I Van Deer Graaf Generator si sono oramai sciolti e l’anima guida della formazione inglese, Peter Hammill, arriva al suo terzo e formidabile album solista, “The silent corner and the empty stage”, apice sonoro che chiude la tripletta dorata iniziata con “Fool’s mate” del ’71 e “Chameleon in the shadow of the night” del ’73, album in cui – nonostante la scissione di gruppo – il resto dei VDGG continua a suonarci dentro, come a non lasciare da solo il capitano di quella astronave progressive che li aveva portati ad esplorare l’inesplorabile nei meandri di quelle decadi frastornatamente psichedelici.
Infatti Jackson, Banton, Evans e – come ospite – Randy California degli Spirit sono presenti in tutte le partiture di questo album inbastito da Hammill, ne scandiscono tutti gli sprint, le decelerazioni, le curve melodiche ed i deliri “astronomici” fino a disegnarne le fasi ellittiche e convesse di un nuovo trip di inestimabile valore; sette “parti sceniche”che si sbattono, si agitano e vanno a colmare grandi lucentezze liriche dove il progressive, quello di matrice drammaturgo psich, si inalbera e dilata in momento sonori di alto pathos poetico, quel fool thing in cui l’eroe Hammill ci si ritrova alla grande, quasi posseduto da uno sciamanesimo di grazia e ribellione.
Strofe, frasi, andamento incalzanti e declivi amorevoli di psichedelica ben costruita sono i panneggi adulterati che la tracklist conserva e sparge durante l’ascolto, niente nostalgie per i VDGG, piuttosto la propensione a superare i limiti – se limiti si possono chiamare – delle direttrici disegnate dalla sua band e, se proprio il superamento di queste ultime crediamo non sia il caso di starle a stigmatizzare, rimaniamo ben protetti da una prova discografica – differente – ma di livello divino, oltre la libertà delle proprie forze mentali e creative; lavoro molto definito, tonico nelle esposizioni sognanti, drammaticità e immensi respiri tra pianoforti, flauti, classicità e improvvisazione free si dilaniano una per una su di un ascolto frenetico e sbalorditivo, la fonetica stizzita “Modern”, l’intimità cosmica di “The Lie (Bernini’s Saint Theresa)” , il progressive centrato come un amore infinito “Forkasen Gardens”, la ballata acustica folkly “Rubicon” e la potenza sobillatrice del rumorismo “The lie”, quando a fine ascolto rimane nell’aria un senso di beatitudine d’altri tempi che non vuole sparire per un bel po dal giorno rimasto.
Un sesto acuto indispensabile per le architetture Prog del tempo, un incunabolo discografico da collezionare per chi ama le cose semplicemente infinite.
Last modified: 23 Luglio 2012