Un cantautorato che sa mischiare sostanza e semplicità, passato e presente.
L’ultimo di Dimartino ha il sapore di un cantautorato che sa mischiare sostanza e semplicità, passato e presente (forse non futuro, va bene, ma già il presente basta e avanza).
Un Paese Ci Vuole è un disco che è bello da ascoltare, un disco che può essere la colonna sonora di una o più vite: camaleontico ma con una coerenza di fondo, si adatta alle esistenze di tanti, o così mi pare. Si parla di gente che se ne va, che torna, che gira come trottola impazzita, che si domanda e spesso non si risponde, che ha fame, ha sete, e mangia terre e mari alla ricerca di qualche cosa di sconosciuto, o forse di qualcos’altro che conosce benissimo, ma non lo sa.
Il pianoforte sta vicino al centro, con un approccio molto cantautorale, classico, ma che ci posso fare, a me piace. Bello l’inizio con quell’arpeggio di pianoforte azzeccatissimo e le immagini sognanti ed evocative (“Come una Guerra la Primavera”), belle le atmosfere sospese che raccontano di viaggi, di migrazioni, di andate e ritorni (la doppietta “Niente da Dichiarare” e “La Vita Nuova”), bello l’intermezzo ritmico e muto (“La Foresta”), bella questa visione del Sud tra la favola e l’esistente (“Una Storia del Mare”, con Francesco Bianconi, o “L’Isola che c’è”), bello il saluto finale con Cristina Donà (“I Calendari”).
Dimartino parla di tutto partendo da ciò che appare come niente, che poi invece si mostra per quello che è: importante come l’aria, invisibile ma ubiquo, e soprattutto, necessario.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Cesare Pavese, da La Luna e i Falò).
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Last modified: 21 Marzo 2019