Cloud Nothings – Final Summer

Written by Recensioni

Cambiare tutto per non cambiare nulla: un nuovo disco che è una catarsi con l’acceleratore sempre premuto.
[ 19.04.2024 | Pure Noise | indie rock, indie punk, post-hardcore ]

“I thought I would be more than this”.
Questa frase, il refrain urlato fino allo sfinimento nell’ormai iconica Wasted Days, è stata per anni quella con cui ho identificato i Cloud Nothings, una band che ha raccolto semplicemente troppo poco rispetto a quanto seminato in una carriera ormai quindicennale. 

Nati nella cameretta di Dylan Baldi, è dal 2009 che il ragazzo di Cleveland distribuisce confetti punk rock a destra e a manca, mietendo successo di pubblico e critica (Attack On Memory, Here And Nowhere Else) e diventando poi punto di riferimento per i fan più duri e puri, ormai lontano dalle sirene dell’hype che da Life Without Sound in poi si sono già spostate su altro.
Imperturbabili, Baldi e i suoi compagni TJ Duke (basso) e Jayson Gerycz (batteria) hanno continuato a pubblicare dischi come se niente fosse, impilando chitarre laceranti e ritmiche ipercinetiche su melodie scintillanti, come dei bravi operai della musica (periodo pandemico incluso).

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Arriviamo al 2024 e, ridendo e scherzando, questo Final Summer è l’ottavo album dei Cloud Nothings, l’undicesimo se contiamo anche il debutto Turning On, la collaborazione con i Wavves e le due esclusive su Bandcamp. Lo storico bassista TJ Duke è stato rimpiazzato dal secondo chitarrista Chris Brown (ma non quel Chris Brown), ma sulla copertina c’è sempre uno skyline, un panorama come nei giorni migliori.
I synth che aprono la title-track iniziale fanno presagire allora un cambiamento nel suono, ma basta poco perché i tre inizino a fare quello che sanno fare meglio: chitarra aggressiva, batteria incontrollabile, melodia vincente.

“I have some thoughts, I have some dreams / but I need to be happy with what I’ve got for me”
La novità è che Dylan Baldi è riuscito a scendere a patti con il mondo, o almeno ci sta provando.
Se nel precedente The Shadow I Remember si sentiva ancora quell’inquietudine mangiarlo dentro (un disco che si apriva con “The world I know has gone away / An outline of my own decay”), Final Summer ci presenta un protagonista finalmente in grado di raccontare il proprio percorso di crescita e le piccole vittorie, piuttosto che del buco nero di sconfitte tanto confortevole.
It’s about feeling alright in the moment: a lot of these songs sort of ended up being about getting by or trying to keep improving despite everything” racconta Baldi presentando il disco, ed è il suono stesso della band ad uscirne rinvigorito.

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Molte delle critiche piovute addosso a The Shadow I Remember e ai precedenti The Black Hole Understands e Life Is Only One Event ruotavano attorno all’ammorbidimento del suono della band. Se eravate tra queste persone, potete stare tranquillə: Final Summer, anche se non suona sporco come Here And Nowhere Else o aggressivo come Last Building Burning, potete considerarlo un fratellino di quel Life Without Sound che – almeno per chi vi scrive – riusciva a coniugare al meglio l’impatto fisico dei brani con il loro lato melodico. Una cosa è certa: nei suoi 29 minuti di durata, Final Summer non alza mai il piede dall’acceleratore, anche nei momenti più “mid tempo” (Daggers Of Light, Silence).

“If something would happen with me, I’d get along”.
C’è un senso di catarsi all’interno di Final Summer che è molto bello vivere in tempo reale. L’accettazione di I’d Get Along e del suo mantra recitato urlato all’infinito, ma anche una Running Through The Campus che utilizza proprio l’atto della corsa come uno scendere a patti con sé stessi, il proprio corpo, la propria città, il proprio posto nel mondo.
C’è catarsi anche nel riconoscere alcuni dei propri punti di forza e spremerli a più non posso, come in The Golden Halo: un ritornello che sfocia in un ritornello che diventa un ritornello, che se fosse uscita su Here And Nowhere Else sarebbe un momento immancabile di ogni live. 

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La seconda metà dell’album è, nel complesso, un crescendo clamoroso di intensità e potenza, tanto da farci pure dimenticare l’assenza di un pezzo “lungo” (che ormai manca da troppo tempo) mentre veniamo scudisciati dal riff di On The Chain o da una Thank Me For Playing che sì, porta indietro le lancette del tempo.

La chiusura è affidata a Common Mistake, dove Baldi afferma con inaspettata filosofia “This is your life, it’s a common mistake / We’ll be alright, just give more than you take” e di colpo il castello di carte cade definitivamente: la band di Wasted Days è ufficialmente cresciuta e ha saputo scendere a patti con i propri difetti, le proprie idiosincrasie, gli errori e gli inciampi di 12 anni di vita vissuta.

Mi guardo allo specchio: “I thought I would be more than this” è stato un mantra non solo per la band, ma anche per me come persona. Ribalto le prospettive per un attimo e penso: sarà forse ora di crescere? Sarà forse ora di prendere questa vita per quanto di bello ha da offrire? Chissà, a migliaia di chilometri di distanza potrebbe essere l’ennesima, minuscola rivoluzione di una delle più importanti e sottovalutate punk band americane.

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Last modified: 30 Maggio 2024