Tomat Petrella – Kepler
[ 28.09.2018 | !K7 Records | IDM, Ambient Techno, Avant-garde ] di Maria Pia Diodati
Musica dell’altro mondo: l’ossessione ambiziosa per Davide Tomat sembra essere sempre la stessa, che si tratti del percorso artistico dei suoi Niagara o degli esiti di un sodalizio inedito. I risultati del suo primo lavoro in studio insieme Gianluca Petrella – tra i trombonisti jazz più eclettici e talentuosi del panorama mondiale – sono otto tracce che portano i nomi di altrettanti corpi extrasolari, una suggestione che dilata ulteriormente le sfere sensoriali coinvolte nell’approccio a questo Kepler, che esce per !K7 Records dopo la liason artistica tra Petrella e il producer torinese iniziata quasi per caso e consumatasi tra le mura insonorizzate del Superbudda. La distanza che intercorre tra i due, in fatto di background e di approccio, è la chiave per la riuscita dell’esperimento: la meticolosità di Tomat nel costruire le dinamiche si lascia sedurre dalle tentazioni dell’improvvisazione, l’estro di Petrella penetra nelle sue trame sintetiche. L’equilibrio è raggiunto con un dosaggio sapiente, evitando di percorrere il sentiero più battuto quando si incontrano elettronica e jazz – quello dell’abuso delle linee melodiche dei fiati, qui mai eccessivamente protagonisti e al contempo imprescindibili nel dettare la sorte delle composizioni. Un viaggio itinerante tra esopianeti fatti di scenari sonori ostici e raffinati, sublimi nell’accezione prettamente romantica del termine.
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The Whip Hand – Sometimes, We Are
[ 12.10.2018 | MiaCameretta/Lady Sometimes | Indie Pop, Dream Pop, Jangle Pop ]
di Claudia Viggiano
L’ascolto di Sometimes, We Are si apre su panorami californiani, su lunghi viaggi in macchina su strade costeggiate da sole e alberi; l’immaginario è quello del jangle pop, ma gli scenari dei Whip Hand sono quelli pugliesi, dove simili idee attraccano in simili porti. La band di Trani, con un album e due EP alle spalle, si allontana dalle atmosfere post punk dei lavori precedenti e si immerge in un sound fatto degli intrecci di chitarre che ben si posizionano nel catalogo di Lady Sometimes (Black Tail, Grimm Grimm). Le influenze sono palesate da subito ed indossate con orgoglio: dall’indie pop dei Real Estate e dei Beach Fossils al dream pop di band come Beach House, DIIV o Wild Nothing, com’è chiaro dai brani iniziali del disco e soprattutto nel singolo “Already Gone”, mentre il cuore del disco riserva sorprese interessanti – dalle distorsioni strumentali di “Compromises” alla parentesi dark wave memore dei vecchi lavori di “I’ll Never Be (But)”. E sebbene pecchi di poca originalità in qualche punto, è anche vero che Sometimes, We Are rimane un disco coerente, ben suonato e decisamente più che piacevole all’ascolto prolungato, quello dei pomeriggi in cui le ore che si sciolgono le une nelle altre mentre il mondo fuori continua a girare.
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The Rambo – The Past Devours Everything
[ 15.10.2018 | Dischi Bervisti | Noise Blues, Experimental Rock ]
di Silvio “Don” Pizzica
Che I The Rambo sappiano esattamente come farti venire un’overdose d’adrenalina si capisce già dal primo secondo di questo The Past Devours Everything (se non l’avete già ascoltato in anteprima su Rockambula, schiacciate play e recuperate, almeno capiamo di che sto parlando). Su questo deve puntare e punta il duo: farti incazzare e venire un ghigno diabolico in volto e ci riescono benissimo. Nati nel 2013 dalla voce e chitarra di Marsale e la batteria di Bang, diventano presto un trio, con l’ingresso di Al-Funk a synth e ‘rumore’, che incide il primo lavoro chiamato giustamente First Blood. L’ingresso di Mr. Leper alla tromba ne arricchisce il suono ma non passerà troppo tempo prima che i The Rambo tornino alle origini di coppia. In duo, Marsala e Bang utilizzano campionamenti anche in chiave live per non perdere quel suono volutamente sgradevole ma sarà con l’ingresso della seconda chitarra di Capa che si giungerà al terzo disco, questo The Past Devours Everything, registrato in collaborazione con un certo Nicola Manzan (Bologna Violenta). Dare una definizione precisa di un disco come questo non è semplice; agitato, lugubre, delirante, psicolabile, caustico. Punk grezzissimo che neanche negli scantinati alla periferia di Londra qualche decennio fa, blues strafatto stile Captain Beefheart, no wave senza speranza, noise che cazzo smettila mi sanguinano le orecchie, hardcore senza cappellini, scarpe firmate e Instagram, country yankee che di quella roba targata XXX ne hai bevuta troppa e psichedelia che forse stavolta abbiamo esagerato con le leccatine. Eh sì, cazzo: la musica italiana fa schifo, vero? Magari NO se la smetti di ascoltare LA MERDA! Scusate lo sfogo.
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Lachlan Denton – Two Months in Ben Woolley’s Room
[ 21.09.2018 | Bobo Integral | Folk Rock ] di Maria Pia Diodati
Letteralmente bedroom folk: giunto al capolinea di una lunga relazione sentimentale, Lachlan Denton si rifugia nell’appartamento del suo amico e musicista Ben Woolley, che nel frattempo è in tour. In un insolito stato di grazia post-rottura e nella solitudine della stanza di Ben (proprio quella che compare sulla copertina di Two Months in Ben Woolley’s Room) il cantautore australiano partorisce il suo primo album da solista. Il disco esce per una piccola etichetta spagnola (la Bobo Integral) a pochi mesi di distanza dall’ultimo lavoro scritto a quattro mani con Emma Russack e a ridosso del ritorno dei suoi prolifici The Ocean Party, e a starlo a sentire appare chiaro che il ritagliarsi un momento tutto per sé per Denton è stata una necessità piuttosto che un vezzo. Introspezione e love songs, sì, ma senza angosce o autocommiserazione: dieci tracce attraverso cui il songwriter riordina la propria sfera emotiva e fiduciosamente volta pagina. Gli ingredienti essenziali sono inevitabilmente chitarra e voce, combinati con autenticità e con piglio vagamente psych: un’incursione di Devendra Banhart nei The Go-Betweens, ai quali il disco deve molto (ma con una delicata cover di “Boundary Rider” Denton salda il debito con i celebri connazionali). Adorabile.
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PinioL – Bran Coucou
[ 27.04.2018 | Dur et Doux | Experimental Rock ]
di Silvio “Don” Pizzica
Nonostante la provenienza geografica, la musica dei transalpini è lontana da quella che siamo abituati ad associare alle loro terre d’origine. Dalla fusione tra le band Poil e Ni viene al mondo una formazione diretta, poco attenta ai fronzoli che girano intorno all’essenza vera, alla musica; i PinioL propongono una formula complessa che unisce jazz, noise, math ed experimental rock eppure i loro brani sono tutt’altro che complicati all’ascolto, sempre che non siate abituati a non andare oltre le banalità del Pop nostrano. Se il suono vi sembrerà effettivamente molto variegato, considerate che la compagine è composta di sette elementi, con sei pronti a buttare la propria voce in modo tutt’altro che consono dentro lo scenografico pasticcio sonico dei sette brani. Sul palco, i PinioL si disgiungono in due, da un lato un trio basso, chitarra e batteria e uno identico dall’altro con la tastiera al centro a fare da legante. Un disco in ogni caso invitante nonostante il suono non eccessivamente originale; divertente, potente, enfatico e tecnico. Una squisitezza di pietra che in ogni scheggia rinnova la sua forza e che nasconde tesori in ogni crepa delle note.
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Ropsten – Eerie
[ 23.02.2018 | Seahorse Recordings | Psych Rock ]
di Silvio “Don” Pizzica
È un disco incantevole, questo targato Ropsten, uno di quelli che saltuariamente ci capitano tra le mani specie se realizzati nella nostra penisola. Un sound luminoso ma non accecante e non povero di salubre oscurità come lo è un cielo stellato. Un album che mescola, senza parossismi dio sorta, kraut rock, elettronica e psych rock con divagazioni apparentemente incoerenti come nella seconda parte di “Grandma’s Computer Games” e quasi danzerecce quando la sezione ritmica pare traboccare in drum’n’bass o ancora folk, quando la chitarra decide di fare per conto proprio. Per loro stessa delucidazione, Eerie è un viaggio nei luoghi nascosti della mente, dove si fa fatica a discernere tra macchina e uomo. Di là da queste forzature pseudo artistiche, è un disco congegnato con cura, nei suoni e nelle pause, nei cambi di ritmo e nei crescendo. Un album carico di potenzialità che ha il solo grande deficit di dare l’idea di frenare quando potrebbe andare davvero oltre, finendo per difettare di potenza ed incisività. Non ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo i Ropsten, dunque è solo sul disco che si basa la mia constatazione e qui c’è davvero materia su cui adoperarsi per arrivare a qualcosa di valido e sopra la media. Se proprio vogliono entrarci nella mente, che non abbiano paura di aprircela in due.
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Truemantic – s/t
[ 16.03.2018 | Seahorse Recordings | Synth Pop ]
di Silvio “Don” Pizzica
È ovvio che scrivere, arrangiare, produrre e mixare un disco in solitaria dentro la propria stanza mette di fronte ad un rischio considerevole ma quello che cerchiamo di capire noi che ascoltiamo opere di artisti non ancora arrivati dove vorrebbero, è se davvero ci siano i presupposti per atterrare lontano. Il caso di Toto Ronzulli, in arte Truemantic, è un episodio certamente particolare. La sua Elettronica pare volutamente datata e glitch pop / lo-fi, con suoni che speravi di non dover più sentire se non alla cresima di tuo cugino ma alternati a trovate geniali, con riecheggiamenti synth pop e new wave e reiterazioni oscure che sembrano volerti condurre in un viaggio illusorio. Una serie di elementi intriganti, nel bene e nel male, che uniti a un’estetica quasi vaporwave e un’atmosfera che richiama alla mente “San Junipero” della meravigliosa serie “Black Mirror”, ne fanno un disco che non si può ascoltare una sola volta. Nonostante l’eccessiva essenzialità (molti di voi ascoltando con superficialità potrebbero pensare banalmente questa è roba che potrei fare anch’io e anche meglio) Truemantic non lascia indifferenti e questo, a oggi, è già qualcosa che mi fa ben sperare.
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Nereide – s/t
[ 04.05.2018 | Karma Conspiracy Records | Post Metal ]
di Silvio “Don” Pizzica
Nato come one man band, il progetto Nereide si trasforma circa due anni fa in vera e propria band consacrata a catapultare il progressive anni Settanta nella modernità del post metal. Il trio capeggiato da Roberto Spels non riesce tuttavia nel proprio intento, non tanto nella forma che pur altro non eccita com’è più vicina a un post rock poverissimo d’idee, quanto nella sostanza, con le quattro tracce oltretutto realizzate in contatto e ascolto con la natura ma che da questa non mostrano troppa ispirazione. Anche le parti cantate deludono a ogni nota e alcuni brani appesantiscono l’ascolto in maniera molesta (“The Wave”). Si tratta solo di un EP, troppo poco perché giunga a epiloghi sull’avvenire dei Nereide, ma di certo c’è da fare molto di più per non sparire: questa musica, così genuina per certi versi, è fatta con più ispirazione e convinzione da troppe altre band perché basti tanto poco per venire a galla.
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Last modified: 18 Febbraio 2019