenn – Kaouenn

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Scegliere un gufo come immagine simbolo per l’omonima opera di Kaouenn è opzione che, se da un lato permette di utilizzare tutta una serie di simbologie per spiegare la propria musica, dall’altro rischia di trasformarsi in una banalizzazione della stessa, visto l’eccessivo e talvolta superficiale uso che si fa di questa effigie. Il gufo, in un passato remoto associato al male, la morte, la sventura e l’oscurità è anche il simbolo della saggezza, a seconda di quali tradizioni si vadano a scandagliare e dunque, in una visione d’insieme, ha la forza di evocare una duplicità di allegorie, positive e negative, di rappresentare la complementarità dei contrari, che, nel caso specifico di questo disco, vogliono essere realismo e misticismo, auto distruzione e speranza. Come riesce Kaouenn a rendere, con la sua musica, tutto questo? A dirla tutta, semplicemente non ci riesce, perché il timore che questa simbologia fosse il pretesto per dare profondità a qualcosa che non riesce ad acquistarne con mezzi propri diventa una concreta realtà una volta passati all’ascolto. L’Electronic di Kaouenn è massimalista e protesa ad un Synth Pop senza troppe pretese, con sparute apparizioni di rimbombi Blues, tanta New Wave, Future Pop ed Electro Industrial come certi Covenant (“Black Owl”) e pochissime incursioni nelle asperità sperimentali del Trip Hop o nelle teutoniche atmosfere seventies. C’è qualche buona idea, soprattutto quando la voce cupa è accompagnata da ritmiche poderose e suoni grevi ma è la stessa voce uno dei primi problemi di quest’opera. Non convince e con lei non convincono le scelte di suoni e melodie, che per un genere di Elettronica che vuole mettersi addosso l’abito elegante della Pop star, la cosa diventa un problema enorme. Gli echi acuti ed elettrici dei Kratfwerk, le armonie vocali in stile Depeche Mode, l’offuscamento wave dei New Order, la severità Pop dei Pet Shop Boys, le stranezze rumoristiche e tribali stile The Knife (“Dog vs Fox”), diventano non tanto un dichiarato punto di partenza, una moltitudini di radici dalle quali innalzarsi per creare altro ma piuttosto uno scomodo metro di paragone che pesa come un macigno sulle spalle di un bambino. Non è certo tutto da buttare, diversi sono i passaggi in cui Kaouenn mostra di avere la possibilità di andare oltre quello che ha messo oggi sul piatto e la speranza è che sia capace di superare questa fase fin troppo confusa, magari lasciandosi alle spalle onanismi simbolistici e puntando dritto su una più coraggiosa e concreta scelta di suoni e melodie.

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Recensioni | aprile 2016

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Lucio Leoni – Lorem Ipsum (Alt Pop, Rap, Ska) 6,5/10
loremipsum
Stornelli romani che illustrano beffardi la generazione di quelli nati negli anni ‘80, che a volte si accalcano in spoken di Rap nostrano, altre volte molleggiano su melodie composte e vagamente sintetiche. L’album di esordio di Lucio Leoni è ironico e singolare, un’eccentrica voce fuori dal coro che merita sicuramente più di un ascolto.

[ ascolta “Domenica” ]

Martingala – Realismo Magico Mediterraneo (Indie, Blues) 6/10
Martingala_Realismo-Magico_coverAnima Blues, vestito Indie e tante esperienze diverse alle spalle: loro sono i Martingala, progetto parallelo ai Café Noir di Alessandro Casponi, Davide Rinaldi ed Emanuele Zucchini. Il loro disco d’esordio ci parla delle maree dell’animo umano raccontate in chiave blues-dream risultando pregno di un empirismo italo-Shoegaze. Alla luce di ciò nessun titolo fu mai così azzeccato.
[ ascolta “La prima volta che ascoltavo musica” ]

Med In Itali – Si Scrive Med In Itali (Jazz Samba, Swing, Songwriting) 7/10
si-scrive-med-in-italiCantautorato ironico dal retrogusto amaro e sfrontatezza Jazz per il secondo album del collettivo piemontese. L’estro nelle composizioni, in bilico tra tropicalismi e retromanie, regala scorrevolezza a un disco strutturato bene e suonato anche meglio. A volte la tradizione musicale italiana riesce ad evolversi in maniera diversa, senza necessariamente precipitare nel Lo-Fi e nell’Indie Pop.
[ ascolta “Comico” ]

LNZNDRF – LNZNDRF (New Wave, Psych Rock) 7,5/10
005141208_300Supergruppi che hanno la faccia di quelli che suonano insieme da decenni. Il progetto che vede impegnati i gemelli Devendorff (The National) e Ben Lanz (Beirut) è un esercizio ispirato e compatto, tra ambientazioni rarefatte e psichedelia ipnotica, in direzioni inaspettate per chi temeva una mera collisione tra i sound delle due band di provenienza.
[ ascolta “Future You” ]

Heathens – Alpha (Electro, Dark Wave, Trip Hop) 7,5/10
Heathens-AlphaCon Tommaso Mantelli aka Capitain Mantell alla produzione, il sound dei veneti Heathens si fa mellifluo ed elegante, un’oscurità elettrificata al neon che echeggia ai Radiohead e ai Massive Attack ma che non è mai ruffiana. Tra le collaborazioni, anche Nicola Manzan (Bologna Violenta). Maturità compositiva fuori dal comune per una formazione che è appena al secondo disco.
[ ascolta “Parallel Universes” ]

Nonkeen – The Gamble (Elettronica, Lo-Fi, Avantgarde) 8/10
homepage_large.1e761990Nils Frahm
come Re Mida, che maneggia vecchi nastri e li trasforma in oro. Con gli stessi compagni di allora, tra levigature e campionamenti le incisioni di Frahm quindicenne diventano impasto sonoro denso e magnetico. Il progetto Nonkeen è Elettronica suonata che ammicca al Krautrock e al Prog, ma con la disinvoltura di una jam session.
[ ascolta “Saddest Continent On Earth” ]

W.Victor – Che Bella Cacofonia (Alt Folk, Cantautorato) 7/10
w-victor-che-bella-cacofoniaCi porta a spasso per generi e luoghi questo ultimo lavoro di W.Victor, che guarda al Folk del sud della penisola ma anche a quello balcanico, e ci srotola sopra un songwriting intimo e scanzonato allo stesso tempo. Strumentazione tradizionale e un timbro vocale intenso sono sufficienti a completare un disco ironico e ispirato.
[ ascolta “Sempre Canto Per Lei” ]

Silence, Exile & Cunning – On (xxxxxx) 6/10
12122620_1065312083500354_1700802864376002040_nTutt’altro che nostrano il sound di questa italianissima formazione, che guarda con criterio al Post Punk frivolo degli Arctic Monkeys ma poco si sforza di aggiungere alla formula collaudata, tra parentesi Funk e qualche surfata di devozione ai Beach Boys. Il risultato è omogeneo e ben suonato, ma forse non basta per fare breccia nelle orecchie.
[ ascolta “Last, Proximate End” ]

Wild Nothing – Life of Pause (Synth Pop, Dream Pop) 5,5/10
downloadffffffAl terzo lavoro in studio l’autocitazionismo è di certo una scelta prematura. Jack Tatum ha tirato a lucido la produzione ma si è dimenticato di aggiungere l’ingrediente infallibile che aveva usato in Gemini e in Nocturne: l’intensità. Se non l’avesse fatto, probabilmente avremmo digerito qualsivoglia variazione sul tema. Risveglia dal torpore “To Know You”, ma solo perchè suona preoccupantemente Talk Talk.
[ ascolta “A Woman’s Wisdom” ]

 L’Orso – Un Luogo Sicuro (Synth Pop, Indie) 5/10
12813967_991014817635835_3173083255426462977_nL’Indie Pop de L’Orso è in preda a un’infatuazione per l’Elettronica easy e un po’ datata. Senza alcuna pretesa di trovare esperimenti arditi in un disco Pop, il risultato resta comunque eccessivamente banale. Gli episodi faciloni non riescono ad essere appiccicosi quanto in realtà vorrebbero, e gli incisi di cantato quasi Rap non aiutano.
[ ascolta “Non Penso Mai” ]

Igor Longhi – The Flow (Modern Classical) 6,5/10
Igor Longhi è un pianista triestino che si muove nell’ambito del minimalismo neoclassico. Un ascolto piacevole, un Ep nel quale Longhi mostrerà un’anima melodica che nella sua semplicità risulterà ricca di sentimenti e sfumature. Seppur non ancora ai livelli degli attuali e principali autori del genere questa naturalezza, leggera e cinematografica, colloca sicuramente Longhi tra i nomi più promettenti dello stesso.
[ ascolta “#loveisgenderfree” ]

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The Black Queen – Fever Daydream

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Greg Puciato è circondato da un alone mistico, ha attorno a se l’aura del miracolato, di colui che ha raggiunto traguardi importanti partendo dal basso, con tenacia e spirito di sacrificio. Nel 2001 ottiene il posto vacante di vocalist nei Dillinger Escape Plan, band di cui era fan, scalzando dal ruolo Sean Ingram dei Coalesce. Insomma, non il primo arrivato. Nel 2014 prese parte al mega-progetto Killer Be Killed, unendo le forze con certi signori che rispondono al nome di Max Cavalera (SepulturaSoulflyNailbomb), Troy Sanders (Mastodon) e Dave Elitch (The Mars Volta). Il risultato fu un disco di brutale Thrash Metal che collocava l’old style nell’epoca moderna. Anche lì Puciato svolse la parte del leone, fungendo da vero perno d’aggancio tra le due ere.

Oggi lo ritroviamo insieme a un nuovo compagno d’armi, Joshua Eustis, già con Telefon Tel Aviv e Nine Inch Nails. Viste le credenziali, le aspettative sono altissime. Fever Daydream è un album dall’atmosfera cupa e greve: la foschia dell’intro “Now, When I’m This” si tramuta prima in ghiaccio con “Ice To Never”, poi in densa oscurità in “The End Where We Start”: tre canzoni in cui emergono prepotenti  i fantasmi di Nine Inch Nails e Depeche Mode. “Secret Scream” è il brano più orecchiabile, con il suo tempo cadenzato e quel chorus che entra in testa immediatamente.
È quasi una missione impossibile scindere una traccia dall’altra, perché questo è un album che va assaporato tutto insieme, come se fosse un’unica grande composizione. Le uniche eccezioni sono “Distanced”, dallo stile simile a quello dei Black Light Burns, il side-project di Wes Borland dei Limp Bizkit, e “That Death Cannot Touch”, con i colpi di rullante rubati ai Fine Young Cannibals di “She Drives Me Crazy” (sentire per credere, il paragone è inevitabile). Mi stuzzica definire l’esordio dei The Black Queen come un disco anni 80 per chi odia gli anni 80. Sicuramente uno dei migliori lavori usciti in questi primi scampoli di 2016.

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The Incredulous Eyes – Red Shot

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Una partenza moscia, con mood triste alla “Small Poppies” di Courtney Barnett, più  un nome e un immaginario grafico che rimandano ai Tre Allegri Ragazzi Morti; fatto sta che nella  testa tutte le mie ipotetiche aspettative si concretizzavano in un album dall’attitudine decisamente differente. Red Shot, invece, è un disco che spinge, che  inizia con una serie di tracce corte per poi maturare una complessità musicale in constante evoluzione nell’arco delle sue tredici canzoni. Rock di matrice che ricorda a  momenti i migliori Foo Fighters ma che assomiglia soprattutto ai Royal Blood con l’unico difetto di perdersi sporadicamente in qualche malinconico momento nickelbackiano. Musica da sottobosco indie, locali piccoli e sotterranei, concerti bui e bagnati di sudore, un posto di diritto nelle playlist “alternative” di Spotify. Gli Incredulous Eyes riescono a liberarsi anche da tipici stilemi che affliggono il Rock italiano offrendoci un prodotto dalle sonorità totalmente internazionali, impresa non così scontata nella nostra penisola, senza compiere nulla di eclatante ma presentandosi con un album di ottima fattura.

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Big Cream – Creamy Tales

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Eterni Peter Pan, dentro e fuori, ma allo stesso tempo nubilosi e malinconici. Perennemente distratti da chissà cosa per capirsi veramente come per riuscire ad evitare di sporcarsi mangiando un gelato. Ancora oggi li riconosci: entrano in cremeria, ordinano il loro cono e sapendo che si sporcheranno fanno incetta di tovagliolini di carta che finiscono stropicciati in qualche tasca, pronti all’uso; quei tovagliolini sono spesso la loro più grande evoluzione dai tempi in cui ascoltavano Cobain in cuffia col loro buon vecchio walkman e la copertina di questo esordio dei Big Cream li descrive perfettamente.
Sono i ragazzi, oggi quarantenni, cresciuti a pane ed Alternative Rock a stelle e strisce del periodo che dalla prima metà degli Ottanta alla prima dei Novanta segnò le loro giovani esistenze e che questi tre ragazzacci della provincia di Bologna, completamente pazzi per quel periodo hanno deciso, come molti loro attuali colleghi, di riproporci sguazzandoci dentro come se li avessero vissuti. Creamy Tales, prodotto da MiaCameretta per la versione in CD e da More Letters Records per la versione in cassetta (a dimostrazione dell’attaccamento verso quegli anni) è il titolo scelto per questo EP ma il lavoro, per quanto proposto, avrebbe potuto benissimo intitolarsi Superfuzz Bigcream combaciando tra l’altro nel numero dei brani come nella durata con l’EP d’esordio dei Mudhoney.

A onor del vero, l’ispirazione ancor più che dalla band di Mark Arm arriva da Nirvana e Dinosaur Jr., saranno comunque molteplici i riferimenti in ambito Alt Rock statunitense che si incontreranno durante l’ascolto. Il trio ci proporrà dunque un sound centrato sulle tipiche distorsioni del periodo sopra citato spingendo i ritmi fin dove il genere consente tra riff energici immersi in voci e suoni ruvidi ma melodici.
Il tutto verrà chiarificato sin dalla traccia d’apertura una “What a Mess” nella quale non risulterà difficile immaginare i 3 giovani suonare live con alle spalle un bel muro di ampli in pieno stile Dinosaur Jr. (l’impronta della band di J Mascis sarà ripresa anche nel video che accompagna il brano). Il disco non si scosterà mai molto da questi canoni, troveremo semplicemente canzoni il cui stile virerà verso il Grunge più classico (“Sleepy Clood”) o nelle quali sarà possibile trovare sentori di quel Pop Punk d’inizio anni 90 in stile Blink-182 e Green Day (“Sleep Therapy”) e nel caso del brano più a sé stante del lotto (“Slush”) maniere più vicine allo Shoegaze con voce e cori mimetizzati tra gli strumenti che in alcuni frangenti di questo pezzo viaggeranno a velocità meno sostenuta rispetto al resto del disco; in tutto questo non risulterà difficile trovare echi di Pixies per quanto svuotati un po’ della loro fantasia.
I Big Cream non inventano niente e farlo non era assolutamente nelle loro intenzioni, tutto suonerà già sentito, i loro riferimenti saranno sfacciatamente riproposti e miscelati ma in modo maledettamente istintivo e profondamente sentito tanto da farci pensare che Riccardo, Christian e Matteo non potrebbero suonare diversamente. I tre ragazzi, che aspettiamo fiduciosi e con tanto di maglietta macchiata alla prova sulla lunga distanza, in queste sonorità hanno infilato le mani in modo godurioso e frenetico come i bambini le infilano nella cioccolata o nella cesta dei giocattoli e li hanno fatti loro creando questa crema che farsi scivolare addosso è un vero piacere, per chi vent’anni li ha oggi come per chi, troppo distratto per rendersene conto, li avrà per sempre.

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Pugaciov Sulla Luna – Freestanding

Written by Recensioni

Tesoro, arrivo sulla Luna e ritorno: i Pugaciov sulla Luna sono di nuovo tra noi. Dopo l’omonimo EP, confortante esordio del 2014, è arrivato il primo LP che reca un titolo esegetico, Freestanding.
Ma a quale tipo di libertà e autonomia si riferisce la band trentina? Innanzitutto stilistica. Arduo riuscire ad associare le dieci tracce ad una corrente precisa e circoscritta quanto invece più agevole considerarle come il frutto di tante esperienze diverse canalizzate da una forte carica spirituale e, pertanto, spiccatamente simboliche. La copertina sarebbe già di per se degna di un trattato di simbologia. Un robot che tra fili e circuiti (e un corpo che ricorda vagamente il Millennium Falcon) mostra occhi umani e un’espressione clownesca e che sembra stia per pronunciare qualcosa. Qualcosa di importante.

I Pugaciov non vogliono svelarci tutto subito e si sentono padroni di un’altra libertà, quella della discrezione. Poche notizie, qualche reticenza, zero divismo.
La messa a fuoco però arriva in fretta, giusto il tempo di assaggiare le tante contaminazioni presenti nell’album. Dal Garage (“Look!The World!”) al Post Rock (“Chains and wings”), dall’Alt (“Testa di cristallo”) al quasi Folk (“Freestanding”) e più in generale una scorpacciata di anni ’90, non importa che sia il Grunge degli Screaming Trees, il Noise dei Sonic Youth o l’Indie Noise dei Dinosaur Jr., tutto si colloca perfettamente nelle metriche di Riccardo Pro e soci dando vita ad un lavoro d’impatto ed equilibrato di cui “John Coltrane Twisting Blues” risulta essere un’esaustiva summa.
Non è solo per quell’intro un po’ ruffiano à la Indochine né per il faccione androide in copertina che questo disco suona così affascinante: c’è tanto, molto di più. Freestanding è la prova che si può fare centro unendo misura, savoir-faire e un pizzico di attitudine weirdo.

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