Dopo il buon ritorno discografico, la band belga dimostra di avere ancora tanto da dire anche dal vivo.
Piccolo ma profondamente diviso, il Belgio è un posto davvero strano. E forse è proprio da questa intrinseca stranezza che sono venute fuori le cose migliori (anzi, le più conosciute): la passione smodata per il ciclismo, birre ottime e spesso decisamente alcoliche, i dEUS.
Confesso che non dovevo neanche andare a vedere questo concerto, figuriamoci scrivere addirittura qualche riga in merito. E non perché la band in questione non mi piaccia, anzi. Il fatto è che location per me non non del tutto adatta, costo non proprio contenuto e temperature torride mi avevano fatto inizialmente desistere.
Intendiamoci: la cavea dell’Auditorium Parco della Musica è un gran posto, ed è assolutamente perfetta per godersi determinati eventi. Non è invece l’ideale per un concerto propriamente rock, a maggior ragione se sono previsti solo posti a sedere.
Tra l’altro, avevo già visto Tom Barman e soci in occasione del tour che nel 2019 celebrava il ventennale del bellissimo The Ideal Crash, e mi sembrava di essere a posto così con loro.
Qualche sera fa però, di rientro da una giornata emotivamente altalenante, mi era giunta notizia (se mai dovessi leggere questo articolo: grazie, Ema) di una promozione last minute per i biglietti. E, detto fra noi, non andarsi a vedere i dEUS per non spendere una cifra con cui oggi ti prendi poco più che un gin tonic sarebbe stata roba da criminale di guerra.
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Ai dEUS ho sempre riservato un posto speciale nel cuore. Troppo europei per fare davvero il botto, troppo sperimentali per arrivare alle masse, vivono da sempre in questo paradossale limbo di band iconica ma defilata, periferica, a volte quasi dimenticata. Una condizione per certi versi esistenzialista, cosa che non può che emozionarmi profondamente.
La band di Anversa tornava per promuovere la sua ultima fatica, How to Replace It, uscita a ben undici anni di distanza dal lavoro precedente. Un album più che godibile che ha ovviamente trovato largo spazio nella setlist della serata, segno tangibile di quanto i cinque abbiano ben poca voglia di vivere del riflesso del proprio passato.
Il sempre aitante Barman si presenta più in forma che mai. Neanche il tempo di arrivare sul palco, che l’invito a tutti i presenti ad alzarsi in piedi arriva con un eloquente “C’mon guys, stand up: it’s a fucking rock show!” (ma allora lo vedete che avevo ragione?!).
Da lì, ovviamente, sarà tutto in discesa.
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I nuovi brani tengono botta in maniera più che dignitosa, complice anche l’affiatamento di una band che definire solida e collaudata sarebbe eufemistico. In più, da un paio d’anni è tornato in formazione il chitarrista storico Mauro Pawlowski, il che ovviamente non guasta.
Nel catino della cavea il sudore scorre a fiumi, ma non esiste temperatura tropicale che possa impedire di gasarsi come dei pazzi durante Instant Street. Pezzo da novanta nel repertorio dei belgi, la sua coda strumentale è per me uno dei momenti più alti e travolgenti dell’alternative rock tutto, oltre che la conferma di quanto la musica dei dEUS sia intrisa di classe e imprevedibilità.
A proposito di imprevedibilità, il lontano debutto di Worst Case Scenario meriterebbe pagine a sé, ma in questa sede ci accontentiamo delle riproposizioni di due brani stupendi come W.C.S. (First Draft) e Hotellounge (Be the Death of Me). È doveroso annotare che la lucida struggenza di quest’ultima ha fatto vacillare non poco il mio già precario equilibrio emotivo, ma dopotutto è anche e soprattutto per questo che si va ai concerti.
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Il finale è opportunamente affidato alla vera hit della band, quella Suds & Soda che, per melodie ed epicità, rappresenta uno degli apici dell’alt rock europeo, oltre che una presenza fissa nella mia personale playlist della corsa. Cinque minuti e spiccioli di pura e magica estetica 90s.
Il bis appannaggio della corale e liberatoria Nothing Really Ends chiude un concerto tirato e sentito, sincero e appassionato.
Tom Barman si conferma ancora una volta un frontman a dir poco istrionico e travolgente. Fossi il cantante di una giovane band attuale, mi metterei a vivisezionare il suo modo di stare sul palco e di trascinare compagni di band e pubblico.
E andrebbe studiata e presa a modello anche la coerenza della band stessa, sempre credibile e impeccabile, anche in un’epoca storica in cui la scena musicale certamente non riserva sgargianti tappeti rossi all’alternative rock, men che meno a quello europeo.
Del resto, un gruppo che ha il coraggio di non crogiolarsi nella nostalgia è degno di tutto l’amore e la stima possibili.
Nothing really ends, per fortuna.
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Last modified: 28 Luglio 2023