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Savages – Adore Life

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Le Savages sono una band londinese, benché la cantante Jehnny Beth, pseudonimo di Camille Berthomier, sia in realtà francese, attiva ormai dal 2011. Dopo aver ottenuto discreta attenzione e successo con l’esordio, Silence Yourself del 2013, tentano di fare il grande balzo in avanti con la loro seconda fatica, Adore Life. L’intento della band è quello di prendere il Noise Rock di inizio anni 90 ed il Post Punk anni 80, shakerarli, attualizzarli al 2016 ed elaborarli in forma personale; tant’è che all’ascolto, se volessimo fare dei paragoni, le somiglianze più evidenti sono quelle con i Sonic Youth e Siuxsie & the Banshees e proprio al cantato di Siouxsie Siux si ispira la Berthomier. Proprio in questo tentativo di attualizzazione risiedono sia i (molti) pregi che i difetti del disco e dell’intera band. Parliamoci francamente: i revival non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti. Esiste una sottilissima linea che li separa dalla semplice ispirazione/ammirazione; se la si sorpassa, si rischia un vero e proprio disastro citazionistico che può piacere unicamente a qualche appassionato del genere e gettare un “buon” disco nel grande calderone del cult. Benché all’interno di Adore Life le Savages rasentino spesso questo rischio, riescono a non superare quella linea. Il loro secondo album è palesemente un buon disco, coinvolgente, energico e rivolto alla conquista di un pubblico il più ampio possibile. Ciò che c’è di più positivo è poi proprio da ricercarsi nei brani che più nettamente si liberano dallo stile retrò e riescono a suonare attuali; il primo caso è “Adore”, scelto come secondo singolo; pezzo nel quale la band decide di abbassare la velocità in favore della ricerca di un vero e proprio climax emotivo ascendente all’interno della canzone. Apprezzabile, da chi ha dimestichezza con la lingua d’Albione, anche la profondità del testo; nota di demerito invece per il video: sembra strano che per un pezzo di questo tipo non si sia riusciti a fare qualcosa di meglio. Non che sia brutto, per carità, ma sicuramente mi aspettavo di più, dato anche che non mi sembra che alla band manchino le risorse. La prestazione più riuscita è poi da ricercarsi nella traccia otto, misteriosamente non ancora scelta dalla band come singolo, “Surrender”, che più di ogni altro brano dell’album si conforma al significato della parola “canzone”. Divertente, dotata di tiro, coinvolgente ed ispirata. Tutto ciò che invece manca in “I Need Something New”, la traccia meno riuscita che rasenta il limite del fastidioso a causa della sua monotonia e ridondanza. Anche l’ultimo brano “Mechanics”, benché sia evidente che avrebbe dovuto mostrare un lato differente della band, non riesce ad emergere e, schiacciato forse anche da un minutaggio eccessivo, finisce ben presto nel dimenticatoio. Escludendo queste due note fuori registro, il disco è compattamente positivo, risulta divertente, ed ogni brano è evidentemente studiato con attenzione, in modo da risaltare la sua musicalità. Una produzione assolutamente all’altezza ed un suono impeccabile e scelto con cura fanno da contorno ad un album la cui valutazione non può che andare ampiamente sopra la sufficienza. Le Savages si apprestano ad affrontare un tour europeo di promozione dell’album che dovrebbe toccare l’Italia ad aprile. Per loro il 2016 dovrebbe essere l’anno della consacrazione.

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We Are Waves – Promixes

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Provano a mostrare l’altra faccia della luna, i torinesi; tentano di palesare il proprio alter ego e tirano fuori un Ep che vuole evidenziare l’aspetto sintetico ed elettronico della loro miscela di Wave e Post Punk che ci ha entusiasmato in passato tanto da farci gridare al miracolo per aver scovato finalmente una band italiana valida, capace di rileggere il passato in maniera attuale e convincente e pronta per sfondare il muro dell’anonimato. Promixes è l’altra faccia del loro secondo album Promises, quello che più dell’esordio è stato capace di elevare i We Are Waves sugli altri. La copertina stessa non è altro che il negativo di quella che rappresentava l’album precedente, il titolo, una storpiatura che si lega al termine remix e i brani non sono altro che riletture del passato o meglio un diverso modo di esporre i propri brani giacché le tracce non sono semplicemente dei remix ma piuttosto le versioni risuonate di quei brani così come gli stessi We Are Waves le hanno portate in giro per l’Italia, nelle performance in formazione ridotta, con set electro composto di voce/chitarra basso ed elettronica/synth/drum machine. Spariscono, dunque, le influenze più evidenti nel sound We Are Waves ma ne compaiono di nuove, dai Depeche Mode a Trentemoller, da Gas a Plastikman, da The Faint ai New Order, passando per un’attitudine Pop, questa sempre presente, che richiama alla mente un certo Morrisey e non solo per la cover di “How Soon Is Now?” che chiude l’Ep stesso. Tuttavia, nonostante Promixes sia presentato come una necessità espressiva per la band, non resta molto ad ascolto concluso se non l’impressione che questo sia piuttosto un regalo buono per i più affezionati e non certo un nuovo biglietto da visita. I brani già noti perdono completamente quel fascino e quelle sonorità che ci avevano fatto innamorare senza acquistare davvero nuova linfa vitale, anzi, andandosi a ficcare in vicolo cieco di banalità Synth Pop che francamente avremmo volentieri preferito evitare. I We Are Waves sono una grande band, continuo a ripeterlo, in studio e live soprattutto. Ascoltate Promises, l’album uscito a maggio del 2015, e vi renderete conto da soli di trovarvi davanti a qualcuno che di strada ne farà tantissima. Se invece non avete mai sentito quel disco, non lasciatevi trarre in inganno da questo Promixes, i We Are Waves sono molto di più.

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Nadj – Ep

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Dopo diversi lavori alle spalle, tra cui l’ottimo Lp del 2007 e il comunque interessante L’Oeuvre au Noir del 2012, torna la francofona Nadj con un Ep che prova a rispolverare lo spirito di un tempo senza troppa convinzione, a dirla tutta. Con una vita fatta di musica che ormai supera i due decenni, il suo stile è sempre stato contraddistinto da una notevole astrattezza e da una continua ricerca di indipendenza sonora che l’hanno portata a scegliere sempre la strada dell’autoproduzione, pur, in questo caso, con la collaborazione di artisti membri del ben noto Il Teatro degli Orrori e la presenza non invadente della piccola ALMeidA, creatura della stessa Nadj del resto. Tutte le premesse lasciano supporre un lavoro stimolante, decisamente fuori dagli schemi e con notevoli spunti d’interesse eppure l’ascolto lascerà ben più d’un sapore amaro in bocca. Le quattro tracce fanno una fatica pazzesca ad amalgamarsi tra loro, creano un sound confuso, in cui elementi Blues e Grunge si mescolano al più classico Alternative Rock anni 90 ma senza mai scorrere in maniera fluida e gradevole ma piuttosto arrancando mal supportati dalla voce monotona e quasi cacofonica di Nadj e del suo francese fuori luogo. Sembra aprirsi in un demoniaco Avant Folk l’Ep quando partono le prime note di “Le Ciel de Nuit” ma il brano non prende mai consistenza, risolvendosi nella più completa banalità sonora. Non fa meglio la successiva “Le Fièvre” che dovrebbe garantire una certa potenza senza riuscirci mentre saliamo leggermente di livello con “Le Lion” che tuttavia resta di una insipidezza e d’una prevedibilità imbarazzante. Assolutamente senza senso l’ultima traccia, “Toutes les Fountaines”, buona solo a complicarci la comprensione d’un Ep che faccio davvero fatica a giustificare.

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Sadist – Hyaena

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Non c’è bisogno di presentare i Sadist, loro sono un pezzo di storia della musica estrema italiana. Proprio la band di Trevor e soci è quella che con molta probabilità ha, in Italia, più discepoli di tutti se confrontati attualmente agli altri pilastri connazionali. I Sadist nel bene o nel male ad ogni loro uscita sono sempre riusciti a sbalordire, nel senso che ogni loro nuovo disco aveva qualche particolare che si faceva notare. Adesso, con Hyaena, disco che esce a distanza di cinque anni dall ottimo Season in Silence, si vanno a toccare sonorità tribali che chiaramente riconducono ad etnie africane. Interessante il passaggio fatto dal disco precedente a questo protagonista della nostra recensione: Season in Silence era un disco freddo che lasciava intenderlo da tutto e per tutto, dalla copertina al sound; Hyaena invece è trasportato da un sound con diverse sfumature, che sono particolari sottigliezze che si rifanno ai popoli Africani. Senza troppo distoglierci su vaneggianti particolari, la base rimane chiaramente quel Progressive Death Metal made in Sadist: la voce di Trevor è inconfondibile come gli stessi possenti giri di chitarra di Mr. Talamanca. Questo nuovo disco è stato registrato presso gli studi della Nadir, ed anche il lavoro svolto per quest’altra fase è più che soddisfacente. Tracce da citare sono l’opener, intitolata “The Lonely Mountain”, un discreto biglietto da visita che mette insieme un po tutte le caratteristiche del disco. Un’ altra traccia da menzionare obbligatoriamente è “Bouki” che vanta un ottimo gioco delle tastiere, il fiore all’ occhiello della canzone. Passiamo alla successiva “The Devil Riding the Evil Steed”, che vanta, come la precedente, un ottimo uso delle tastiere ma anche un cambio di tonalità di Trevor che rende la canzone sinistra, insieme al cantato di un probabile “indigeno”. “Gadawan Kura” è la canzone molto più “morbida” del disco, dai riff melodici e dal suono più mieloso rispetto alle altre; si tratta di una traccia strumentale della durata di poco più tre minuti, insomma una piacevole pausa del platter. Si riparte con “Eternal Enemies”, una canzone che alterna momenti forti con altri più deboli; in questo caso il momento forte è il Death Metal del gruppo e la parte debole le sottili strumentazioni africane. Hyaena è un album in puro stile Sadist, dunque ha un marchio di fabbrica che fa comunque la differenza. Un’altra buona prova per Trevor e soci.

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Tortoise – The Catastrophist

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E così dopo sette anni, pubblicando un lavoro che ha radici più lontane di quanto si possa pensare, ritornano i Tortoise. Correva infatti l’anno 2010 quando Chicago, la città dei nostri, commissionò al gruppo la realizzazione di una suite che rispecchiasse l’identità Jazz del luogo; furono così composti cinque temi (una suite in cinque movimenti) su ognuno dei quali lavorò un diverso ospite dell’ambito jazzistico del posto. Quei cinque temi, che erano poco più che bozze a cui aggiungere improvvisazioni, si sono col tempo trasformati ed evoluti (il tutto rivisto in chiave, e quindi complessità, Tortoise) in buona parte dei brani che compongono The Catastrophist. Si tratta di un lavoro che per certi versi potrebbe arrivare da ancora più lontano; il disco, infatti, seppur con qualche novità anche totalmente inattesa, sembra uscire dal periodo che trascorse tra TNT (1998) e Standards (2001) e, per quanto risulti leggermente inferiore al primo, suona nettamente meglio del secondo. Le novità inattese sono due brani cantati, anche se in realtà il canto dalle parti dei Tortoise era già passato con due dischi (The Brave and the Bold con Bonnie ‘Prince’ Billy, ed In the Fishtank 5 con The Ex, entrambi registrati in tre giorni), ma è la prima volta che lo troviamo in un lavoro firmato esclusivamente a loro nome, e soprattutto è la prima volta che funziona, sarà che per la precisione certosina dei nostri registrare in qualche anno anziché in qualche giorno fa una certa differenza. Il primo dei due brani in questione è la cover di “Rock On” di David Essex, brano del 1973, un Dub Rock piuttosto minimale e particolare vista l’assenza della chitarra, che in mano ai ragazzi di Chicago, seppur rimanendo molto fedele all’originale, diviene ancor più ipnotico grazie ad una godibilissima sezione ritmica; a dare voce al pezzo troviamo Todd Rittmann degli U.S. Maple. L’altro cantato presente è invece un brano originale, “Yonder Blue”, nel quale alla voce troviamo Georgia Hubley degli Yo La Tengo, e qui i Tortoise ci spiazzano ancor di più perchè questo brano è addirittura una ballad, una crepuscolare ballad Lo Fi, al forte profumo di Pop datato, il cui ascolto ideale si avrebbe in un fumoso bistrot parigino. La prestazione del combo è più che soddisfacente anche in “Shake Hands with Danger” dove sembra si incontrino un’orchestra gamelan ed un gruppo Fusion, l’arrangiamento è come sempre perfetto, la classica tensione Tortoise, che spesso risulta essere troppo statica e di maniera qui riesce a trovare una buona visceralità. Altri brani ben riusciti sono “Gesceap”, primo singolo estratto, ascoltabile da un paio di mesi abbondanti, brano narcotico, quasi dissonante, minimale, nel quale vediamo la musica d’avanguardia abbracciare le armonie degli Stereolab e dei Broadcast (presenze percepibili anche in altri brani), “The Clearing Fills”, un’ipnotica sospensione Ambient Jazz con finale dronico, “Hot Coffee”, un Funk rallentato e sintetico, dove oltre ad un’ottima linea di basso si trovano godibili graffi chitarristici, e la conclusiva “At Odds with Logic”, desertica e cinematografica. Come sempre, escludendo i primi due meravigliosi lavori della band, non mancano brani che soffrono troppo di manierismo, di immobilità, brani nei quali la tensione creata riesca a liberarsi portandoci la scossa, il graffio, la visione. In ogni caso, dopo i primi due lavori non proprio eccelsi degli anni zero, i Tortoise confermano i progressi che già sul precedente Beacons of Ancestorship si erano fatti sentire, probabilmente migliorandoli ancora, con un disco che ha sicuramente bisogno di più ascolti e come sempre, trascendendo i generi, si sottrae a facili catalogazioni.

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Morning tea – No Poetry in It

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Avevamo lasciato Morning Tea, moniker sotto il quale si cela Mattia Frenna, due anni fa con Nobody Gets a Reprieve (Sherpa Records), suo promettente e brillante disco d’esordio. Da allora un denso tour italiano e la presenza al Birmingham Popfest uniti ad un ottimo riscontro di critica hanno alimentato il fuoco creativo del folksinger milanese. Uscirà a febbraio, ancora una volta per Sherpa Records, No Poetry in It, giusto e naturale prosieguo del primo lavoro in studio. Il titolo dell’album, tanto evocativo quanto esplicito, ci parla di squarci di vita vissuta, istantanee di storie personali raccontate in modo diretto e asciutto. Non c’è nessuna magniloquenza nelle parole di Frenna, quanto piuttosto la ricerca di un ermetismo sia melodico sia testuale. “Florence” ne è una dimostrazione lampante: divisa tra il piano ed esplosioni Noise Elettro sintetizza il testo in uno statement glaciale: “I miss something/I miss something/I miss something/I miss something/I just don’t know what the fuck it is”. C’è tanto ricordo e qualche elemento di nostalgia nelle parole di Morning Tea e quelle corde appena pizzicate, il lieve tocco sui tasti del piano in “Letter to a Friend” e “Sad song” o, ancora più esplicitamente, nella stessa “No Poetry in It” arrivano a toccare il cuore di chi ascolta, riuscendo ad entrare nel suo complesso mondo interiore. A metà tra ricordo, perdita e un pizzico di speranza Morning Tea si confida come ad un vecchio amico, senza troppi giri di parole. No Poetry in It è un disco in antitesi col suo stesso titolo in cui la poesia è il racconto stesso della vita nel suo incedere, raccontata in maniera diretta. Una scelta vincente.

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Hinds – Leave me Alone

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Le Hinds sono quattro ragazze spagnole, madrilene per l’esattezza, delle quali, nell’ultimo anno, si è già parlato moltissimo nonostante la giovane età (si va dai diciannove ai ventiquattro anni). Inizialmente erano un duo, composto dalle voci e dalle chitarre di Carlotta Cosials e Ana Perrote, ed il loro nome era Deers, cervi al maschile, animali ai quali tramite un’operazione indolore, affrontata col sorriso sulle labbra, si è dovuto far cambiare sesso a causa della minaccia di causa legale da parte di una band dal nome simile; dall’inizio dello scorso anno alle due si sono aggiunte Ade Martin al basso ed Amber Grimbergen alla batteria. Le ragazze, seppur al loro primo full length, avevano già avuto molto successo con un paio di singoli, su tutti “Bamboo”, e con l’EP Very Best of Hinds so Far dello scorso anno (prima pubblicazione di un certo peso a nome Hinds), grazie al quale le quattro spagnole hanno avuto modo di suonare praticamente ovunque, di aprire per gruppi dal calibro degli Strokes, e di partecipare a grandi festival come quello di Glastonbury. Ma passiamo al disco, che, oltre a parlare di leggerezze varie, è sostanzialmente un bignamino riguardante l’amore e le sue varie sfaccettature scritto da quattro ragazzine riottose, o presunte tali, del secondo decennio del ventunesimo secolo, ben calate nell’epoca in cui vivono, che di restare sole non sembrano proprio volerne sapere per quanto finiscano per correrne il rischio. L’amore e la sua mancanza sono cantati e suonati nel modo sguaiato e sbilenco cui le Hinds ci avevano già abituato e preparato con le precedenti pubblicazioni (solo leggermente più pulito) che qui ritroviamo in buona parte, cosicché questo disco risulta nuovo solo per ventisette dei suoi trentotto minuti di durata. Durante i brani che lo compongono le voci di Carlotta ed Ana, una più melodica, l’altra più grezza, si inseguono, si superano, capita sembrino trovarsi in disaccordo, dare significati diversi alle stesse parole, salvo poi avvicinarsi e stringersi in un abbraccio, talvolta disturbanti eppur piacevoli, capaci di poter farci ricordare Kim Deal (i pianeti Pixies e Breeders sono comunque ancora lontani per le nostre giovani), ma ancor più spesso due sedicenni ubriache al parco in una calda e soleggiata domenica pomeriggio. Musicalmente il disco non ha molto da dire, i pezzi suonano tutti piuttosto similmente, il sound è per lo più un Garage Rock con frequenti strizzate d’occhio al Pop, soprattutto in buonissima parte dei brani fin qui inediti che, escludendo la buona “San Diego”, vanno un po’ a velare l’immagine esuberante delle quattro, il che non è da considerarsi un male a prescindere. Tra i loro riferimenti possiamo trovare Raincoats e Morlocks, così come i Pastels o i B-52’s saccheggiati delle loro tastiere elettroniche, e come sempre chi più ne ha più ne metta; comunque, nel loro specifico caso, a farla da padrona sono quasi sempre le chitarre di Ana e Carlotta, suonate in modo amatoriale o poco più, basso e batteria risultano essere solo lo scheletro al quale appoggiarsi. Si tratta dunque di pezzi facili, fatti per essere imparati a memoria dopo un paio di ascolti, con testi freschi, giovani, talvolta dolcemente stupidi, comunque sempre con quella goccia di emotività ben presente, anche nei brani più espliciti, più vicini all’immagine che le madrilene hanno fin qui dato di loro. I brani menzionabili che troveremo saranno il Garage Pop del nuovo singolo “Garden”, posto in apertura, “Fat Calmed Kiddos” che, se ce ne fosse bisogno, ci fa capire che il titolo del disco è da leggere con la dovuta ironia: “I needed a risk ’cause I needed to try/And I needed a breath ’cause you were out tonight” fino al coretto finale Please don’t leave me eseguito a modo loro, arriveranno poi “Castigadas en el Granero”,“Chili Town” e “Bamboo”, brani che comunque già conoscevamo, per scivolare verso la conclusione del disco e trovare “And I Will Send Your Flowers Back” col suo andamento triste e sbronzo (la soleggiata domenica si è ormai fatta scura e, scolando le ultime gocce dell’ennesima bottiglia, le nostre rientrano a casa, cantando e camminando maldestramente tra strade deserte illuminate dalle poche luci funzionanti e da un’eloquente mezza luna). Le Hinds confezionano il disco che avevano in mente e che il loro pubblico le chiedeva, ripulendolo giusto un po’, in modo da poter conquistare ulteriori ascoltatori, confermandosi così ben aderenti ai loro giorni, né più né meno. Non si tratta certamente di un lavoro da buttar via, il disco ha dei passaggi piacevoli, e si sente che è suonato da quattro ragazze che sono amiche anche fuori dai palchi e dagli studi di registrazione, in modo altrettanto certo non si può parlare di un gran lavoro; indubbio è che l’attesa per questo esordio lungo, seppur circoscritta al circuito indie, sia stata gonfiata parecchio rispetto a quanto ha da offrire.

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La Belle Epoque – Il Mare di Dirac

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Disco d’esordio per il quartetto bergamasco, registrato in presa diretta “come una volta”, in un’unica, grande sala di ripresa: Il Mare di Dirac si copre così di una patina retrò e una sensazione di coolness indefinibile ma gustosa. Questa sensazione fresca aleggia su molti dettagli di questo disco breve, compatto, focalizzato: otto brani di un Rock non eccessivamente originale ma dipinto con accuratezza, dalla sezione ritmica che spinge sempre avanti alle distorsioni taglienti il giusto, passando attraverso accortezze melodiche raffinate, sia nelle linee vocali che negli inserti di piano o di chitarra. Bastano pochi ascolti e i brani si piantano nel cervello con facilità, sempre in bilico tra l’estremo del “pestone” anni 90 (“Icaro” ha un inizio che richiama “Tell Me Marie” degli One Dimensional Man) e la raffinatezza Pop degli arrangiamenti e della composizione (la title track, sinuosa e ammiccante). La voce di Luca Boschiroli completa il quadro col suo timbro basso, caldo: perpetuamente effettata, ha una personalità d’altri tempi, e le liriche, che vivono di scarti e ellissi, d’indeterminatezza e approssimazione, ne guadagnano, diventando un flusso sonoro che riempie lo spazio e il tempo in modo semplice ma puntuale, dalle pause oculate, senza strafare, in un andamento vago e ipnotico. La Belle Epoque riesce a ritagliarsi un suo spazio grazie alla precisione del lavoro, all’eleganza del sound, alla misura con cui gestisce gli elementi che compongono i brani. Quando non vi andrà di cercare l’originalità a tutti i costi, quando avrete voglia, semplicemente, di ascoltare dell’ottimo Rock alternativo e un po’ nostalgico, diretto e suadente insieme, Il Mare di Dirac sarà il disco che vorrete avere nelle orecchie: non vi deluderà.

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Marnero – La Malora

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È tempo di conclusioni di inizio anno. È tempo di cominciare l’anno con un finale che lasci il segno. È tempo di chiudere un cerchio cominciato circa sei anni fa. Sto parlando de La Trilogia del Fallimento, concept sulla lunga distanza ideato dai Marnero e sviluppato in tre capitoli, di cui La Malora rappresenta l’epilogo. Come ogni bel libro che si rispetti, “Porti” è per il disco la degna prefazione, catartica, con il violoncello di Matteo Bennici ad addolcire solo parzialmente lo sfogo vomitato dalle parole di J.D. Raudo. Sono “Labirinti” e “L’Ubriaco” ad immergerci pienamente nelle atmosfere Hardcore tipiche dei Marnero, aggiungendo un personalissimo tocco Sludge. In mezzo a tutta questa rabbia abbiamo momenti di stacco, piccoli lampi di luce come la splendida “Il Baro”, sorretta da una chitarra soave e legata da una membrana invisibile a “Il Bambino”, l’episodio più introspettivo dell’album. Altre istantanee indelebili de La Malora sono senz’altro il violino di Nicola Manzan (alias Bologna Violenta) ne “Il Testimone” e la tromba di Paride Piccinini nella lapidaria “L’Altro Lato”. La band bolognese ci ha donato un lavoro dalle mille facce: veemenza, passione, riflessione. Eppure ci troveremo stranamente a nostro agio all’ascolto, cullati da note d’odio. E il naufragar sarà dolce in questo mare…di sangue.

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Le Chiavi del Faro – Dentro

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Arrivano da Gubbio i tre Le Chiavi del Faro, che con il nuovo full length Dentro cambiano leggermente rotta rispetto al precedente La Furia degli Elementi. Le coordinate base sono le stesse: una carica strumentale notevole, una libertà compositiva invidiabile, che poco si piega a certezze aprioristiche ma, al contrario, volteggia tra storture e sfuriate, tra stacchi sorprendenti e riprese secche, crude, taglienti, tra stilettate di derivazione Funk, riff acidi di chitarra, aperture melodiche e sconvolgimenti ritmici. Di diverso c’è la coesione che stavolta si intuisce tra un brano e l’altro: Dentro è più focalizzato e convinto, meno sbavato, con un’intenzione più chiara e diretta, che di certo migliora la fruibilità dell’intero disco e che rende più convincenti e solidi anche i singoli brani. Si perde qualcosa, magari, in “magma”, in follia e diversità, ma si guadagna in compattezza e, comunque, il prodotto finale rimane caleidoscopico quanto serve per avere una sua personalità (vedi il piacevole diversivo di “Plastiche, l’Inventario”, o i saliscendi de “La Cura dei Cori”, per esempio). Non mi riesco invece ancora a convincere rispetto alla voce e ai testi. Il cantato è migliorato, pur con qualche scivolone qua e là, ma l’immaginario è abbastanza neutro e per la maggior parte i testi paiono senza un vero gusto, con poca inventiva. È anche vero che siamo nel campo del Rock e sento già alzarsi il coro dei “chissenefrega”. Rimane il fatto che si poteva avere un boost di senso che qui manca. Le Chiavi del Faro si conferma comunque un ensemble interessante e dal gusto piacevolmente libero, che sa anche farsi carico di questa libertà e portarla fino in fondo, questa volta con un controllo più saldo e una piacevole coerenza. Manca ancora qualcosa, ma Dentro è già un salto evolutivo importante.

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Nero – Lust Souls

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Nero è il colore giusto. Perfetto per lo sporco suono New Wave che produce, con tanto di chitarre insistenti e una voce cupa, sensuale e viscida come la pelle di un serpente. Il suo disco d’esordio Lust Soul è il perfetto connubio tra vintage e modernità. Nero di certo non è un novellino, ma annovera un passato con band del calibro dei The Detonators e The Doggs (per altro recensiti dal sottoscritto qui su Rockambula qualche anno fa). Il suo background è dunque fissato su solide basi di sporco Rock’N’Roll, tra Black Sabbath e Stooges per intenderci. Indubbiamente in questo lavoro solita la sua rotta vira verso sonorità più lente e scure, più ossessive e più schizofreniche. Come la stupenda “I’m The Sin”, un vortice di passione dentro la frenesia dei Joy Division senza perdere il senno, grazie a una melodia trascinante. Il suono dietro è perfetto, curato in ogni minimo dettaglio: rullante che martella il nostro cervello, basso cadenzato e ben definito che scombussola il nostro bacino. “In my Town” è un piccolo capolavoro minimal, quello che sarebbero i Depeche Mode senza una mega produzione e senza dimenticare le tenebre di Ozzy e dei suoi Black Sabbath. Guardando ad una città più grande, scappa anche la vicinanza alla New York decadente di Lou Reed. La canzone è un viaggio psichedelico in una grotta completamente buia, umida senza via d’uscita, ma con la consapevolezza che nessuno ci farà del male. Sicurezza che viene meno nella terrificante “Bleeding”, ritmica quasi Doom immersa in chitarre ululanti e un piano che compare ogni tanto come uno spaventoso fantasma. I ritmi si innalzano in “Over my Dead Body”, riff Punk venuto dallo spazio, basso incalzante e synth svarionanti dominano l’atmosfera e ci introducono in un crescendo interminabile. Come se Marc Bolan e i suoi T-Rex incontrassero in studio i Daft Punk. Nero riesce con grande naturalezza a mischiare sensazioni, suoni, spazi e periodi storici. Il tutto grazie ad un’improbabile macchina del tempo, scassata, ma terribilmente efficace. “Old Demons” è superba, sembra uscita in due minuti di prove e ha l’efficacia di essere vera e nostra. Ci togliere dal tunnel buio per portarci a braccetto negli inferi, dove rimaniamo bloccati fino a “Spirit”. Battiamo il cranio contro un muro rovente. Si questa elettronica è calda, è vera come un Les Paul collegato al suo Marshall JCM 800. Nero poi ci saluta con le schitarrate distese di “Tomorrow Never Comes”, riporta tutto alla semplicità, ad un triste epilogo, a un dolore viscerale. “Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice”, scriveva Dostoevskij.

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L’Introverso – Una Primavera

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Il panorama Alternative milanese mi sembra sempre tendenzialmente legato a una tradizione compositiva che rende omaggio un po’ troppo agli zietti Afterhours. Il lavoro de L’Introverso, invece, prodotto da Davide Autelitano dei Ministri, se ne discosta particolarmente, collocandosi più in uno scenario Indie-Pop, più Pop che Indie.
Una Primavera si apre con il bell’arpeggio di “Tutto il Tempo”, che subito tradisce una certa attenzione al testo letterario, sensazione confermata nella successiva “Manie di Grandezza”. La formazione orchestra in maniera molto dettagliata e curata, ma forse ben poco personale: l’impressione è di stare ascoltando un Pop scanzonato alla Velvet, con sopra dei testi alla Mambassa (magari!). I temi sono quelli cari a tutto un certo Indie nostrano: precariato (economico, sociale, affettivo, individuale) e amore come barlume fugace ed effimero di salvezza e rifugio. “Il Rifugio”, “Stomaco” e “Uguali” sviscerano queste tematiche dimostrando che la lezione di Ministri, Zen Circus e Management del Dolore Post-Operatorio è stata imparata alla grande, almeno per ciò che riguarda la stesura delle liriche.
E va bene, stiamo parlando comunque di band che hanno saputo emergere e affermarsi con prepotenza, forti delle proprie competenze e bravure, ma io mi aspetto sempre qualcosa di nuovo, anche una piccolissima personalizzazione di un prodotto diverso. Altrimenti non ne vedo il senso.
Pregevole è la frase Mi invecchia di due anni/E mi rende un immaturo presente nel brano “Prima o Poi”, così come mi piace particolarmente l’uso del riff di chitarra in “Solo Questa Notte”, più un ritornello che una mera linea orizzontale.”Ti Odierai” e “Mi Rialzo”, nel bilancio del disco, sono brani che passano praticamente inascoltati, a parte qualche drizzar d’orecchie nel ritornello e niente di più. Diversa è la questione “Estranea”, forse il brano più bello di tutto il disco: una freschezza alla “Bianca” degli Afterhours, di cui ricorda giusto il mood e poco di più con le sue melodie ariose alla Tiromancino. E il disco chiude davvero in bellezza con la title-track, “Una Primavera”, ben elaborato sotto ogni punto di vista, finalmente caratterizzato da uno slancio vero e personale, forse l’unico di tutto il disco.
E così mi ritrovo a pensare di nuovo, dopo non so più quanti anni in Rockambula, che forse alle volte bisognerebbe sacrificare qualche brano e concedersi il privilegio di fare un bell’EP piuttosto che un brutto disco.

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