In occasione dell’uscita nel nuovo singolo, qualche domanda all’artista veneto.
(di Alessandro Pirrone)
La poliedricità consiste in una moltitudine di aspetti, attività e interessi. Non si tratta di una caratteristica comune a tutti ma Andrea Cavallaro, in arte Dodicianni, ne è l’esempio perfetto. Un creativo dalle molteplici sfaccettature: cantautore, pianista, compositore e artista. Nato nel 1989 in Veneto, si laurea al Conservatorio di Adria e nel 2017 conclude gli studi universitari in Storia e Tutela dei Beni Artistici e Musicali. Nel mondo artistico contemporaneo è conosciuto per performance spesso scioccanti e provocatorie. Tra le più note ricordiamo “No Frame Portrait”, da cui è derivato l’album omonimo di piano solo, e la più recente Il peso delle parole, dedicata alla sensibilizzazione sul tema dell’immigrazione.
Torna oggi a sorpresa sulle scene con il suo nuovo singolo Discoteche. No, non vi fate ingannare dal titolo, non si tratta di un pezzo dance, tutt’altro. Discoteche è la delicatezza fatta note e voce. Il brano, prodotto dallo stesso Dodicianni insieme a Edoardo “Dodi” Pellizzari e registrato in presa diretta con la band tutta nella stessa stanza, è una raffinata ballad in cui il pianoforte è il protagonista, supportato con efficacia da eteree chitarre, inserti di sax e una batteria pulsante pronta a sorprendere.
La canzone racconta di posti unici ma anche desolati, che comunque finisci per amare se ci nasci e che restano per sempre impressi. Sarà questo un nuovo punto di partenza per l’artista veneto e, vista la sua singolare carriera artistica e musicale, non possiamo che aspettarci qualcosa di sicuramente non banale.
In occasione dell’uscita abbiamo scambiato quattro chiacchiere per avere una visione più ampia e completa del percorso che lo ha portato fin qui.
“Un brano che parla di posti desolati dove una volta all’anno, e una volta soltanto, le persone si incontrano indossando il vestito migliore”. In questa frase racchiudi il significato di Discoteche. A quali posti ti riferisci?
Personalmente il ricordo va alla mia infanzia. Sono nato nella campagna veneta e lì le feste di paese erano tra le poche occasioni concrete di socialità, un momento che si aspettava a rispettava con religiosa sacralità. Discoteche è una metafora che racconta luoghi come questi e la speranza è che molti ascoltandola possano riconoscere i propri.
Questo brano è il primo tassello di un tuo nuovo progetto musicale? C’è qualcosa in cantiere?
Era molto tempo che non pubblicavo un nuovo singolo e devo dire che mi era davvero mancato. Nell’ultimo periodo ho avuto la fortuna di incontrare molte persone e realtà che hanno creduto in questo progetto, perciò mi sento di poter dire che sarà solo l’inizio di un percorso.
Trovo la copertina di Discoteche molto interessante, ma anche enigmatica. Puoi darci qualche dettaglio in più al riguardo?
Nella copertina credo ci sia tutto il pezzo. Non sono un autore che ama scrivere sui massimi sistemi, ma piuttosto su piccole cose, su aneddoti, e credo che in questo Theo Soyez sia stato bravo ad interpretare la malinconia che il brano voleva trasmettere. Oltre allo scatto in sé, credo che il suo metodo di lavoro sia stato determinante per la realizzazione della cover: l’irripetibilità di uno scatto fatto in analogico, la sua cura per i dettagli e la ricerca costante di un’estetica al servizio di un significato, e non il contrario.
La poliedricità è sicuramente un fattore positivo e vantaggioso che dà alla persona quel qualcosa in più. Hai mai trovato qualche difficoltà a gestire questa tua caratteristica nella quotidianità?
Tutt’altro! Per me la musica, le installazioni o le performance cono soltanto un mezzo comunicativo che sfrutto per poter raccontare di temi che mi stanno a cuore. Ed è vero, possono sembrare molto eterogenei e in effetti a volte finiscono per esserlo, ma ho una regola aurea che cerco di rispettare quasi sempre: portare a termine le cose, che si parli di musica, tele o vita.
Ripercorriamo il tuo passato: l’album No Frame Portrait è composto da 12 canzoni. Tutte, eccetto Mauro e Carla che ne contiene due, hanno per titolo un nome proprio di persona. Com’è nata questa idea? Cosa rappresentano per te quei nomi?
No Frame Portrait è stata una performance che ha occupato pienamente due anni della mia vita e che ricordo sempre con piacere. Ritraevo con il pianoforte degli sconosciuti che si presentavano nello spazio in cui risiedevo, realizzando delle piccole composizioni improvvisate al momento che in qualche modo restituissero le sensazioni che mi avevano trasmesso con il loro sguardo e la loro presenza fisica. Nessun contatto verbale o informazioni pregresse. Hic et nunc. La verità è che non saprei dirti molto su quei nomi, ricordo soprattutto l’incredulità da entrambe le parti su come fosse possibile creare un canale comunicativo così forte, facendosi guidare da una lingua comune: la musica.
Sei sempre stato molto attento alle questioni sociali. Ciò è dimostrato dalla tua performance Il peso delle parole e dall’esperienza di volontario in Emilia in aiuto dei terremotati attraverso la quale, è poi nato, Canzoni al buio. Cosa manca oggigiorno affinchè venga data la giusta attenzione a queste tematiche e non ci si soffermi solo per luoghi comuni o attraverso soluzioni semplici e frasi riduzionistiche a problemi che in realtà sono complessi?
Credo manchi a volte la volontà da parte di chi si occupa di arte o musica di esporsi e prendersi magari dei rischi. Ho particolarmente apprezzato artisti come Francesca Michielin, che nonostante un pubblico ampio e generalista e tutto da perdere, si sia esposta su tematiche molto delicate come i migranti, o ancora Motta che, attraverso le sue canzoni e i suoi canali social, non manca mai di mettere bene in chiaro che chi ha un pensiero retrogrado e non contestualizzato al presente possa tranquillamente fare a meno di ascoltare la sua musica. È di artisti così, a mio modestissimo parere, che abbiamo bisogno.
Ci sono 5 anni di distanza tra il tuo ultimo album e questo nuovo pezzo. Cosa è cambiato per te in questo periodo?
In verità sono cambiate molte cose nella mia vita che hanno rimescolato le carte. Nel silenzio le storie faticano a nascere e questi cambiamenti insieme a viaggi, nuovi panorami e nuove persone incontrate sono stati i veri stimoli.
Avevi pensato di smettere con la musica?
Come ti dicevo cerco di non fare troppa distinzione tra un medium e l’altro, tant’è che, com’è stato per No Frame Portrait, ho spesso cercato di integrare la musica nelle mie performance, li trovo due mondi compatibili. Discorso diverso per quanto riguarda il mondo della discografia, non nascondo che per un certo periodo ho cercato di stare lontano da certe dinamiche; ora è passato molto tempo e credo di avere una diversa e più centrata consapevolezza.
La chitarra gioca un ruolo fondamentale nei tuoi album precedenti, il pianoforte in No Frame Portrait. Quale sarà l’elemento centrale in Discoteche e nei tuoi progetti futuri?
Sicuramente il mio strumento di riferimento è il pianoforte, ma per questo lavoro abbiamo cercato, con Edoardo “Dodi” Pellizzari che ne ha curato con me la produzione, di lavorare soprattutto su un’idea di suono. Il pezzo è stato registrato infatti live in presa diretta in una notte d’agosto nel suo studio che è in una villa nelle campagne venete, proprio per mantenere il feeling più dinamico, onesto e coerente possibile. L’obiettivo è che una volta indossate le cuffie e spenta la luce, una persona possa davvero respirare quelle feste e l’atmosfera malinconica e quasi occulta di quelle notti.
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Last modified: 13 Novembre 2020