L’angoscia suburbana tipica del Midwest rurale è il terreno di coltura di un album potente, viscerale e liberatorio.
[ 29.03.2024 | Deathwish | screamo, post-hardcore, blackgaze ]
Stephen Markley descriveva l’immaginaria New Canaan in Ohio come un microcosmo periferico simbolo dell’angoscia suburbana. Il Midwest rurale, nel mezzo della corn belt degli Stati Uniti più operai, con le sue cittadine abbandonate in lento decadimento, le insegne ingiallite e i negozi incrostati dalle ruggine, ha un suo magnetismo distorto.
Per parlarvi dei Frail Body la collocazione geografica ci aiuta, anche perché loro stessi la imprimono spesso e volentieri orgogliosi sulle magliette: Rockford, Illinois. Una città di oltre 140.000 abitanti, poco distante, per gli standard americani, da Chicago, non così lontana dal Wisconsin.
La Screw Capital of the World, un nomignolo nato negli anni ’40, ben simboleggia l’industria manifatturiera e meccanica che contraddistingue tante città di questa area degli Stati Uniti; intrisa di situazioni economiche e sociali difficili, dove si combattono una miriade di tempeste avverse. Luoghi che vivono di up&down tremendi, tra recessioni drammatiche e risalite faticose, ma coraggiose. Una turbolenza d’animo che rigurgita dai freddi inverni band come i Frail Body: un terzetto che con l’onda d’urto di un violento elettroshock si ripresenta in questa primavera con Artificial Bouquet, inciso per la Deathwish di Jacob Bannon (che ha curato pure l’art direction), ben cinque anni dopo il validissimo debutto A Brief Memoriam.
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Lowell Shaffer (voce e chitarra), Nic Kuczynski (basso) e Nicholas Clemenson (batteria) hanno tutta l’intenzione di recuperare gli anni persi con la pandemia e anche di raccogliere una sorta di eredità di quell’affilato disagio Midwest tanto caro a gruppi hardcore come Modern Life Is War, che dall’Iowa buttavano fuori crudeli prese di coscienza già un ventennio fa.
Le coordinate sonore dei Frail Body però si sposano con la nuova rinascita delle vecchie sonorità screamo. Non a caso stiamo vivendo gli anni delle reunion di gruppi leggendari come Saetia, pg.99, City of Caterpillar e, non ultimi, Orchid, mentre la scena underground sembra proporre di continuo nomi capaci di proiettare nella modernità le radici più profonde del genere.
Nei suoi 40 minuti (una durata considerevole visto il genere), Artificial Bouquet mette l’asticella piuttosto in alto, sfumando con intelligenza in soluzioni quasi black metal e con una massiccia dose di post-hardcore a irrobustire le polverose e malinconiche melodie.
Si rimane subito storditi dalle bordate di Scaffolding e Berth, che si pongono come soglia d’ingresso alla straziante epopea urlata di Shaffer. Un’urgenza inarrestabile, un monito per esorcizzare fratture interiori che, forse, non si allevieranno mai: “Searching through all the tapestries, and the compositions for faux reprieve, another blank face, I am nothing more than just sweet rain.”
E in questa scrittura asciutta, ma poetica e intima, a far decisamente colpo è sicuramente la bravura ritmica dei Frail Body. Critique Programme è il primo, grande esempio, in una tracklist che con Devotion, No Resolution e Runaway andrà a toccare i suoi vertici compositivi: nello screamo, saper rallentare, variare e tenere sotto controllo il caos più cieco è un’arte, anche di quelle piuttosto rischiose, ma il nostro trio non teme nulla. Il dosaggio è equamente diviso tra squarci atmosferici, mai prolissi, e terremoti assordanti.
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Una tensione frastornante che si nutre di energia, schizza da un estremo all’altro, con delle pulsioni nichiliste. “Where was god, when you needed him the most, where was god why’d he call you back to your post”, quando le parole di Lowell toccano tragedie personali, come la perdita della madre.
Che sia un crescendo dissonante, un parlato sussurrato o un lontano pianoforte a impreziosire il tutto, il dolore dei Frail Body penetra dentro una pesantissima pressione esistenziale bruciando sulle cicatrici più fragili e franando sulla semplice volontà di vivere una serenità sotterrata nei ricordi più offuscati: “Wrap me in your warm embrace, love me just the same”.
Non c’è nulla di radicale nei Frail Body, ma un’evoluzione coerente del genere che viaggia senza intralci su dei binari roventi per intensità e emotività: in fondo i due pilastri fondamentali dello screamo. Quando arriviamo sulle sponde di A Capsule in the Sediment veniamo spazzati via dai feedback, travolti anche dal lavoro in cabina di regia di Pete Grossmann e Jack Shirley. Alla fine abbiamo provato a respirare dentro l’occhio del ciclone, cercando di scacciare il torpore (“we dance around the droning silence to a monotone beat”) che, proprio in quel Midwest citato in apertura, ha intrappolato fin troppe vite e rimpianti.
L’aura emanata da Artificial Bouquet è di quelle importanti e possiamo essere certi che a fine anno il suo nome risalterà fuori in tante classifiche di genere. Noi per ora ne abbracciamo il suo significato liberatorio, che poi è la ragion ultima per cui siamo e saremo sempre in prima fila a sudare e urlare insieme a band come i Frail Body, alla ricerca di una connessione umana che solo certe distorsioni sanno regalare.
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Last modified: 30 Aprile 2024