Spirit è il quattordicesimo album dei Depeche Mode. Una frase semplice, quasi banale, che racchiude al suo interno una grande verità: i Depeche Mode sono una delle poche band che è riuscita a sopravvivere e se stessa e alle innumerevoli vicissitudini dei suoi componenti. Una quasi innaturale longevità che affonda le radici in una formula vincente e disarmante allo stesso tempo: la creazione di un immaginario e di un sound riconoscibile aldilà delle mode, che ha sempre assecondato solamente il proprio gusto e se n’é fregato di tutto il resto. Chapeau! Il mondo creato da Martin Gore e Dave Gahan è così potente da avere un suo linguaggio, un suo stile, un corredo iconico senza tempo. Il secondo incarna e interpreta alla perfezione lo spirito del primo, attraverso una carnalità e un sex appeal tanto struggente che porta con facile trasporto l’ascoltatore a immergersi completamente nelle tenebrose storie di sesso, droga e religione, in costante ricerca di una redenzione interiore che pulsa e sprizza sofferenza da ogni dove.
Anche in quest’ultimo lavoro non mancano episodi interessanti che ricalcano alla perfezione lo stilema come “You Move”, in cui il rock si sporca di quel pizzico di soul e di groove e i bassi giocano con i sintetizzatori vintage a “Poison Heart” la classica ammazza cuori e strappa magliette e la ritmata e vagamente industrial “So Much Love”.
Ci sono però – e Spirit da questo punto di vista porta con sé una piccola innovazione – brani che per la prima volta in quasi quattro decadi si spingono oltre la barriera dell’interiorità per buttare un occhio critico all’esterno. La modalità in cui quest’apertura avviene è prepotente e perentoria, fin da subito, con la prima strofa di “Going Backwards” che lascia poco all’immaginazione e in cui Gahan esordisce con We are the bigots / we have not evolved / we have no respect / we have lost control / we going backwards. Un esordio deciso nelle parole, ma che musicalmente non si apre mai veramente, imprigionando i versi in un downtempo cadenzato e monotono. La tematica pseudo sociale di risveglio delle coscienze prosegue in maniera esortativa nella retorica generalista di “Where’s the Revolution” e continua in “Worst Crime”, in cui le sfumature si fanno più nere, alla ricerca di un’emotività lacerante e coinvolgente con le parole And oh, we had so much time / How could we commit the worst crime?. Anche in questo caso le scelte musicali non mostrano particolari guizzi di vivacità creativa e ricalcano con gran mestiere il sound cupo e claustrofobico dei synth e delle drum machine, in maniera più Elettro Soul nel primo caso e con la classica ballata melodica nel secondo caso. Sebbene possa essere apprezzabile lo sforzo di provare concepire un songwriting più diretto e tagliente il risultato cade spesso in passaggi banali e generalisti, in cui l’incisività e le intenzioni non sono credibili. Risulta quindi difficile riuscire a considerare i Depeche Mode nella veste di scatenatori di folle e paladini di proteste sociali.
A livello musicale anche l’ingresso del produttore James Ford, membro dei Simian Mobile Disco, non sembra apportare grandi stravolgimenti, anzi, i suoni del gruppo non sembrano ricevere dalla nuova collaborazione particolare linfa vitale. Il sound è stato in generale rifinito e ripulito dagli eccessi e dalle ridondanze dei lavori precedenti, ma in questo modo si è andato a creare un pattern monocromatico che si abbatte in maniera omogenea su tutti i pezzi, con poche e rare eccezioni come le incursioni metalliche in “Poorman” e le derive Kraut di “Cover Me”. Una sorta di operazione ‘back to the basic’ che porta il disco a posizionarsi in una zona confortevole, che conferma lo status e le capacità del gruppo di realizzare un buon prodotto, ma che sull’aspetto musicale non aggiunge grandi novità rispetto alle ultime produzioni. Ci domandiamo anche noi dove sia la rivoluzione, perchè onestamente non l’abbiamo trovata.
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Last modified: 20 Febbraio 2019