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Matt Elliott – The Calm Before

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A tre anni dal precedente Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart il cantautore di Bristol naturalizzato francese ritorna con un disco che è la quintessenza del suo inconfondibile stile, profondo ed afflitto fino all’accettazione nelle liriche come nella musica, come sempre contaminata da luoghi e tempi vicini e lontani, come sempre attualissima. Siamo quindi ai livelli delle Songs? Forse leggermente sotto ma poco importa finché il Nostro continuerà a sfornare lavori di questa portata. Matt Elliott non ha cali d’ispirazione, i livelli compositivi sono sempre consoni al suo nome, coinvolgenti, abissali, veri, intimi, il suo linguaggio seppur lontano dal mainstream è universale ma colto, la sua voce e la sua chitarra sono una grotta, scura ma sicura, nella quale è sempre meraviglioso entrare, perdersi e ritrovarsi. Questo signore, un disco ai livelli della trilogia, o persino migliore, potrebbe inciderlo anche domani e comunque con questo lavoro non ci va lontano.

The Calm Before, titolo scelto per quest’ultima fatica, non può che far pensare all’espressione la calma prima della tempesta, e ci troveremo ad attenderla questa tempesta che durante l’ascolto verrà più volte sfiorata, accennata, ma senza arrivare mai con quell’impeto che dovrebbe contraddistinguerla se non forse in un caso nel quale non toccherà né a noi né all’autore subirla. Il disco si apre con una breve introduzione musicale per portarci subito alla splendida title track che lungo i suoi 14 minuti ci descriverà l’arrivo imminente di una tempesta sia dal punto di vista meteorologico che metaforico, tra gocce di pioggia, macchie di sole e fogli danzanti, così come tra mostri e fantasmi ben conosciuti che riaffiorano, scopriremo come la tempesta, col suo spazzar lontano la polvere, potrebbe essere il momento opportuno per combattere le nostre ombre interiori e ricominciare se si avrà la forza di non soccombere ad essa. Nel brano, minimale ma ricco ed orchestrato, la voce profonda e la chitarra triste e quieta di Matt saranno accompagnate dal pianoforte e da un contrabbasso distante, archi accennati e rumori di sottofondo a dar voce al vento ne completeranno l’atmosfera. Nella successiva “The Feast of St. Stephen” il Nostro, con la sua nuda interpretazione, renderà trasparente il nero degli abusi sessuali e psicologici di miseri uomini d’ordine religioso su piccoli ragazzini descrivendoci inoltre genitori assenti ed un Dio che preferirebbe non vedere come la sua fede venga corrotta e tradita, ma fortunatamente, come Matt ci ricorda nella suggestiva “Wings & Crown” anche i presunti intoccabili, a qualunque livello, possono cadere e quando ci si schianta da certe altezze l’impatto può essere tremendo. Siamo a contatto col brano più ritmato del disco, la voce è meno grave, la chitarra suona un Flamenco che è un fuoco che soffoca e divampa e che con l’ottimo supporto degli altri strumenti riesce e regalare profumi d’Europa, d’Africa e d’Oriente mentre le linee di basso disegnano la globale instabilità della superbia; in questa densa atmosfera vedremo spezzarsi ali e corone, ad ognuno la propria tempesta. La nostra è tutta dentro, da sempre, sarà la meravigliosa e struggente “I Only Want to Give You Everything” a ricordarcelo, il brano è il più tipicamente ellottiano del disco, un Tango zigano in cui Matt canta il tormento dell’amore non corrisposto e nel quale la tempesta, infine trattenuta, sembra poter esplodere durante quel but you don’t love me che col tempo diventa un coro spettrale che pare chiamare a sé tutte le anime ferite da questa tipologia d’amore, e che più viene ripetuto più guadagna in potenza e pathos (anche musicalmente), per poi però giungere all’ultima ripetizione senza più forze andandosi a spegnere nella drammaticità e nell’accettazione del finale strumentale. Il disco si chiude con la pacificata rassegnazione di “The Allegory of the Cave” piuttosto vicina alla title track per quanto più scarnificata ed evidentemente riferita all’allegoria della caverna di Platone; nel brano la registrazione meno pulita può effettivamente regalare la sensazione di trovarsi all’interno di una caverna, uscendone il viso e gli occhi bruceranno al sole che picchia ma le infinite domande che si agitano dentro continueranno a non trovare risposta costringendoci a vivere comunque nel buio per l’eternità.

Matt Elliott, ancora una volta, riesce a colpire nel segno riuscendo con la sua voce e la sua chitarra a scolpire le nuvole prima della tempesta e con loro tutto il cielo che le circonda, ascoltarlo è rannicchiarsi in sé stessi osservando ed accettando le proprie debolezze ed i propri dolori e sapendo accogliere quelli altrui senza dimenticare di portarci dentro le giuste dosi d’angoscia e perplessità riguardo ad un mondo malato. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente finirebbe col sedarsi incontrando le melodie di Matt. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente non sarebbe che la calma durante, ma non pensate che faccia meno male.

Imprescindibile. L’uomo, ancor più del disco.


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Amarcord – Vittoria

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Gli Amarcord, sono cinque fiorentini che ispirati probabilmente dall’omonimo lavoro del maestro Federico Fellini, hanno scelto questo nome per il loro gruppo. Vittoria è il titolo del loro album d’esordio. Amarcord è una parola di origine romagnola, la contrazione di un’espressione che in italiano suonerebbe più o meno come “io mi ricordo”.  Una decisione che assomiglia a una scelta di campo, di fare del ricordo e della memoria temi importanti per l’album. Il legame con l’immaginario retrò si limita però, solamente ai testi, la parte musicale, i suoni e riferimenti sono, invece, privi di qualsiasi patina temporale e si mostrano molto moderni. Vittoria, infatti, è un album al 100% contemporaneo, che professa un Pop – Rock melodico, immediato, che li avvicina nello stile e nell’approccio a gruppi come Negramaro, Nobraino e Marta Sui Tubi. Di questi ultimi colpisce immediatamente la somiglianza nel timbro della voce del cantante Francesco Mucè con quella di Giovanni Gulino. In generale i brani sono molto simili tra loro con soluzioni e scelte musicali omogenee, rasentando spesso momenti di monotonia. Ci sono però, tra le undici tracce, alcuni brani che spiccano: “Balene” e “Vittoria” tra tutti, la prima per il ritornello killer e la seconda per l’improvvisa vivacità poiché spezza la spirale di uniformità dei primi quattro brani. Meritano di essere citati anche “Sulle Mie Spalle” per la pulizia e l’immediatezza e “Lucifero e Beatrice” ariosa ed evocativa con vaghi richiami jazz.  In tutto l’album prevale un’aurea molto commerciale, nonostante i testi siano sempre ben strutturati e mediamente superiori a quanto si ascolta nel genere di riferimento. Le melodie e i ritornelli orecchiabili sono un ottimo punto di forza, anche se manca il piglio, la giusta dose di rabbia e cattiveria, che si vorrebbe sentire quando si parla di tematiche forti, come nel brano “ I Nostri Discorsi”. Vittoria è un disco d’esordio con molti aspetti positivi, mostra il lavoro di un gruppo strutturato e maturo, ma che ha preferito una soluzione stilistica intermedia tra il commerciale e l’indie. Un insieme di contenuti potenziali e interessanti che musicalmente si muovono e si mantengono in una zona sicura e confortevole già percorsa ampiamente da altri e  spesso poco appassionante.

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Hell in the Club – Shadow of the Monster

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Siamo giunti al terzo disco degli Hell in the Club, un gruppo che ha dimostrato di far parte di una solida realtà, un gruppo che può far sognare la scoperta di nuovi pilastri dell’ Hard Rock. La band trova una sua personalità, dunque, un proprio stile che si differenzia notevolmente dagli altri.  Shadow of the Monster è il loro terzo disco ed è una sorta di consacrazione per Davide Moras e soci. Parliamo di un disco genuino che si lascia ascoltare anche più di una volta consecutivamente. Questo platter ha la capacità di trascinarti, farti scuotere e ballare a suon di Rock’n’Roll. AC/DC, Hanoi Rocks, L. A. Guns, Mr. Big e Steel Panther, sono le icone che hanno influenzato i ragazzi; d’ altro canto, gli Hell in the Club hanno bene appreso la lezione di questi maestri. Il prodotto sfornato è invidiabile:  c’è una canzone per riflettere, un’altra per scatenarsi e un’altra ancora per darsi al libero sfogo, insomma un disco dalle svariate emozioni e sensazioni. Un aspetto che va evidenziato è la scelta di spingersi su fronti che strizzano l’ occhio al Southern; infatti, si nota facilmente che il suono delle chitarre è più pomposo, rude e a tratti roccioso. Shadow of the Monster è un disco che una volta per tutte delinea il marchio del gruppo, nel senso che si differenzia e si fa riconoscere tra migliaia di dischi Hard Rock. Gli Hell in the Club sono un gruppo che sta prendendo il volo, hanno le carte in regola per aver un discreto successo in ambito Hard Rock. Non solo buoni dischi ma anche ottime prestazioni live nonché sceniche. Insomma si tratta di una band che si impegna e ci mette veramente il cuore in quello che fa.

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I.A.N.T. – Limite

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Limite mi ha catturato sin dalla prima nota. Sarà perché sono un inguaribile nostalgico e con questo album gli I.A.N.T. (Incapaci Ai Nostri Tempi) mi hanno fatto tornare indietro di oltre dieci anni, quando in Italia imperversava una scena Punk Rock di tutto rispetto portata avanti da Marsh Mallows, Shandon, Moravagine e chi più ne ha più ne metta. Così già “Il Trionfo”, una canzone che ricorda molto Ska-P e Harddiskaunt, mi fa drizzare le antenne, un’attenzione acciuffata anche da un testo avverso agli schiavi delle mode social e al declino delle generazioni future. “Luogo Comune” abbandona lo Ska e mette in pratica un Punk potente, con un ritornello Hardcore degno dei NOFX più molesti. Ancora una volta le liriche fanno un’ulteriore differenza spaziando dalla lotta al sistema al problema dilagante della disoccupazione. Il singolo “33-15” modera il sound mostrando sfaccettature più Alternative Rock. L’influenza dei Derozer è tangibile in “Non Sparerò”, un brano che pare il fratello gemello de “Il Viaggio Più Lungo”, anche se c’è una differenza d’età di tredici anni. La title track, che vede come ospite Tomaso De Mattia dei Talco, è una traccia Ska conturbante in principio che sgretola ogni convinzione sonora sfociando in un ritornello veloce e ultra melodico. Le ultime cartucce sparate sono la cover della hit del 1999 “Il Mio Nome E’ Mai Più”, nata dalla collaborazione tra Ligabue, Piero Pelù e Jovanotti e “La Colpa E’ Tua”, una canzone tiratissima che cementifica il loro appartenere al credo del Punk del secondo millennio. Se Limite fosse uscito dieci anni fa avrebbe catapultato gli I.AN.T. sul carro dei vincitori. Oggi li fa apparire più come delle mosche bianche. Ma il merito di farci fare un tuffo nel passato è così grande che non può che essere premiato.

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Perturbazione – Le Storie che ci Raccontiamo

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I Perturbazione sono eterni outsider. Riescono a rimanere sempre nel limbo, pronti a fare il grande salto ma senza arrivare ad acciuffare un posto fisso tra le stelle. La loro carriera (ormai sono quasi trent’anni!) è una continua montagna russa e poi questo disco arriva dopo quelli che sono stati indubbiamente il momento più alto e più basso della giostra. Prima il boom de “L’Unica”, di Sanremo e del tour nelle piazze, poi il terremoto che ha visto Gigi Giancursi e Elena Diana uscire dal gruppo. Le Storie che ci Raccontiamo esce a quasi due anni di distanza da tutto questo e aspetta la quiete dopo la tempesta, ma i fantasmi del passato sono dietro l’angolo pronti a ghignare e a trovare tutte le piccole mancanze del presente. C’era dunque l’aria di un disco che lottasse con le unghie e coi denti alla salvezza. Ma i Perturbazione, si sa, colpiscono nel segno proprio quando le aspettative intorno a loro sono basse. E così l’inizio col singolo “Dipende da Te” è una falsa partenza, quasi a dire: “guardate che non siamo solo un fottuto singolo”.  L’album cresce subito con un pezzo travolgente come “Trentenni”, ruffiana, dal titolo che puzza di banalità ma con un testo per nulla scontato, Elettro Pop di alta qualità. Si perché senza i ricami della chitarra di Gigi e l’eleganza del violoncello di Elena la virata Elettronica era sicuramente la scelta più ovvia. A volte l’elettronico diventa anche più elettrico, succede in “Ti aspettavo Già”. I Perturbazione hanno ben più di quarant’anni e bisogna dire che scrivono canzoni fresche e mature allo stesso tempo. Raccontano di amori adolescenziali, dei bei tempi, di stupida gioventù ma puzzano di consapevolezza. Qui la voce di Tommaso è alta, decisa ma trema quando si avvicina a parole chiave come “dolore, gioia e tradimento”. “Cara Rubrica del Cuore” è in pieno stile Perturbazione e avere un proprio stile nella musica leggera italiana vuol dire aver ormai lasciato un segno indelebile nel panorama. La canzone è poi impreziosita dalla voce Andrea Mirò, che sarà pure la musa che accompagnerà il gruppo in tour. “Cinico” invece ha un arrangiamento facile facile (anche se dietro il mixer c’è un colosso come Tommaso Colliva) ed è terribilmente orecchiabile. “La Prossima Estate” forse esagera, Pop troppo banalotto e semplice per una band di tale spessore. Il ritornello è decisamente da dimenticare, come tutti gli ultimi brani del disco. Suonano tutti un po’ come riempitivi con l’unica eccezione per “Le Storie che ci Raccontiamo”. Lunga ballata da sei minuti che ricama l’ennesimo arrangiamento facile e puntato su di un beat ben scandito sotto cui la band suona e ci spiega per bene che l’evoluzione non è semplicemente aggrapparsi agli scogli. Questo album è quello che ci aspettavamo in fondo, ma ben curato e apparecchiato. Con canzonette che entrano di prepotenza nella storia della band. Certo, non sarà il loro capolavoro ma lascia i Perturbazione ben saldi nella Serie A della musica italiana.

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Fabio Cuomo – La Deriva del Tutto

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La metamorfosi è uno dei temi principali della nostra cultura: da Omero a Carpenter, dalle scienze cognitive all’identità di genere, sembra riesca a rimanere un ambito in continuo sviluppo e lontano dall’essere esaurito (in crisi l’uomo, in ascesa il robot).
La Deriva del Tutto è un complesso lavoro al limite fra il racconto ed il suo effettivo disfacimento, nei giorni del disastro culturale -forse il titolo dell’album è meno retorico di come si possa pensare- la decostruzione e la successiva espansione attraverso raccordi al limite dell’atonale di matrice Ambient sembra funzionare bene. Le due canzoni che compongo questa esperienza sonora sono in realtà contenitori di un sistema che si libera di ogni struttura musicale, privandosi di veri e propri temi ad eccezione di qualche citazione sparsa qua e là. Le stanze rappresentante dal genovese Fabio Cuomo cercano l’asetticità poetica lasciando al fruitore il compito di ricostruire la propria esperienza estetica.
È possibile trovare una cesura nei minuti finali di Bene Gesserit (Dune e la metamorfosi -di nuovo- del nostro pianeta?), dove possiamo effettivamente assistere ad uno stacco quasi cinematografico, collocato e schierato verso una direzione definita; è forse la forma compiuta dell’intero processo di sviluppo dell’album.
Non credo in ogni caso che questo sia una creazione da accostare ad una qualsiasi colonna sonora. La Deriva del Tutto è un ottimo ascolto per capire come certo sperimentalismo si muove e cerca di attingere dall’avanguardia post Eno.
Finisco con una considerazione riguardante il missaggio: avrei preferito un minor volume a vantaggio di una maggiore profondità nel panorama sonoro.

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Morgengruss – Morgengruss

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Morgengruss è il nome dietro al quale si cela il progetto solista del genovese Marco Paddeu (Demetra Sine Die e Sepvlcrvm) che per questa nuova avventura si presenta con un disco, registrato da Emiliano Cioncoloni per Taxi Driver Records, che è un viaggio meditativo e minimale all’interno di sé; l’album, dal cuore Folk Drone, ed all’interno del quale non mancheranno componenti Doom e Kosmic, sarà sorretto da abbondanti dosi di psichedelia.
Morgengruss è anche il titolo di un brano dei Popol Vuh post Hosianna Mantra (dei quali non sarà difficile trovare sentori tra questi solchi), quelli del periodo che lega il loro nome a quello del regista Werner Herzog, il brano è presente nel disco Aguirre colonna sonora del film “Aguirre, Furore di Dio”, nel quale una spedizione spagnola alla ricerca della mitica terra di Eldorado verrà sterminata anche a causa del suo (autoproclamatosi) comandante interpretato dallo straordinario Klaus Kinski, pellicola girata in Perù tra la foresta amazzonica ed alcuni affluenti del Rio delle Amazzoni e capace di emanare una forte connessione spirito/natura, connessione che anche in questo lavoro di Paddeu non verrà a mancare.

Il disco mostrerà i suoi modi già dall’iniziale e suggestiva “Father Sun”, un Folk Drone ancestrale, etereo ed ipnotico, nel quale la chitarra di Paddeu ricamerà, come in buona parte del disco, trame che pur avendo un respiro più ampio rimanderanno agli Earth come agli House of Low Culture, il brano sembrerà cullarci accompagnandoci tra le braccia del sole per poi abbandonarci in un vortice apparentemente freddo ma in realtà dal cuore caldissimo. Più scura e desolante sarà “To an Isle in the Water”, nella quale troveremo la partecipazione di Roberto Nappi Calcagno alla tromba che donerà al brano un tono morriconiano, toni che diverranno più psichedelici, ma non meno cinematici, nelle successive “River’s Call” (buonissimo lavoro alla chitarra ed ai fiati) e “Apparent Motion”, fino a giungere al culmine psichedelico di “Like Waves Under the Skin”, pezzo nel quale pare si incontrino Six Organs of Admittance e The Brian Jonestown Massacre, ma che paradossalmente suona come il brano meno riuscito del lotto.
Troveremo il meglio del disco nei due pezzi conclusivi: “Vena” ci porterà in territori Dark Jazz grazie all’ottimo lavoro di Sara Twinn al sax, mentre la chitarra di Paddeu tesserà essenziali trame di psichedelia oscura, e mentre la voce sembrerà arrivare dall’oltretomba ricordando un certo Michael Gira, non risulterà difficile sentirsi in territori lynchiani, per lo meno fino all’arrivo nel finale di un vortice dronico; nella conclusiva “Hope” troveremo due ospiti (Enrico Tauraso, diapason ed effetti, ed Emiliano Cioncoloni, pianoforte e percussioni), che si adegueranno perfettamente al suono lento e distante che Paddeu desiderava per questo lavoro, tutto suonerà infatti in modo talmente minimale e perfettamente bilanciato da renderlo il brano più rarefatto e ricco di pathos del disco, qui i Popol Vuh del periodo sopra citato saranno più che percepibili per un brano ricco di tensione onirica esaltato da voci e suoni eterei e da un breve ed intenso spoken di Paddeu.

Morgengruss è un album sospeso ma denso, terapeutico ed iconologico, che raccoglie le emozioni, le paure, le nostalgie e le speranze che ci plasmano e che facendoci toccare la notte con mano riesce ad evidenziare i suoi come i nostri spiragli di luce e colore, non sarà l’Eldorado ma questo chiaroscuro è la ricchezza che a fine ascolto (sotto lo sguardo d’aria, acqua, fuoco e terra della natura) potrà sicuramente farci sentire più fortunati e consapevoli di Aguirre e dei suoi compagni di spedizione.
Disco che difficilmente avrà la fortuna che meriterebbe e che per questo, ancor di più, consiglio agli amanti del genere di non farsi sfuggire, non sarà l’Eldorado ma è sicuramente terra che merita di essere scoperta.

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Francesco Gabbani – Eternamente Ora

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Lo ammetto: ho ascoltato in primis il cd Eternamente Ora di Francesco Gabbani con un po’ di pregiudizio in quanto prodotto uscito dal Festival di Sanremo, manifestazione a cui ammetto di non aver dato mai troppo peso. Personalmente non ho mai seguito più di tanto gli artisti che vi partecipano ma ho voluto provare ad ascoltare il giovane cantautore di Carrara spinto anche dalle polemiche susseguite alla sua sfida con Miele e al suo consecutivo ripescaggio che lo ha portato in seguito anche a trionfare nella categoria “Nuove Proposte” e ad ottenere il premio della critica “Mia Martini” e il premio “Sergio Bardotti” come miglior testo del Festival.  Tuttavia dopo aver riascoltato il disco diverse volte devo ammettere che il ragazzo ha delle qualità che speriamo possa mettere in risalto anche in futuro. Variegato negli stili, Francesco Gabbani fa uso esagerato dell’elettronica in bilico continuo fra gli anni Ottanta e la Dance anni duemila. Mi verrebbe quasi facile accostarlo ai prodotti più recenti dei New Order, ma tra il gruppo inglese e il giovane toscano ci sono ancora molte distanze da colmare. Ci sono infatti pezzi quali la title track che forse è più vicina al songwriting di Max Pezzali e dei suoi 883 e ciò non può giovare all’economia del disco. Nulla contro Pezzali, sia chiaro, ma forse sarebbe stato più logico rispettare un filo logico piuttosto che attingere da fonti differenti e cercare di personalizzare il tutto. Canzoni come “Amen” e “Software” sono certamente molto radiofoniche e conquistano facilmente il podio di migliori fra le otto presenti in scaletta scatenando un meritato ex aequo. Da segnalare una produzione pressoché perfetta ad opera di Patrizio “Pat” Simonini che mixa e masterizza il tutto al Kaneepa Studio di Milano. Lo stesso dà il suo grande supporto contribuendo anche in fase di composizione musicale su tre quarti dei brani presenti e in qualità di coautore del testo de “La Strada” insieme allo stesso Gabbani  e a Fabio Ilacqua, che invece firma e cofirma tutte le liriche tranne in “Il Vento s’Alzerà”.

Gradevoli anche l’artwork generale a cura del graphic designer Sirio Fusani e le foto di Daniele Barraco che immergono Francesco Gabbani in un contesto naturalistico. Eternamente Ora mi ha insegnato che non sempre (forse) si può fare di tutta l’erba un fascio. Intanto lo inserisco nel mio lettore cd per l’ennesima volta, cercando di cogliere anche quelle piccole sfumature che mi sono sfuggite nel precedente ascolto.

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Grandmother Safari – Grandmother Safari

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Vengono dalla Sardegna ma il loro meticciato si spinge molto più lontano. Sono i Grandmother Safari ed esordiscono con questo self titled che è un vagabondare espanso in terre così distanti tra loro che si fa il giro e ci si accorge di essere sempre stati sulla rotta giusta, nel profondo limaccioso e ancestrale delle radici e nelle rarefazioni siderali dello spirito, in un alto e un basso che si inseguono e si amano appassionatamente. Otto tracce per quasi un’ora di musica calda e accorata come lava incandescente, che non si raffredda mai tanto da solidificarsi ma rimane invece liquida, malleabile, sinuosa. Ritmi e canti africani si mischiano alla magia del piano Rhodes, a fiati torridi, a synth imprevedibili, a voci eteree e diradate, in spazi lenti e aperti che poi collassano nelle scintille di chitarre pungenti e nei rumori energici di bassi dritti, rullanti decisi, arpeggiatori incatenanti. La commistione di anime così diverse, tra ampi respiri Ambient, ciclicità Post Rock, suggestioni Jazz e lunghe e ipnotiche corse strumentali rende il lavoro avvolgente e piacevolmente lisergico, egualmente diviso tra esotismo colorato, rilassatezza da lounge e trip psichedelico d’altri tempi. Il tutto condito da una dignitosa abilità strumentale e da un impianto sonoro di tutto rispetto. Da gustare senza fretta e senza pensarci troppo.

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Marlene Kuntz – Lunga Attesa

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Tornano (finalmente!) i Marlene Kuntz con nuovo materiale inedito. Accantonata l’esperienza Pansonica e i conseguenti live,  il gruppo piemontese ha dato alle stampe Lunga Attesa, titolo che esprime a pieno i sentimenti dei fan che aspettavano tale momento da mesi. Purtroppo proprio la lunga attesa ha tradito le speranze di molti. Probabilmente anche le mie, che seguo i Marlene da tempi di Catartica e che li avrò visti live almeno trenta volte spingendomi spesso anche in altre regioni della nostra penisola. L’impressione che si ha ascoltando il cd è quella di un lavoro che potrebbe funzionare molto meglio dal vivo, in quanto siamo di fronte a una produzione fin troppo “perfetta”. E allora direte: “perché ti lamenti?”. Semplicemente perché la cosa più bella dei Marlene Kuntz sono sempre state le chitarre un po’ sporche, forse grezze nelle sonorità ma che non avevano mai (finora) mancato di emozionare. Se Lunga Attesa fosse uscito dalla mente di un partecipante a un talent show probabilmente si sarebbe potuto gridare al miracolo ma citando il titolo di uno dei pezzi qui non c’è “niente di nuovo”. O per lo meno di inascoltato in precedenza. Manca forse l’ispirazione o la volontà di proseguire un discorso che è stato iniziato ormai più di vent’anni fa con il già citato “Catartica”. Un disco un po’ “aspro” nei contenuti, sebbene molto maturo dal punto di vista delle liriche sempre  molto oniriche di Cristiano Godano che almeno da questo punto di vista ha dato il meglio di sé. Non manca qualche episodio felice anche sotto il profilo musicale (“Un Po’ di Requie” e “Fecondità” sono fra i migliori brani incisi finora dai Marlene) ma pur sempre troppo poco per uno che vede in Tesio & co. gli alfieri del Rock italiano, ormai povero nei contenuti  e nella sostanza. Peccato perché con Nella Tua Luce avevano toccato il top del top della loro carriera. Probabilmente è anche questo uno dei problemi che ha contribuito a far di Lunga Attesa un disco che, almeno per quanto mi riguarda, è lontano anni luce dalla sufficienza, ma sono pronto a rinnovare la mia fiducia al gruppo piemontese acquistando per primo (quando uscirà) il prossimo lavoro. Intanto riprendo dall’archivio Il Vile,  mi riascolto a massimo volume “Ape Regina” e “Retrattile”. Altri tempi (purtroppo!)…

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Dade City Days – VHS

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Il disco di esordio del trio bolognese tra shoegaze e ispirazioni cinematografiche.
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Massimiliano Martines – Ciclo di Lavaggio

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Leccese di nascita ma bolognese di adozione, Massimiliano Martines inizia la sua produzione nel 2009 con l’esordio Frottole. Pur affrontando strade Pop e commerciali (vedi partecipazione al programma tv Viaggio Dentro una Canzone su Rai5 o altre a trasmissioni Rai di vario genere) la sua formazione è di stampo soprattutto teatrale e questa sua predisposizione ha finito per influenzarne anche lo stile canterino ed espressivo, spesso teso allo Spoken Word e a un cantato più adatto al mondo del teatro che non alla forma canzone, fatto di vocalizzi estremi e cambi di tonalità frequenti e una timbrica a volte ai limiti della sgradevolezza. C’è dunque una quantità notevole d’input a forgiare il nuovo album di Massimiliano Martines; dovremmo aggiungere la pubblicazione di diversi libri di poesie e testi teatrali, uno dei quali con presentazione di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, ma anche la sua attività di direttore artistico e organizzatore di eventi. Insomma, il materiale sul quale lavorare per la creazione di Ciclo di Lavaggio è innumerevole e da qui, il rischio di non produrre qualcosa di compiuto ma piuttosto un calderone confusionario in cui stili e tecniche si mescolino senza una propria anima. La verità sta in mezzo e per una volta la cosa non mi dispiace troppo.

L’iniziale “Amo le Novità” introduce un Massimiliano Martines che non ti aspetti, con una voce monocorde e profonda a scivolare su ritmiche ipnotiche e musica stridente, disturbante e psichicamente violenta. Eppure non è questo il cantautore che sentiremo perché presto le cose cambieranno, trasformandosi ora in un cupo Alt Rock anni 90 (“Tutto Uguale”, “Mi Sto Preparando”) dove la voce dapprima bassa e poi più alta, recita su brani essenziali, poi in tenui Folk Pop (“Perla Nera”, “La Scatola e l’Inganno”) dalle mille perplessità, con quella voce che sembra trovarsi per caso tra le pieghe della musica, con poco stile e un suono, un timbro, un’intonazione davvero fastidiose. Prova anche a giocare con il Pop Cantautorale (“La Polvere”, “La Guerra dei Fiori Rossi”, “I Colori dell’Autunno”, “Sogni Neri”) ma l’esercizio di stile non riesce e i testi, se non banali sicuramente senza mordente, finiscono per rendere ancor meno apprezzabili i brani. Molto più interessante la title track, in cui la prima parte scivola come un Folk Rock ritmato alle spalle di una voce che pare recitare monotone litanie per poi esplodere in un potente Alternative Rock, fatto di chitarre taglienti e ritmiche rabbiose con la voce a urlare alla maniera del più nervoso Capovilla. Ed è proprio quando Massimiliano Martines prende una piega aggressiva che finisce per convincerci maggiormente, quando urla e non quando recita o sceglie il falsetto. L’impostazione della sua voce diventa più incisiva, nonostante resti piatta, e l’apparato strumentale pare legarsi più saldamente a testi e parole. Il problema è che i brani in cui questo avviene sono una minima parte; il resto, come detto, è una serie di pezzi tra Folk e Pop, certamente ben costruiti, ma banali con Martines a declamare testi che, francamente, ci saremmo aspettati molto più interessanti (salviamo “La Guerra dei Fiori Rossi”, rilettura dell’omonimo film di Zhang Yuan che narra della repressione cinese infantile) e con un’impostazione e una timbrica che sembra un micidiale e mal riuscito cocktail tra Tricarico, Alessio Bonomo e Vasco Brondi. Ciclo di Lavaggio è un’occasione persa per Massimiliano Martines, occasione di dare un senso compiuto alla sua arte, di darne un’inquadratura precisa, definirne una strada e invece, ancora una volta, resta una moltitudine di elementi mescolati in maniera confusionaria, non sempre riuscita, con l’impressione che lui stesso non abbia ancora le idee chiare su quale estetica espressiva adottare per esprimere ciò che sente.

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