Il ritorno degli inglesi è un buon mix di elementi pop, dream, space e psych
[ 01.03.2019 | autoprodotto | psych, space, dream pop ]
I Desert Ships mancavano dalle scene da ben cinque anni, quando rilasciarono il loro ultimo EP (per risalire invece all’ultimo – ed unico – album e vero proprio, Doll Skin Flag, bisogna tornare indietro addirittura fino al 2012). Tornare dopo un’assenza tanto lunga è insidioso per band affermate, figurarsi chi ha alle spalle un solo LP. Forse anche per questo il trio britannico ha affidato la produzione dell’atteso nuovo lavoro ad un nome pesante della scena shoegaze internazionale: Mark Gardener dei redivivi Ride, alimentando così fin da subito curiosità e aspettative nei sempre fedeli appassionati del genere.
Un album che varia abbondantemente: ora sembra pop da camera à la Pet Sounds, ora la soundtrack di un viaggio notturno in autostrada: è così che la band stessa presenta il disco sul proprio Bandcamp, lasciandone subito intendere l’eterogeneità sonora.
Diciamolo subito: di shoegaze in Eastern Flow ce n’è poco. O, meglio, ce n’è, ma non nella forma classica a cui i cultori della materia sono abituati: nelle dieci canzoni che lo compongono le chitarre sono quasi sempre il mezzo, mai il fine. Contribuiscono a creare atmosfere ammalianti e sognanti, nel tessere un tappeto sonoro fluido e variegato, ma non esplodono mai in veri e propri muri di suono, quasi come restassero costantemente sospese sul rarefatto caleidoscopio sonoro dei Nostri.
Eastern Flow è innanzitutto un album intriso di melodia: la ricerca dell’orecchiabilità è un denominatore comune in tanti pezzi, Sleep it Off e Cloudy Skies su tutti, cartoline sonore che, placide e rilassanti, ammiccano volutamente all’ascoltatore. Chiaramente c’è anche tanto, ma tanto dream pop: l’opener Idle Daze in alcuni passaggi fa tornare alla mente i The Jesus and Mary Chain novantiani, quelli che ibridavano la propria inconfondibile matrice sonora con trovate che spesso e volentieri strizzavano l’occhio all’alt rock più classico. In Time sembra di ritrovarsi di fronte ad un vero e proprio manifesto del cosiddetto “dreamgaze”, costantemente sospeso tra l’effettato chitarrismo shoegaze e le rarefatte atmosfere tipicamente dream.
Degna di nota è anche la componente psichedelica, che fa capolino in particolar modo nel piacevole psych pop di Organ Drones, mentre nella successiva Rainy Day sembra quasi di ritrovarsi in territori post punk.
L’atteso “momento Pet Sounds” arriva con Passing Ships, mentre la chiusura affidata alla doppietta Ignite Me / Spacey esplora il versante space rock della band (già, c’è qualcosa di Jason Pierce aka J. Spaceman anche in quest’album, e non poteva essere altrimenti).
In definitiva, Eastern Flow è un buon mix di elementi pop, dream, space e psych, con nessuna di queste componenti che prende mai il sopravvento sulle altre, in un equilibrio sonoro che permette di godersi piacevolmente queste dieci composizioni.
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Last modified: 25 Marzo 2019