Si salvi chi può. Il titolo di questo freschissimo album dei Foxhound, born in Torino, è talmente attuale da essere spaventosamente ruffiano. Titolo spavaldo, gradasso, se contestualizzato ad un’ambientazione pressoché dance, spensierata ed immeditatissima. Quella dei pantaloni a tubo, dei locali nei Murazzi del Po, degli occhiali da vista enormi da pagliaccio, degli aperitivi a Negroni il sabato sera. Non c’è retorica, non c’è polemica, solo tanta buona musica pop. E il titolo rimbomba ancora di più.
La band, nonostante la giovanissima età (sono del 1992 e nel 1992 io collezionavo gli album di figurine Panini da qualche campionato), è già un caposaldo dell’underground sabaudo e dalla vittoria nel 2010 di Pagella Rock per loro è partita una rapidissima scalata verso la punta dell’iceberg. Qui però di iceberg non si vuole parlare, quella era un’altra storia, ben lontana dalle nostre acque e dai nostri tempi. “Concordia” è un disco italiano, ma che puzza tremendamente di umidità post-punk londinese, di controcultura chic berlinese ed è fico come se fosse australiano.
Il sound di “Concordia” è diretto, forsennato e frenetico come il più pazzo sabato sera di festa che non vuole tramontare all’alba di domenica. Veloce come due mojto scolati alla goccia, come i piedi sudatissimi in una pista da ballo lercia di rum per terra, come un limone duro con una studentessa repressa di architettura. Curato nei minimi dettagli da una produzione maestosamente underground: mai troppo pompato o chitarroso, per non scivolare nel clone; insomma quel pelo di distanza che basta per non essere gli Artic Monkeys (li ricordano tantissimo però, più nell’attitudine che nel sound). E poi, piazzato come optional della nave, c’è un mixaggio di alta scuola, il meglio sulla scena: Tommaso Colliva, per altro reduce dalla direzione del capolavoro “Padania” degli Afterhours.
Dall’inizio alla fine “Concordia” è un razzo e i quattro pischelli riescono a governarlo alla grande, trasformando innocenza e spensieratezza nelle loro migliori virtù. Possono permettersi pezzi come “Movin’ Back” e “Bounce”: puro divertimento, stramaledettamente alla moda. Possono permettersi il beat diretto di “Feelings hold on”, che mischia la robotica e insistente ritmica con una melodia che pare saccheggiata a piene mani da Sergio Pizzorno, mentre i suoi Kasabian stanno a guardare a bocca aperta. Possono permettersi il finale svarionante di “I beat the bitch and her bats”, piccola gemma appiccicaticcia, la canzona che non vorresti ascoltare ma che senti tua nell’hang over della domenica mattina.
Un disco così in Italia non era assolutamente necessario, anzi direi che è quasi fine a se stesso, qui questo sound è cool solo se sradicato da band anglosassoni che se raccolgono più di 50 persone smettono di essere cool. Ma il bello è che questi ragazzi fanno ciò che vogliono: il suono è puro, mai sforzato dal vento di mercato. Pare che l’onda li trasporti con sé con incredibile naturalezza. Se in Italia non troveranno la giusta dimensione, speriamo in un loro espatrio e di vantare finalmente i “Lacuna Coil“ dell’elettro-pop. E allora via di sogni di rock’n’roll in club londinesi o addirittura nei fiumi di birra da festival internazionali.
Questa è la nave ed il suo tragitto. Foxhound stessi ci avvertono che però non sa ancora dove salpare, rifilandoci una sfilza di ciò che quest’album non è: non è rock’n’roll, non è inglese, non è dub. E va bene, in mare vale tutto, le regole non esistono, ma prima o poi ci dovrà essere un contatto “terreno”, e cosa capiterà in quel momento? E poi è così vero che in questo mare non si ha rispetto per niente? E’ vero che non ci si guarda intorno e il futuro non spaventa? Forse no, non è vero e forse suona tutto troppo arrogante per l’entusiasmo di essere così sulla cresta dell’onda (l’immagine di onda underground mi sballotta un po’…). Prima di beccarvi uno scoglio e rovinare tutto forse conviene approdare e scendere un pelino a compromessi, che dai cari Foxhound con quelle facce li siete sicuramente bravi a farlo.
Last modified: 25 Maggio 2012
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