Chi è passato, nel lontano 1972, dalle parti del prog italiano, senz’altro non avrà potuto non essere magicamente ammaliato dalla voce melodiosa e aliena – apparentemente stonata o fuori giro – del cantautore musicista napoletano Alan Sorrenti che con lo stupendo vessillo sonoro “Aria” inizia a volare nella musica “alternativa” che in quegli anni era aeroporto per centinaia di band e solisti che volevano “dire” in maniera non conforme la loro poetica ed i loro intimi canti.
Con dalla sua il violino jazzato di Jean Luc Ponty (Mahavishnu Orchestra, Zappa e Tony Esposito) ed altri musicisti, Sorrenti sperimenta e modula nuovi meccanismi melodiosi, altrettante partiture interpretative che mescolavano poetica psichedelica, mediterraneo soffuso e un cantos libero da dogmi e schermature, una timbrica personale che subito lo porta all’attenzione di addetti ai lavori e ad un pubblico che – proprio in quei frangenti – era sempre più innamorato intellettualmente da una certa cultura “assorbita” da idiomi sonori e dettagli tra oriente e terra nostra, praticamente una fusion antesignana dell’odierna world; lunghe suite, atmosfere volatili e suggestive sono la predominante di questo disco, quattro “pezzi” di non facile assunzione di primo ascolto, ma una volta rodato lo spirito introspettivo e illuminante, è come intraprendere un viaggio, un trip, che svezza categoricamente ogni indugio a forma di interrogativo.
Si potrebbe definire – con il pregio dell’unicità – pop-folk progressive o folklorico, una tipologia aerea di ambient vissuto a ipnosi psichedelica che si espande per tutta la durata della tracklist; testi onirici e d’amore contorto ma dolce, sono la tramatura lirica che va a trasformarsi in canzoni che hanno passato indenni quasi trent’anni di musica come la lunga suite di “Aria”, l’inno melodioso che fa da traino a tutto il lotto e hit indimenticabile “Vorrei incontrarti”, il mantra trasversale tra un tripudio di mellotron, flauti, basso che ricorda molto da vicino le atmosfere dei Van Der Graaf Generator “La mia mente” e il finale lunare dove l’ancia di Andrè Lajdi ricama in maniera stupefacente “Un fiume tranquillo” degna chiusura di un sogno sonoro che Sorrenti – l’anno dopo – riproverà a replicare in “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto” ma che purtroppo ne uscì come un’anatra zoppa dopodiché l’artista partenopeo si perse in strade di seconda, sempre più rivolte ad un pop commerciale fino a scomparire del tutto dalla scena.
Una pietra miliare del progressive “fiabesco” italiano e di quella immensa Napoli che guardava alla musica come modalità per esternare l’anima di un popolo con l’arte al posto del sangue.
Last modified: 3 Settembre 2012
Andrè Lajdi suona la tromba e soffia in un bocchino non in un’ancia.