Devendra Banhart – Flying Wig

Written by Recensioni

Il potere di un abito di Issey Miyake e la dolcezza di un haiku in un album che fa bene all’anima.
[ 22.09.2023 | cantautorato, alternative folk | Mexican Summer ]

Sono lontani gli anni del freak folk, dell’estate del 2004 catturata nel docu-film The Family Jams firmato Kevin Barker in cui un gruppo di amici musicisti tra cui Anohni (all’epoca Antony degli Antony and the Johnson), Joanna Newsom e Vetiver parte in un folle tour alla conquista degli US a bordo di un camper, come nella migliore tradizione hippy, per suonare nei piccoli club del paese.

Lontani anche gli anni del magnetismo soft-rock bohémien, degli amori più o meni noti, da Natalie Portman, vestita da attrice di Bollywood nel video di Carmensita, alla campagna pubblicitaria del brand francese The Kooples con la designer-modella Ana Kras.

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Devendra Banhart, l’ex busker hobo dai lunghi capelli, oggi è un musicista di quarantadue anni che ha ancora molto da dire. Il suo nuovo album, Flying Wig, undicesima fatica in venti anni di carriera, è firmato Mexican Summer, etichetta di Brooklyn che annovera fra gli altri Connan Mockasin, Allah-Las e Jessica Pratt.
Il titolo – la “parrucca volante”- nasce la sera in cui Isabelle Albuquerque, artista multidisciplinare e amica di Devendra, gli regala una parrucca che resta su un’asta del microfono in mezzo al suo salotto per diversi mesi. L’immaginazione fa il resto, Devendra inizia a fantasticare su questa parrucca che esce di notte per incontrare altre parrucche e girare libera in città.

Un’immagine giocosa che nella sua mente diventa un simbolo di libertà. E di libertà ce n’è molta in questo album che, in soli quarantotto minuti idi durata, esprime attraverso dieci pezzi che lo compongono tutta la voglia di sperimentare, di prendere le distanze dal buio e di cercare un amuleto contro la tristezza.

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Testimone della sperimentazione è Sight Seer, in cui Devendra canta “I’m singing no longer for fun / but as a form of protection” (“Non canto più soltanto per divertimento, ma per una forma di protezione”), una presa di posizione che diventa il manifesto della sua metamorfosi. Ad ascoltarlo ci si ritrova immersi in universo che oscilla tra il dream pop con tocchi leggeri di ambient fino all’elettronica più eterea di Sirens in cui si fugge lontano dai posti in cui si vive e si finisce a restare soli in compagnia di sirene (“Only the sirens / are here with me tonight”).

Un surrealismo intimista, quello della title-track, che ci fa ballare nudi, da soli, su un occhio senza testa (“I’m alone, dancing naked / on an eye without a head”) quando in realtà si ha soltanto paura di chiedere un abbraccio (“hold me close, is all I wanted to say”). Un album in cui, come Devendra stesso ammette, ha voluto tirare fuori l’aspetto emotivo del synth, per celebrare un mood elettronico che suona caldo e scivola sulla pelle come il velluto, come una carezza.

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Prodotto in collaborazione con l’amica artista e polistrumentista Cate Le Bon, Flying Wig è stato interamente registrato nel Topanga Canyon, in uno studio ricavato in una baita circondata da sequoie e pini, in cui Neil Young scrisse After The Gold Rush nel 1970. Per l’occasione, durante le sessioni di registrazione Devendra si presenta con un abito da donna di Issey Miyake – ricevuto in regalo proprio dalla Le Bon – e con gli orecchini di perle appartenuti a sua nonna. Un vezzo che è arrivato dritto sulla foto di copertina, in cui il tessuto blu avvolge il suo corpo, lasciandone intravedere solo qualche parte.

Tutto questo non è un caso. Devendra racconta che all’età di nove anni ha iniziato a cantare proprio indossando un vestito di sua madre. Questo momento magico gli ha aperto un mondo e rivelato una potenza che passa attraverso il simbolo. Una connessione con la femminilità, che come una terapia, ha voluto riprendere per quest’album. Un rituale, come quelli descritti dalla Psicomagia di Jodorowsky, influenzato dal caldo sole della California e intervallato dalle sedute di meditazione.

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Il risultato è una calma che sa a tratti di malinconia come negli haiku giapponesi, ispirazione maggiore di quest’album. Devendra ha infatti voluto rendere omaggio ad un haiku di Kobayashi Issa, poeta, pittore e monaco buddista giapponese del XVIII secolo : “This dewdrop world / is a dewdrop world / and yet, and yet…” (“Questo mondo come goccia di rugiada / è forse una goccia di rugiada /eppure, eppure”). Per Devendra quello “yet and yet” è una lode della speranza, è la ricerca della gratitudine nel dolore, nel fallire e nel continuare ad amare.

Ed è proprio l’amore, cosi puro che è quasi ingenuo, a salvarci dal buio, proprio come in The Party che, lento e soffuso, chiude l’album. Perché si può trovare più amore (“more love”), ripetuto all’infinito come un’ossessione, anche in una fine: “I know that you don’t love me / I know that it’s true / But I know that you tried to / I know that you tried/ And that was more love than I ever knew”.

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Last modified: 22 Novembre 2023