Davide Viviani arriva sei anni dopo il suo primo disco, Un giorno il mio ombrello sarà tuo, con questo L’oreficeria dal nome per niente casuale: otto brevi canzoni costruite con precisione, come gioielli in un laboratorio artigianale.
Lo spirito è certo affascinante: un umore sussurrato e atmosferico, complice la produzione elegante di Alessandro “Asso” Stefana, già al lavoro con Capossela e PJ Harvey (tra i tanti), capace di accarezzarci le orecchie senza mai sbavare. Sembra davvero di osservare strati impalpabili di foglia d’oro su foglia d’oro, ma sono chitarre esili, organi e pianoforti a gocce, arpeggi lievi, batterie e percussioni (di Marco Parente) zoppicanti – a volte un po’ troppo – ma mai ingombranti.
I testi ci chiedono di fidarci e seguire, senza chiedere spiegazioni, come sempre si dovrebbe; sono sgorghi d’inconscio, che funzionano per immagini suggestive (“Poi d’un tratto si trasforma tutto: scambio vicolo Aquila Nera per Tequila Nera, i piccioni diventano ventagli, mi sta bene e grazie a Dio per il momento non sei tu che abbagli”, da “Litania della città alta”), o domande immense senza risposte immediate (“Tu che puoi o mio bel Dio svuotami gli occhi che davvero ora non mi servon più, potevi dirlo con vigore che era questo da vedere, trattarmi come un vecchio amico, potevi farlo almeno tu, perché lo so bene che ho sbagliato mira o forse tu con me, ma ti voglio capire ancora, in fondo sei disumano anche tu, se vuoi lo spiego meglio lungo il fiume passeggiando”, da “La creatura banale”) e piccole meraviglie – a patto di aderirvi a occhi chiusi: “Ma poi il gallo mi dice che è tardi, uno starnuto ha svegliato anche i cani, mi metto vicino e lo so che senti, perché quando dormivo da solo tu eri lì moltiplicata per venti” (da “E a tutto quel mondo lì”). Un plauso anche a “Salomon David”, un bel ritratto in dialetto bresciano che capisco fino a un certo punto ma che almeno fino a quel punto è chirurgico, ironico e romantico insieme, e alla narrazione surreale di “Lu porcu meu”, che trasforma in piccola fiaba un paesaggio quotidiano e terrestre.
C’è anche qualcosa che non funziona, per quanto mi riguarda: le linee di voce non si definiscono, latitano, salgono e scendono recitando con poco senso della melodia e del ritmo – o perlomeno con un senso che non mi convince granché. Non aiuta il timbro non eccelso della voce di Viviani, che lodevolmente rimane dolce e carezzevole ma senza mai conquistarmi, a tratti persino distraendomi dal resto. E nota di demerito finale in particolare all’unico brano in inglese, “Leashed”: una pronuncia così non si può davvero sentire e rovina la compostezza della musica e dell’arrangiamento.
L’oreficeria è un piccolo disco, nel bene e nel male, che parla piano e sogna forte. Forse il suo autoproclamarsi artigianato ne è pregio e limite: un prodotto di indubbio gusto e onesta manifattura che però – nella metafora – non raggiunge l’eterno inspiegabile di ciò che cerchiamo nell’arte, che a volte è più deforme e inquietante, a volte più ambizioso e arrogante. Non è la cripta né la cupola, insomma: ma è il tocco leggero sulla panca di legno. Se è questo che cercate, vi farà – per mezz’oretta – felici: non è cosa da tutti.
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Last modified: 20 Febbraio 2019
Quante imprecisioni in questa recensione. Il dialetto è bresciano e non bergamasco. Sono l’autrice della poesia “Leashed” e posso dichiarare che l’ho scritta esattamente con questa pronuncia. Il purismo prescrittivo della pronuncia di un inglese ideale tradisce una visione fortemente datata – e anche potenzialmente rischiosamente e pericolosamente razzista – dell’uso della lingua. Ognuno ha il diritto di esprimersi nel proprio “accento”. L’autore del testo approva la pronuncia di Viviani. Il testo è ormai suo, così come qualsiasi intonazione che lui sceglierà di donare. Viva la diversità linguistica! Viva le sfumature! No all’omologaziobe prescrittiva e datata.