Il disco di esordio del trio bolognese tra shoegaze e ispirazioni cinematografiche.
[ 2016 | Swiss Sark Nights | shoegaze, darkwave ]
Nati nel 2013 a Bologna, i Dade City Days sono un trio composto da Andy Harsh (voce, chitarra, synth), Gea Birkin (basso, voce) e Michele Testi (batteria, drum machine) che giunge alla pubblicazione del primo full length, prodotto da Lorenzo Montanà per Swiss Dark Nights, dopo aver già condiviso il palco con artisti come The Soft Moon, She Past Away e Modern English.
La settima arte, per la quale l’amore del trio è evidente oltre che dal titolo del disco già dal loro stesso nome (Dade City è la città dove si trova il castello del delizioso “Edward Mani di Forbice” di Tim Burton), è tra le principali fonti d’ispirazione nel metodo di stesura dei testi il cui sound si ispira, con sguardo moderno, ad alcuni dei generi che caratterizzarono la scena musicale dalla seconda metà degli anni 80 alla prima dei 90 (periodo che è anche quello del passaggio dalla massima fama sino ai giorni precedenti il suo superamento del Video Home System), troveremo dunque un’alternanza di brani prevalentemente di matrice shoegaze e darkwave trattati con cura pop e/o nei quali troveremo un imponente uso di synth.
Una delle caratteristiche della band è quella di cantare in italiano, cosa affatto scontata vista la proposta, per quanto le parole arrivino chiaramente solo in alcune occasioni facendosi spesso strumento tra gli strumenti; i testi, dalla discreta qualità media (sicuramente buona in un paio di occasioni abbondanti) risultano al contempo tangibili ed incorporei, neri e fucsia.
Il disco si apre come meglio non potrebbe con Jukai nel quale, in un’atmosfera decadente e riverberata, il trio ci accompagnerà tra gli alberi ed i cappi della foresta giapponese celebre teatro di numerosi suicidi; altri buoni momenti si troveranno nel Dark malinconico, ma dal ritornello spinto, di Luna Park, nell’ipnotica miscela di Pop sintetico e sognante di Fernweh, nel bel singolo Polaroid (il brano più shoegaze del lotto) ed in quel Dade City Days che sin dal titolo possiamo considerare il brano manifesto della band, un amaro e delicato chiaroscuro dal corpo pop, ma all’interno del quale scorre sangue corvino e sintetico, dedicato all’amore della favola moderna di Burton tra Edward e Kim ed impreziosito da parole capaci di ricrearne l’emotività facendoci cadere addosso qualche fiocco di neve dalle statue di ghiaccio scolpite dal protagonista, difficile non voler bene a questo brano se si è amato il film.
Purtroppo nei pezzi dalla struttura più ballabile la band perde qualcosa, pur riuscendo in un paio di casi (Siderofobia e Preghiere e Decibel) a sfornare dei ritornelli capaci di colpire già dopo pochi ascolti, venendo meno di quel flusso omogeneo e di quella coesione presenti nei brani precedentemente citati nei quali il trio pur risultando ovviamente paragonabile ad altro risulta distinguibile, caratteristica che nei momenti più spinti e danzerecci viene a mancare. In ogni caso questo esordio non può che essere considerato un incoraggiante lavoro sfornato da 3 ragazzi affamati di storie e capaci poi di condensarle in 3 minuti di canzone, ragazzi che spero, maturando ulteriormente, sapranno migliorare le cose che funzionano meno insistendo nel modo giusto in quelle già valide di modo che le non poche soddisfazioni fin qui raccolte non possano che crescere ulteriormente.
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Last modified: 30 Luglio 2019