Nero è il colore giusto. Perfetto per lo sporco suono New Wave che produce, con tanto di chitarre insistenti e una voce cupa, sensuale e viscida come la pelle di un serpente. Il suo disco d’esordio Lust Soul è il perfetto connubio tra vintage e modernità. Nero di certo non è un novellino, ma annovera un passato con band del calibro dei The Detonators e The Doggs (per altro recensiti dal sottoscritto qui su Rockambula qualche anno fa). Il suo background è dunque fissato su solide basi di sporco Rock’N’Roll, tra Black Sabbath e Stooges per intenderci. Indubbiamente in questo lavoro solita la sua rotta vira verso sonorità più lente e scure, più ossessive e più schizofreniche. Come la stupenda “I’m The Sin”, un vortice di passione dentro la frenesia dei Joy Division senza perdere il senno, grazie a una melodia trascinante. Il suono dietro è perfetto, curato in ogni minimo dettaglio: rullante che martella il nostro cervello, basso cadenzato e ben definito che scombussola il nostro bacino. “In my Town” è un piccolo capolavoro minimal, quello che sarebbero i Depeche Mode senza una mega produzione e senza dimenticare le tenebre di Ozzy e dei suoi Black Sabbath. Guardando ad una città più grande, scappa anche la vicinanza alla New York decadente di Lou Reed. La canzone è un viaggio psichedelico in una grotta completamente buia, umida senza via d’uscita, ma con la consapevolezza che nessuno ci farà del male. Sicurezza che viene meno nella terrificante “Bleeding”, ritmica quasi Doom immersa in chitarre ululanti e un piano che compare ogni tanto come uno spaventoso fantasma. I ritmi si innalzano in “Over my Dead Body”, riff Punk venuto dallo spazio, basso incalzante e synth svarionanti dominano l’atmosfera e ci introducono in un crescendo interminabile. Come se Marc Bolan e i suoi T-Rex incontrassero in studio i Daft Punk. Nero riesce con grande naturalezza a mischiare sensazioni, suoni, spazi e periodi storici. Il tutto grazie ad un’improbabile macchina del tempo, scassata, ma terribilmente efficace. “Old Demons” è superba, sembra uscita in due minuti di prove e ha l’efficacia di essere vera e nostra. Ci togliere dal tunnel buio per portarci a braccetto negli inferi, dove rimaniamo bloccati fino a “Spirit”. Battiamo il cranio contro un muro rovente. Si questa elettronica è calda, è vera come un Les Paul collegato al suo Marshall JCM 800. Nero poi ci saluta con le schitarrate distese di “Tomorrow Never Comes”, riporta tutto alla semplicità, ad un triste epilogo, a un dolore viscerale. “Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice”, scriveva Dostoevskij.
Recensioni
L’Introverso – Una Primavera
Il panorama Alternative milanese mi sembra sempre tendenzialmente legato a una tradizione compositiva che rende omaggio un po’ troppo agli zietti Afterhours. Il lavoro de L’Introverso, invece, prodotto da Davide Autelitano dei Ministri, se ne discosta particolarmente, collocandosi più in uno scenario Indie-Pop, più Pop che Indie.
Una Primavera si apre con il bell’arpeggio di “Tutto il Tempo”, che subito tradisce una certa attenzione al testo letterario, sensazione confermata nella successiva “Manie di Grandezza”. La formazione orchestra in maniera molto dettagliata e curata, ma forse ben poco personale: l’impressione è di stare ascoltando un Pop scanzonato alla Velvet, con sopra dei testi alla Mambassa (magari!). I temi sono quelli cari a tutto un certo Indie nostrano: precariato (economico, sociale, affettivo, individuale) e amore come barlume fugace ed effimero di salvezza e rifugio. “Il Rifugio”, “Stomaco” e “Uguali” sviscerano queste tematiche dimostrando che la lezione di Ministri, Zen Circus e Management del Dolore Post-Operatorio è stata imparata alla grande, almeno per ciò che riguarda la stesura delle liriche.
E va bene, stiamo parlando comunque di band che hanno saputo emergere e affermarsi con prepotenza, forti delle proprie competenze e bravure, ma io mi aspetto sempre qualcosa di nuovo, anche una piccolissima personalizzazione di un prodotto diverso. Altrimenti non ne vedo il senso.
Pregevole è la frase Mi invecchia di due anni/E mi rende un immaturo presente nel brano “Prima o Poi”, così come mi piace particolarmente l’uso del riff di chitarra in “Solo Questa Notte”, più un ritornello che una mera linea orizzontale.”Ti Odierai” e “Mi Rialzo”, nel bilancio del disco, sono brani che passano praticamente inascoltati, a parte qualche drizzar d’orecchie nel ritornello e niente di più. Diversa è la questione “Estranea”, forse il brano più bello di tutto il disco: una freschezza alla “Bianca” degli Afterhours, di cui ricorda giusto il mood e poco di più con le sue melodie ariose alla Tiromancino. E il disco chiude davvero in bellezza con la title-track, “Una Primavera”, ben elaborato sotto ogni punto di vista, finalmente caratterizzato da uno slancio vero e personale, forse l’unico di tutto il disco.
E così mi ritrovo a pensare di nuovo, dopo non so più quanti anni in Rockambula, che forse alle volte bisognerebbe sacrificare qualche brano e concedersi il privilegio di fare un bell’EP piuttosto che un brutto disco.
The Winstons – The Winstons
I The Winstons sono un trio formato da Enro Winstons (tastiere, fiati, voce), Rob Winstons (basso, chitarra, voce) e Linnon Winstons (batteria, tastiera, voce). Trattasi di un rockettaro, ma pur sempre amorevole, papà e dei suoi pargoletti? O forse di 3 giovani capelloni scapestrati conosciutisi in un college, magari a sud-est di Londra, che scoprendo di portare lo stesso cognome e strimpellare 3 diversi strumenti decidono di metter su un gruppo per far baldoria insieme? No, niente di tutto questo, almeno in parte, perché dietro ai nomi sopra citati si celano le figure di 3 rappresentanti di razza della musica italiana degli ultimi anni: Enrico Gabrielli (Enro), Roberto Dell’Era (Bob) e Lino Gitto (Linnon), vero però è che soprattutto a sud-est di Londra il trio tende lo sguardo, alla Canterbury dell’indimenticabile decennio 65-75, e trattandosi dunque di Progressive era pressappoco impossibile che ad occuparsi di loro non fosse che la AMS Records, casa discografica molto attenta al presente come al passato di questo genere musicale. Il disco si apre con “Nicotine Freak”, brano scelto anche come singolo ad anticipare l’uscita dell’album, scelta più che condivisibile poiché si tratta di uno dei pezzi migliori del lotto ed è capace di rendere da subito chiare le intenzioni del trio. La voce, seppur meno emozionale, richiama a Robert Wyatt, il lavoro sulle armonizzazioni vocali è più che buono e musicalmente “Nicotine” suona come un Progressive che col passar del tempo diviene sempre sempre più freak. Si prosegue con brani che pur conservando sempre una matrice Progressive e Psichedelica si muovono in diversi territori, passando da brani più jazzati (“Diprodton”, che porta in realtà un titolo giapponese) a caldi saliscendi Pop (“Play With the Rebels” e “She’s My Face”) senza lasciarsi sfuggire neanche atmosfere più cosmiche (“…On a Dark Cloud”) o colorazioni in parte più scure e robuste (“Dancing in the Park With a Gun”). I 3 Winstons si muovono piuttosto agevolmente tra tutti questi territori ed il disco scorre via piacevolmente, ma senza picchi in grado di regalare quelle vibrazioni, quelle sensazioni, capaci di rendere grande un album o comunque una canzone, e purtroppo nel trittico finale (trittico per chi li ascolterà su CD, MC o in streaming, poiché nella versione in vinile “Number Number”, altra canzone che in realtà porta un titolo giapponese, e che probabilmente risulta essere la migliore delle 3, non sarà presente) il trio mi sembra soffrire un po’ di manierismo, non la migliore delle sofferenze per chi propone questo tipo di sound. Ai nostri, qua e là supportati anche dall’immancabile Xabier Iriondo e dalla tromba di Roberto D’Azzan, va il merito di ricordare molti ma di essere uguali solo a sé stessi, durante l’ascolto oltre al già citato Robert Wyatt, non sarà difficile trovare influenze dei Gong come dei Beatles, di Kevin Ayers come dei primissimi Pink Floyd e molto altro ancora risalente al già citato decennio dal quale gli Winstons sembrano provenire e non solo amare e celebrare, o prendere a pretesto per sfornare un disco. Il trio suonerà live in lungo e in largo per l’Italia per tutto il mese di Gennaio (e non è da escludere vengano annunciate nuove date in seguito), consiglio agli amanti del genere di selezionare la data più vicina a casa propria e non mancare all’appuntamento, credo che dal vivo gli Winstons possano regalarci belle sorprese essendo ancor più liberi di poter suonare free.
Ed Tullett – Fiancé (Disco del Mese)
Nome non nuovissimo per gli appassionati di musica cantautorale avendo collaborato con Local Natives, Ajimal e remixato “Hinnom, TX” di Bon Iver, il ventiduenne britannico tira fuori un album di debutto che, sono pronto a scommetterci, rimarrà tra le cose più interessanti del nuovo anno appena iniziato. La vicinanza stilistica proprio con Bon Iver è evidente, soprattutto nei passaggi più inclini al Folk Songwriting (“Posturer”) ma Ed Tullett si addentra ben oltre, miscelando con più risolutezza quelle atmosfere richiamate dall’artista di Eau Claire all’Elettronica, non intesa come elemento principale dell’opera ma piuttosto come un sostegno, uno scheletro funzionale e di grande impatto estetico come fosse l’armatura di un ipotetico Beauborg sonoro. Lo stile canoro dell’artista di Oxford teso all’acutezza potrà non suonare troppo originale ma la sua timbrica comunque calda e avvolgente riuscirà a trascinare la voce oltre l’ostacolo dell’anacronismo, il tutto grazie anche ad arrangiamenti essenziali ma perfetti. Dentro le nove tracce che compongono Fiancé, troverete una serie innumerevole di punti di riferimento, che vanno dal passato britannico del Songwriting, al Folk a stelle e strisce, passando per le moderne contaminazioni elettroniche con il Neo Soul, l’R&B e l’Art Soul di James Blake (“Saint”, “Ivory”) ma anche paradossali e pericolosi incroci con il Kanye West più fuori contesto di My Beautiful Dark Twisted Fantasy (“Canyine”). Fiancé è un full length splendido e magniloquente, che riesce a creare atmosfere eteree ai limiti del Dream Pop (“Kadabre”, “Ply”), costruite su strutture complesse e articolate, in grado di trasportarci senza mai annoiare. Un’opera non facile da definire, che sa gonfiarsi tanto di un unico lirismo, quanto di una potenza grave e inquietante (“Are You Real”) e che riesce a evocare i moderni fantasmi viventi del Pop rileggendoli in chiave introspettiva e più eterogenea, senza scorciatoie per un immediato gradimento.
Già dall’introduttiva “Irredeemer” appare chiaro l’obiettivo ultimo del lavoro di Ed Tullett eppure non ci lasci trarre in inganno dall’eccessiva delicatezza delle note di chitarra e della voce perché il seguito sarà ben più multiforme e a tratti veemente e, a tal proposito, basta la sezione ritmica martellante di “Malignant” a rendere l’idea. Il seguito è racchiuso tutto nelle mie precedenti parole, anzi, nelle note di questo gioiello che spero possa trovare spazio non solo nel vostro cuore ma anche nel tempo di chi cerca dalla musica qualcosa di più di belle e orecchiabili melodie. Se James Blake cerca un discepolo, credo lo possa trovare in Ed Tullett.
Mosè Santamaria – #RisorseUmane
Con Mosè Santamaria bisogna stare attenti. Personaggio subito affascinante ma pericoloso, con questo alone mistico e quei riferimenti (Jodorowsky, Gurdjieff, ganja, mitologie, Bibbia) che basta poco per far crollare tutto nel pasticciaccio New Age. Nonostante le apparenze, in #RisorseUmane questo non succede. Il misticismo è una filigrana: i riferimenti culturali, esperienziali di Santamaria sono tra le righe, ma lui racconta altro, (anche) attraverso questi. Sono storie di un Pop focalizzato, intelligente, o di un Cantautorato alieno ma accessibile: amori perduti, infuocati o gentili, carnali, platonici o spirituali, raccontati con tratti vividi (“Mata Hari”), soffusi (“I Colori di Françoise”), intensi (“A Nizza”), oppure storie di paese (“I Love You Marzano”) o di città (“L’Altra Parte della Città” ), o ancora appunti e riflessioni sulla scoperta di sé e del mondo, sull’evoluzione del proprio essere e di ciò che lo circonda (“Mine Vaganti”, “Come gli Dei”, “Passato Prossimo”). Santamaria racconta e si racconta con freschezza, con una leggerezza attenta, non troppo incline al caso, con accostamenti a volte sorprendenti che lo rendono interessante. Meno focalizzate le zone dove si ironizza (“Compromessi e Chiacchiere da Bar”, la più banalotta), ma nel complesso il tutto si regge sulle proprie gambe senza molta difficoltà. La musica segue il mondo delle canzoni, si adatta senza volersi etichettare in maniera troppo chiara, e quindi mescola strumenti acustici e virtuali in arrangiamenti mai casuali, alle volte veramente saporiti, stuzzicanti (“A Nizza”, per esempio), sempre in un’ottica Pop ma con una netta veste Elettronica, spesso uptempo, con ganci ad ogni angolo e in cui tutto (o quasi) rimane nelle orecchie e nella testa abbastanza in fretta. Pur se armonicamente abbastanza lineare, #RisorseUmane sa rendersi vario con guizzi e storture (di pianoforti, fiati, synth, cori…) che nobilitano e soddisfano. Detto questo, rimangono le ombre: in primis la voce, sforzata, imprecisa, un timbro posticcio, impostato, che si infila tra me e l’ascolto sereno di questo disco come uno scoglio praticamente insormontabile. E poi, poco distante, lo scarso senso melodico/metrico, che spesso fa intorcinare le frasi, le incaglia, le espande e le svuota, con effetti a volte pesanti sullo scorrere dei testi e in generale delle melodie. C’è insomma un personaggio molto interessante che sta facendo un percorso curioso, sincero e appassionato, con qualche difetto che non è chiaro se sia vezzo o limite: bisogna vedere come e quanto evolverà da questo, comunque buono, punto di partenza.
Mingle – Static
Se le uscite precedenti in collaborazione con artisti quali il polistrumentista veronese Andrea Faccioli alias Cabeki e, ancor più, con il friulano Deison per le due uscite Collapse[d] e Weak Life avevano suscitato in me un entusiasmo non indifferente per la realizzazione di opere infarcite di un’immediatezza e complessità fuori dal comune, qualcosa che sembrava ergersi sopra il modesto mercato tricolore, il ritorno di Andrea Gastaldello a una dimensione solista ha finito per smorzare parzialmente ogni sorta di entusiasmo. I fattori che finiscono per distanziare notevolmente in negativo un album come Static da uno come Weak Life, uscito anch’esso nel 2015, possono essere molteplici; lungi da me voler insinuare che il merito dell’alto riconoscimento dato a quelle produzioni in duo sia da attribuire agli altri interpreti. Quello che è certo è che l’ispirazione di Mingle qui è certamente al di sotto della soglia della mediocrità e il timore è che sia la cooperazione a tirar fuori dall’artista la parte migliore di sé. Se dunque si torna, almeno sotto l’aspetto estetico, a una visione della musica introspettiva e personale, continua comunque quel percorso di scoperta dell’Io nella sua dimensione intrinseca iniziato agli esordi e perpetuato con il lavoro in duo con Deison. L’Elettronica di Mingle tende a rafforzare il suo lato sperimentale che comunque non annienta l’aspetto melodico, scegliendo una strada minimale che mira a dare una staticità al flusso sonoro ma non riuscendovi mai fino in fondo, quasi per paura di una fermezza inquietante e dunque indigeribile all’ascolto. La mancanza di coraggio in tal senso viene ancor più a farsi pesante per la scelta dei suoni che paiono non solo ripetitivi ma anche fuori luogo in taluni contesti. Le undici tracce di Static barcollano, più che danzare, tra l’immobilità dell’attimo e la velocità fredda del suono finendo per spaccarsi a terra sotto il peso di un’impossibile scelta dell’una o dell’altra strada senza riuscire neanche a regalarci quel senso di analisi occulta che dovrebbe essere alla base di un sound di tale forgia.
Coraxo – Neptune
I Coraxo nascono nel 2013 e provengono dalla fredda Finlandia. I membri che ne fanno parte sono: Tomi Toimonen, Ville Kokko e Ville Vistbacka. Tutti e tre i ragazzi hanno una formazione ed uno stampo totalmente differente tra loro, e vi accorgerete di questa particolarità proprio grazie a Neptune, il disco d’ esordio registrato presso il Raivio Sound, mentre i processi di masterizzazione sono a cura di Dan Swano, che a dirla tutta ha svolto un ottimo lavoro data la qualità del suono. Neptune è un disco che cattura l’attenzione grazie alle sue svariate sfumature: un po’ Heavy, un po’ Prog e un po’ Blues; a volte è possibile cogliere anche delle sfumature Folk, ma il minimo comune denominatore rimane sempre il genere Melodic Death Metal. È interessante come questo disco riesca a metterei di buonumore; in certi momenti pare che addirittura ti spinga a danzare e a muoverti sulle note di alcune sue canzoni. Non è un apice, questo è chiaro, ma è comunque un lavoro simpatico che è riuscito, prima di tutto, a mettere d’ accordo tutti i musicisti, sia per i loro gusti che per le loro capacità. In seconda battuta Neptune è riuscito a conciliare sonorità che difficilmente riescono a trovare una sintonia tra loro. Insomma, per i Coraxo è un buon inizio, questa prima fatica è sicuramente un discreto biglietto da visita. Con molta sincerità non riesco ad immaginare un futuro per questi ragazzi, è difficile anche orientarsi sul sound. Personalmente penso che meritino una piccola attenzione.
Black Deep White – Invisible
Ultimamente mi capita spesso di recensire album di band romane. La scena capitolina è incredibilmente variegata, oltre che di buonissima qualità, e, per me che sono piemontese, scoprire quanto il sound sia differenziato è sempre una sorpresa. Ciò che mi colpisce è soprattutto realizzare una certa affezione verso gli anni 80. Non sono da meno i Black Deep White, che dopo l’Ep Tonight del 2012, tornano con questo full length, Invisible, in omaggio alla celebrare frase tratta dal “Piccolo Principe”: l’essenziale è invisibile agli occhi. Il disco apre con la title-track, una commistione di Elettro Pop anni 90 e synth che strizzano l’occhio a qualche anno prima. Segue “All For You” con il suo cambio drastico di atmosfere e sensazioni, con un fischiettato quasi Folk e sonorità acustiche di sfondo. Il brano apre poco, non c’è una vera e propria esplosione, ma nel complesso non è male. Un’altra sterzata repentina arriva con “Farther Back”, praticamente un brano Disco anni 90, forse addirittura un po’ troppo Disco (e con “troppo” intendo che il primo rimando mentale sono gli Eiffel65). La prosecuzione naturale è la cover dei Level 42, “Lessons in Love”. Le sonorità Elettro Dance proseguono con “Utopia”, sostenuta però da un riff a intervalli brevi piuttosto accattivante. E fino a qui tutto fila piuttosto liscio: la band padroneggia la tecnica con una certa competenza, i brani sono piuttosto omogenei fra loro a parte un paio di inserimenti a cui io magari avrei riservato un’altra posizione nel disco, ma, insomma, è un bel sample. Con “Lost in a Moment” mi si insinua un dubbio però: era il caso di fare un album intero e non valutare la possibilità invece di partorire un altro Ep? Perché in questo brano appaiono ispirazioni alla Marylin Manson e ai Bauhaus, con un utilizzo ben più cupo dell’elettronica, che stride con le tracce precedenti. E di nuovo la formazione cambia registro in “Shattered”, Pop puro e semplice, come se i Negramaro avessero fatto un salto negli anni 80 e gridassero di voler sposare Simon Le Bon. Il mio dubbio sembra trovare una ragionevole conferma di esistere nell’ennesimo cambio di “Up to Some Days Ago”: questi ragazzi hanno davvero tante inclinazioni diverse o semplicemente non hanno ancora individuato la propria strada? “Tonight” e “Loneliness and Death” sembrano confermare una preponderante tendenza danzereccia, ma l’impressione a questo punto è che la Dance venga solo impiegata come pretestuoso calderone di ispirazioni diversissime da esplorare, ma ancora senza la giusta consapevolezza ed espressione di personalità. La capacità tecnica, ripeto, non manca, e, questo è il momento giusto di sottolinearlo, neppure la presentazione: il press kit ha davvero tutto quello che un giornalista vuole sapere ed è incredibilmente ammirevole l’attenzione che viene dedicata ai testi e al concept che sta alla base di tutto il lavoro, ma il risultato è, sciaguratamente, un disco macedonia. Il consiglio è cercare di ascoltarsi di più, di non affezionarsi ai brani in sé, ma capire prima di tutto chi si è.
Coffeeshower – Houses
Quanto abbiamo ancora sulla pelle questo suono? Noi nati negli anni 80 che abbiamo visto le prime creste sulle musicassette dei nostri compagni delle medie, per poi vederle sul cranio dei rappresentanti di istituto, sedicenni liceali brufolosi. E infine MTV che ha ridotto tutto questo ad una bella confezione regalo, buttata in pattumiera poco dopo. In Italia però pare che il buon vecchio Punk “all’americana” (o meglio “alla californiana”) non sia proprio mai veramente stato spazzato via. Rosicchia l’underground, mordendone le gambe con denti sempre più luccicanti, riga da un lato e barboni da hipster. Si potrebbe storcere un po’ il naso al nome Punk ma le radici risiedono ancora nello squallore e nella rabbia, anche se ci avviciniamo a produzioni ben pettinate come questa. Gli abruzzesi Coffeeshower non sono però dei ragazzini a cui piace farsi i fighi con le chitarre, i loro armadi saranno pieni di magliette sgualcite dei NOFX e dischi dei Pennywise. Nati nel 1999 hanno all’attivo numerosi tour in Europa, album e addirittura un Greatest Hits. Ma soprattutto una costanza che è degna di chi la musica non la prende nè come lavoro nè come passione, ma come vera e unica compagna di vita. Houses è un disco cliché, poco da aggiungere. Solo tanto sudore, passione e voglia di suonare vivi, cercando (perché no?) di stare al passo coi tempi. “Tom Sawyer” viaggia in quell’Hardcore melodico che non può che fare rigonfiare i polsi di sangue. Basso e batteria roboanti, chitarroni da salti a pie pari. La produzione americana si sente in tutte e tredici le tracce del disco. “It’s Your Birthday” e il singolo “Broken Pieces” sono adolescenziali come l’amore per questo sound, come quella voglia di ribellione che per fortuna fa fatica a svanire. L’aggressività non molla mai la presa e vede il suo apice in “Four Walls”, il growl alla voce è una mina, un pugno in faccia, un’onda anomala. Il resto del disco fila dritto, sempre ben apparecchiato. Per fortuna ci regala ancora un paio di deviazioni (mai forzate) nelle due strumentali “Houses”. Sentieri verdi e freddi. La prima parte sembra ambientata in un bosco del nord Europa, la seconda in una grande metropoli statunitense. Due concetti diversi di casa, ma la stessa sensazione di famiglia. “Houses Pt.2” ci porta dritti verso l’ultimo brano del disco “The Sentimental/Favourite”, un pezzo che sottolinea la maturità compositiva dei Coffeeshower. A loro detta “solo una band con uno stupido nome”, a mio parere solo quattro ragazzi un po’ cresciutelli che prendono in mano i loro strumenti ancora con la necessità di voler sputare fuori il veleno. E perché no di divertirsi anche se i vent’anni sono passati da un pezzo.
Janek Schaefer – World News
Le quattro tracce che mettono insieme World News sono il logico seguito degli studi dell’architetto Janek Schaefer circa la correlazione tra suono, spazio e luogo. Le sue opere, le sue performance, fanno il giro del mondo, dal Tate Moderne di Londra all’Opera di Sidney ed è dunque evidente che, un lavoro complesso come questo, non possa essere visto sotto l’apparenza di una lineare creazione musicale. La tracklist è composta di suoni captati, glitch, rumori di fondo e voci narranti che raccontano il mondo prendendo spunto da diversi quotidiani internazionali del periodo 03 maggio / 10 maggio 2014 generando una scultura multiforme fatta di collage concreti nell’estetica ma profondamente claustrofobica, raccolta e irregolare. Un modo di produrre Elettronica sperimentale staccandosi totalmente dal concetto stesso di Elettronica, smantellando la comune concezione di musica che qui diventa solo uno degli elementi di qualcosa più grande, il tutto, però, restando fortemente ancorati alla drammaticità del reale e non lavorando esclusivamente nell’astratto. È davvero complesso, per i meno attenti a questa scena fatta d’indagine estrema, godere appieno di un disco come World News e nello stesso tempo è difficile giudicare un album, anzi un’artista, che non fa certo del Lp il suo principale strumento di divulgazione delle proprie idee. Tuttavia, ci sono diversi fattori che mi aiutano a non collocare questa tra le migliori opere realizzate da Janek Schaefer, dalla durata ridotta del disco che non permette una corretta assimilazione dei concetti sofferenti racchiusi nello stesso, fino alla scelta dei suoni a tratti fin troppo piatti e monotoni. L’obiettivo apparente di questo World News può assimilarsi a quello di Alku Toinen, altra opera dello stesso genere e di un artista, Padna, della stessa etichetta (Rev Laboratories) ma la tensione nervosa suscitata da quest’ultimo era decisamente più convincente rispetto al disco che analizziamo oggi, il quale resta d’indubbio valore ma di certo indietro rispetto alle altre produzioni dello stesso Schafer. Il tutto con la consapevolezza che certe cose possano acquistare un pregio aggiunto, se diffuse in ambienti più dedicati e adatti rispetto alle quattro mura di casa.
Other Houses – Bad Reputation
Avete presente una band di nome Hollow Sunshine, mediocre formazione a metà tra Shoegaze e Funeral Doom Metal? Probabilmente no! Other Houses non è nient’altro che lo pseudonimo del vocalist di quella band, Morgan Enos ma non aspettatevi nulla in questo Bad Reputation di quell’esperienza passata. Proviamo a mettere da parte la copertina orrida che ritrae Enos photoshoppato male davanti al pianeta Saturno (almeno quello mi pare, non ho mai amato la geografia astronomica) photoshoppato male davanti ad un cielo carico di stelle e lasciamo anche perdere la scelta dei caratteri che neanche in un b-movie anni 80. Concentriamoci sulla musica del cantante multistrumentista (chitarre, batteria, synth, laser) aiutato solo al basso in “Yellow and Starship” da Reuben. Bad Reputation è fondamentalmente un album di un Songwriter Pop che prova a contaminare quest’attraente vitalità di facile ascolto con elementi propri di stili diversi e più settoriali, dal Lo Fi, al Post Punk, al Grunge, al Folk passando per una Psychedelia cosmica propria di qualche decennio fa. Tutto questo è fatto con molta cautela e l’aspetto melodico resta decisamente il nucleo palese dell’intera tracklist insieme agli arrangiamenti semplici ai limiti della banalità. La voce è fastidiosa, arrancante e i suoni scelti per arricchire lo scheletro strumentale dell’opera e l’apparato melodico sono ai limiti della decenza. Le stesse melodie, sulle quali si potrebbe provare a cercare l’ancora di salvezza, sono poco incisive, quasi bozze di qualcosa che non è mai nato, aborti artistici d’ispirazione malsana. Se l’idea era di omaggiare i grandi nomi del Pop Rock statunitense anni Sessanta/Settanta oppure quella di riprendere la strada delle band Power Pop Lo Fi degli Ottanta non possiamo che costatare un fallimento senza via di scampo.