Il terzo album della band inglese era talmente atteso che abbiamo deciso di dedicargli una recensione collettiva da parte della nostra redazione.
[ 07.02.2025 | Warp | post-rock, art rock, experimental rock ]
“Today I’m the butcher, tomorrow I might be the cattle.”
(Agustina Bazterrica, Tender Is The Flesh)
Cowards è un disco dedicato ai “cattivi”. Un concept album sviluppato sull’idea del male, che l’essere umano è abituato ad infliggere ed infliggersi a vicenda. Un interrogativo risuona nella traccia d’apertura Crispy Skin, e si insinua lentamente in ogni crepa e ogni fessura: am I the bad one?
Arrivati a quota tre album in studio, gli Squid sfoderano in questa nuova opera un ricco ventaglio di fonti di ispirazione: dalla scrittrice argentina Agustina Bazterrica al cinema di Yorgos Lanthimos, passando per la figura ambigua di Andy Warhol e il Giappone di Ryū Murakami.
Sbaragliando ancora una volta le carte sull’affollato tavolo del post-punk revival, la band di Ollie Judge si rimette in gioco per una nuova partita.
Noi della redazione di Rockambula – come già fatto per le uscite più recenti di Fontaines D.C. e The Cure – ci siamo confrontati per dire la nostra su un album che, piaccia o no, si è già candidato nella lista dei più attesi e chiacchierati dell’anno.
![](https://www.rockambula.com/wp-content/uploads/2025/02/squid-foto-1.jpg)
Francesca Prevettoni
Dopo la quantomeno discutibile svolta degli IDLES, la virata pop che ha trasformato i Fontaines D.C. da prodotto di nicchia nella band “che anche i tuoi colleghi di lavoro conoscono” e l’apparente latitanza degli shame, gli Squid sembravano essere rimasti fra i pochi eredi al trono di una generazione di post-punk revival già ampiamente doppiata da innumerevoli nuove leve.
La band di Brighton è però troppo talentuosa per piegarsi e stare stretta in una categoria; più incline a tradire il post-punk che ad essergli fedele. Cowards è il terzo capolavoro che si aggiunge ad una discografia già immacolata.
I Nostri si riconfermano maestri assoluti nella nobile arte della dinamica (Blood on the Boulders), continuando a pompare sangue in quella vena radioheadiana sempre viva (Crispy Skin, praticamente una b-side tratta da In Rainbows), spaziando incessantemente fra il proprio passato (Cro-Magnon Man) e un avvenire che pare aver spalancato molte più porte di quante ce ne aspettassimo (la futuristica Showtime!).
Caratterizzato da una straordinaria commistione di generi, passando dall’art rock al jazz, dall’elettronica a sonorità più ambient, e supportato da una validissima produzione, Cowards è un disco nel quale risulta quasi impossibile skippare una traccia: in un ordine naturale e perfetto risiede il giusto equilibrio fra tensione e rilascio. E a questo punto diciamolo, urliamolo a squarciagola, scriviamolo sui muri: chissenefrega del post-punk.
Federico Longoni
Cowards ci ha messo un po’ ad arrivarmi. Inizialmente ho percepito la mancanza di quella follia che è stata centrale nei due album precedenti. E gli Squid a me piacevano proprio per quella follia lì. In questo nuovo lavoro è tutto più serio, tutto più equilibrato, ma d’altronde si cresce, ci si evolve, si diventa più maturi.
Ecco, maturo è proprio l’aggettivo esatto per il disco. Brani profondi e introspettivi, testi altrettanti intensi, meno bizzarrie, più serietà. Ma non è una serietà eccessiva, è una serietà che fa capire come gli Squid abbiamo voluto fare un disco esattamente così.
Non manca nulla, anche se i due album precedenti (soprattutto O Monolith) erano più variopinti e mi erano arrivati più diretti.
Non mi si fraintenda: parliamo comunque di un bell’album, e alcuni brani (come i primi tre pezzi in apertura) sono ottimi, ma poi nel resto del disco l’attenzione scende, perché appunto manca quella follia a cui eravamo stati abituati.
Promossi anche questa volta, quindi, ma senza la lode.
Vittoriano Capaldi
Ai miei occhi, gli Squid hanno sempre avuto un grande pregio: pur essendo effettivamente nati da quella che ormai anche Rate Your Music definisce come la Windmill Scene, essi non hanno mai cercato di cavalcare più di tanto l’ondata post-punk, andando a cercare la propria ispirazione percorrendo strade decisamente meno battute.
Se dovessi essere onesto fino in fondo, mi verrebbe da dire che questo terzo lavoro non aggiunge poi granché a quanto già fatto dalla band, ma la domanda da porsi è forse un’altra: c’era davvero, qualcosa da aggiungere? Dopotutto, il suono del quintetto nativo di Brighton è sempre stato contraddistinto da una certa varietà mista ad un poco comune desiderio di sperimentazione, pertanto era difficile immaginare che, giunti al terzo lavoro, si potesse restare realmente sconvolti in tal senso.
Non raggiungendo le vette ansiogene portate in dote dai crescendo di Bright Green Field né presentando la solida e innegabile coesione di O Monolith, Cowards si presenta per quello che è: un buon album di una band che, destreggiandosi abilmente tra post-rock e krautrock, art rock e sperimentazioni varie, riesce sempre a mantenere alta la qualità della propria proposta, anche in assenza di intuizioni particolarmente degne di nota.
È questo un male? Certo che no, soprattutto quando si ha bisogno di certezze (e chi non ne ha, dopotutto?).
Ad ogni modo, quando vorrò ascoltare qualcosa che mi sconquassi realmente, non credo passerò da qui.
Gianluca Marian
Tre. Tre è il numero perfetto. Credo che tre dischi siano il traguardo ideale per una band, rappresentando tappe fondamentali: urgenza, trasformazione e maturità. Naturalmente, ciò va realizzato senza snaturarsi, mantenendo una forte identità e senza mai banalizzare le canzoni.
Gli Squid hanno raggiunto la loro maturità? Molto probabilmente sì. Il loro terzo lavoro riesce a soddisfare lo zoccolo duro dei fan e, al contempo, ad attrarne di nuovi, grazie anche ai suoi momenti più pop.
Ad esempio, il synthpop inquietante di Crispy Skin ricorda Johnny and Mary di Robert Palmer, mentre Fieldworks II evoca la malinconia di Adore degli Smashing Pumpkins, quel pezzo adatto a Romance dei Fontaines D.C. ma che gli irlandesi non riuscirebbero mai a fare; d’altra parte, una Cro-Magnon Man risulta un pesce fuor d’acqua, una canzone che manca di una direzione chiara.
La sperimentazione prosegue con Building 650 e Blood on the Boulders, in cui la band si spinge verso il post-hardcore, richiamando le sonorità dei Fugazi di Red Medicine.
Nel finale, Cowards e Well Met spostano l’attenzione verso un immaginario che fonde post-rock, prog e sfumature folk, evocando i Black Country, New Road (quelli con Isaac Wood): l’unico elemento che rompe questo mood è Showtime!, un tipico brano degli Squid che non non aggiunge nulla e, ponendosi in mezzo alle due tracce sopracitate, interrompe una specie di naturale e meditativo percorso emotivo.
In limine vitae, in limine mortis.
Il prossimo album, se mai ci sarà, potrebbe segnare una rottura decisiva con il passato. La mia regola dei tre dischi rappresenta un punto di riferimento, ma non è scolpita nella pietra: spero con piacere di essere smentito, ma troppo spesso ci azzecco.
Sebastiano Orgnacco
Una dopo l’altra, il domino della nuova scena post-punk britannica sta facendo cadere tutte le sue tessere. Per quanto mi riguarda, Cowards è il primo vero passo falso degli Squid, e non perché sia un brutto disco, ma perché si tratta di un disco noioso, inutilmente calcolato e cerebrale, che spoglia la musica della band inglese di quel divertimento e quella furbizia che permeava ogni produzione, dal primo singolo all’ultimo album O Monolith.
So che di base non si dovrebbe strutturare una recensione in base ai desiderata di chi scrive, e per questo la parte oggettiva me la sono già tolta dalle balle: Cowards non è un brutto disco. Ora passiamo al soggettivo, al parere schifosamente egoistico, al fatto che questi quarantacinque minuti di musica suonano ammansiti, privi di qualunque tipo di esplosione, di catarsi, di ribollire che diventa eruzione come invece è sempre avvenuto in buona parte della produzione “squiddiana”.
Crispy Skin suona bene, ma è un crescendo che non regala soddisfazione finale. Idem Blood on the Boulders. Idem Showtime!, che peraltro sembra messa in un punto a caso della scaletta, dove invece si stava costruendo qualcosa di diverso. Eh sì, perché la title-track e la conclusiva Well Men (Fingers Through The Fence) mischiano la solita formula con accenti folk à la Canterbury, per una svolta squisitamente barocca (!) che funziona, ma che viene esplorata troppo poco e troppo tardi.
Esattamente come Geordie Greep, fuori dai black midi, ha preso quel suono e gli ha messo un guinzaglio, l’impressione è che in Cowards gli Squid abbiano giocato di sottrazione, privandosi però di buona parte di ciò che rendeva avventurosa e godevole la loro proposta.
Daniel Molinari
Vorrei raccontare quest’album partendo dalla windmill, ma non il mulino della scena inglese, bensì dall’azione di basket. Una delle schiacciate più difficili e spettacolari che, soprattutto, in NBA i tifosi vogliono vedere fare dai migliori atleti al mondo. La regola fondamentale per eseguirla è iniziare il movimento con un salto molto alto, per poi effettuare tutta la torsione palla in mano.
Ecco, io la parabola degli Squid me la immagino così. Da Bright Green Field tutti se li aspettano con la macchina fotografica in mano, con O Monolith hanno iniziato la coreografia, mentre con Cowards puntano dritti al canestro e per il sottoscritto il risultato è eccellente.
Ho apprezzato l’ossimoro del titolo cowards perché il disco è tutto fuorché un disco da codardi o da tipica lezioncina di stile di chi potrebbe pure decidere di fermarsi sugli allori e riproporre la formula che li ha resi famosi. Gli Squid invece continuano a scavare nella loro ricerca sonora, tra kraut, art rock, jazz fusion e synth, per una molteplicità di strumenti che s’intrecciano nella sinfonia sul male permeato nel mondo contemporaneo.
Una stratificazione di suoni che anche a questo giro funziona e gli addendi stavolta godono di una razionalità ben organizzata e una linearità esecutiva che personalmente trovo piacevole.
La tensione spesso annunciata e mai deflagrata, al contrario di una Swing (In A Dream) per intenderci, la trovo una soluzione furba e intelligente, per catturare l’ascolto e lasciarti quella sensazione strisciante di malessere.
Ecco, di malessere, vedendo sia la Crispy Skin scelta come singolo di lancio che il concept di Cowards, me ne aspettavo molto di più, invece nell’album si incontrano episodi molto più dilatati, come la closer Well Met (Fingers Through The Fence), con il brillare dei fiati che, prendetemi per pazzo, a una certa sembrano usciti dai suoni di 22, A Million.
Gli Squid dimostrano di saper ancora pungere con l’ansia (vedi Blood on the Boulders), ma il dosaggio viene calibrato dal lavoro di Marta Salogni e Grace Banks, che in produzione disegnano un’impalcatura eterogenea, nata per far risaltare tutte le sfumature del gruppo di Ollie Judge che, senza sconfinare nel caos, ci regalano ancora una volta un equilibrio delle forme da veri scienziati del gioco.
Federica Finocchi
Potrei dire molte cose in merito al terzo disco dei simpatici burloni Squid, ma i miei fantastici colleghi si sono espressi qui sopra in modo più che esaustivo, per cui ora beccatevi una conclusione breve e concisa.
Cowards ha un bel po’ d’Italia dentro: Marta Salogni alla produzione, Chiara Ferracuti come ingegnere del suono, i fratelli Alessandro e Max Ruisi rispettivamente al violino e al violoncello, e direi che già questo è un ottimo motivo per spingere una band conosciuta giusto nella nicchia di chi segue la musica di oggi.
Alternativa? Mah, più o meno. Gli Squid non conoscono definizioni e a noi hanno conquistato sin dal debutto proprio per questo. Io non avevo molto entusiasmo per l’uscita di questo terzo disco, anzi, potremmo dire che me ne fregava ben poco. Ho rimandato l’ascolto a 24 ore dall’uscita e i dissapori interiori iniziavano a farsi sentire. “Nah, ma che hanno combinato, forse era meglio O Monolith“.
Primo ascolto distratto. “Aspetta, forse c’è qualcosa che non ho afferrato bene”. Secondo ascolto, meglio. “Ehi, ma si può sapere perché lo considero un gran disco a fasi intermittenti?”.
Ecco, io non so perché, ma con gli Squid ho spesso avuto questo problema. Per un brano che non riesco a fare a meno di ascoltare in loop, ce n’è uno che mi fa venir voglia di mettere in pausa o, peggio ancora, di skippare. Alti e bassi, senza sosta e con una tale sofferenza dentro che mi rattristo sul serio, quando durante la giornata penso al quintetto di Brighton, così, a caso.
Nonostante tutto, Cowards cresce, ascolto dopo ascolto. Sento di poterci stare dentro ancora per molto tempo. Forse lo considero già come uno dei migliori album di questo nuovo inizio.
Con gli Squid, le previsioni del tempo sono sempre assalite da un grigiastro vortice d’incertezza, al pari dei miei contrastanti sentimenti. Ma non è forse questo il bello della musica?
LINK
Sito web
Bandcamp
Instagram
Facebook
SEGUICI
Web • Facebook • Instagram • Spotify • YouTube • Telegram • TikTok
album 2025 Art Punk Cowards Experimental Rock Krautrock Post-Punk post-rock recensione squid UK Warp Records Windmill Scene
Last modified: 12 Febbraio 2025