No, sicuramente la cosa non poteva funzionare, ed infatti non funzionò come doveva. In quel 1975 dopo aver calcato i palchi sotto il nome di Jonny Six, questi quattro giovinastri scavezzacollo Jean Jacques Burnel, Jet Black, Hugh Cornwell e Dave Greenfield vogliono e decidono finalmente di chiamarsi The Stranglers, vanno fortuitamente in tour con una giovane Patti Smith, incidono tre dischi che tra alti e bassi, “Rattus Norvegicus” tra tutti, apparizioni sporadiche nelle hit-charts inglesi e fallimenti modaioli non li esportano alla grande ribalta, fintanto che un giorno tagliano corto col musicarello punk bagnato dalle allucinazioni tastieristiche dei Doors ed imbracciano un percorso sperimentale fatto di elettronica, colorazioni oscure della new vave sempre pixellata di punk e la schizofrenia attitudinale degli anni sessanta; era il 1979 e nacque un piccolo capolavoro che la storia tramanda come un alfabeto basilare, “The Raven”.
Un disco nero come la fuliggine, carico di quelle tensioni atmosferiche che segneranno per sempre la loro pur corta carriera, freddo il giusto per restare sulle coordinate – se non addirittura le barricate – della metamorfosi che l’aria inglese di quei tempi, del No Future tirava a manetta; dolcemente “tetro” come fu definito all’epoca, e cosi suona ascolto dopo ascolto pure oggi, un carico sensoriale che arriva da ogni direzione lo si ascolti, una continua stimolazione per testa e cervello che mantiene integra la sua missione, quella di de-potenziare e distorcere gli standard consueti della “bella musica” intesa come pulizia snob.
La new-vave d’Oltremanica è in subbuglio, il punk non accenna a diminuire la sua ribellione ed il romanticismo inizia a prendere piede in un contrasto cromatico fuori dall’ordinario, e questo disco si impone all’attenzione delle masse come un linea d’orizzonte rimarcante, dove fare affidamento tra il prima ed il dopo di questa rivoluzione musicale; tracce che si fissano nella mente per le infinite soluzione “below zero” come in “Ice”, “Baroque bordello”, dentro le cattedrali di sintetizzatori “Dead loss angeles”, l’elettronica spiazzante che si fa noir, horror meglio dire, dentro la concupiscenza di “Meninblack” e la trasparenza in plexiglass che in “Shah saha a go go” accenna ad una dance sincopata aliena attraversata da correnti “tedesche”; poi, a distanza di poco tempo gli Stranglers – questi strangolatori del tempo che fu – furono inghiottiti nel nulla, forse in quel drammatico No Future che nonostante tutto – o niente – segnò le stimmate di un’epoca di gloria irsuta e lacrime dark.
Pietra miliare ben oltre il tempo.
Last modified: 28 Maggio 2012