Onestamente la lunga coda per Glen Hansard in un freddissimo 20 febbraio milanese, non me l’aspettavo proprio. E invece in molti si sono presentati più che puntuali, in tempo per vedere anche l’opener, Lisa Hannigan. E qui la seconda sorpresa. Perché la Hannigan è fondamentalmente la talentuosa corista di Damien Rice che ha intrapreso una carriera da cantautrice e non ci si aspetta certo che il pubblico sia lì anche per lei. Non fraintendetemi, la Hannigan è bravissima, con il suo uso della voce a cavallo tra Emiliana Torrini e Julia Stone, un personaggio delicato che al tempo stesso trasmette determinazione, capace di stare sul palco da sola e incantare solo con le sue melodie e un ukulele. Ma mi aspettavo il solito semivuoto sotto il palco e una platea caciarona in attesa dell’headliner. E invece tutto il pubblico era già piazzato, col naso all’insù, in un silenzio attentissimo interrotto solo da qualche “Brava Lisa” e dal brusio di qualcuno che cantava Little Bird o Passenger.
Hansard si presenta sul palco con dieci strumentisti: basso, chitarra, batteria e uno dei violini sono i componenti dei The Frames, a cui si devono aggiungere trombone e sax, tastiere, altri due violini e un violoncello. Il concerto si apre con You will become a cui seguono Maybe not tonight e Talking with the wolves, tutt’e tre -per altro in quest’ordine- presenti nell’ultimo disco Rhythm and Repose: in un attimo l’atmosfera si fa intima e famigliare. Hansard ama raccontare aneddoti e parlare di se stesso, così intervalla i brani con la storia della gita al faro finita male o con la sua personale opinione della generazione X-factor (“Voler diventare celebri per la celebrità in sé è roba da fottuti ignoranti!”). La gente gli urla “Bravo” e “Grazie” e lui risponde “Grazie” e “Grazie” in un siparietto ilare che andrà avanti per tutto il concerto, quando finalmente Glen avrà imparato a dire “Prego”. L’irlandese è una cantautore serio ma che non veste i panni dell’intellettuale, è un frontman con un grande carisma ma anche molta modestia: il palco è gestito con professionalità, ma anche con leggerezza e disimpegno, con la consapevolezza implicita che uno show debba prima di tutto intrattenere, anche e soprattutto per catturare l’attenzione del pubblico e far passare meglio i propri messaggi. La scaletta prosegue con alcune sorprese: Love don’t leave me waiting finisce con una citazione improvvisata di Respect di Aretha Franklin, vengono eseguite alcune cover de The Swell Season, il progetto di Hansard con la pianista e cantante Marketa Irglovà, fra cui spicca la dolce In these arms, ma è l’accenno in palm muting di Wishlist dei Pearl Jam che scalda la platea: è una richiesta, il cantautore si lamenta anche perché non riesce a leggere testo e accordi per colpa del luciaio del Limelight che gli ha cambiato le luci (e ironizza: “Gli avevo detto di non farlo e lui l’ha fatto lo stesso! Che poi questo posto è una discoteca, avrà sì e no cinque colori…”). Fedele all’originale ed eseguita con molta delicatezza con il solo accompagnamento della chitarra, il brano richiama i musicisti sul palco per Fitzcarraldo, Santa Maria e Song of good hope, un momento serissimo in una serata leggera e divertente: la canzone viene dedicata a un amico malato di cancro che dopo anni di inutili cure si è messo in giro per il mondo a vivere il tempo che gli resta.
È l’encore, però, il vero apice di una serata piacevole e piena di sorprese: Hansard torna sul palco con la sua sola acustica (tra l’altro con la tavola armonica bucata – il ragazzo pesta come un dannato e credo si diverta anche a non usare i battipenna) e canta Say it to me now, senza microfono e senza amplificazione. Il pubblico si stringe sotto il palco, tutti fanno silenzio e ascoltano incantati. Con la Hannigan, poi, intona O sleep (brano composto dalla ragazza) e Falling Slowly dei The swell season. I musicisti tornano sul palco e c’è un momento veramente grottesco: un ragazzino dal pubblico aveva richiesto un brano dei Nirvana, perché il 20 febbraio sarebbe stato il compleanno di Cobain. Hansard lo accontenta, ma a condizione che salga sul palco per cantare. Il ragazzino è tutto imbarazzato, non sa che dire. La band attacca Breed e lui sta lì, microfono in mano, ad ammettere di non sapere le parole, poi prende coraggio e si limita a saltare e a fare le corna, secondo il migliore stereotipo. I musicisti sul palco sono divertitissimi (e per altro fanno una versione davvero bella del brano, energica e raffinata al tempo stesso), il pubblico anche. Con una splendida e caldissima This Gift (dal vivo davvero molto molto più potente che da disco – c’erano schegge di bacchette di Hopkins ovunque) finisce il concerto. Hansard e soci decidono di congedarsi dal pubblico in un modo meraviglioso: abbandonano tutti l’amplificazione, si dispongono sul palco come una compagnia teatrale per i saluti e gli inchini e intonano Passin’ through di Leonard Cohen: danno istruzioni agli spettatori sulle parole da cantare e scendono in mezzo a noi come una marchin’ band. Si fermano un po’ in mezzo alla platea e poi, continuando a suonare e cantare, salgono la scala che porta su una balconata di fronte al palco.
Davvero meraviglioso!
Damien Rice Glen Hansard Leonard Cohen Lisa Hannigan Marialuisa Ferraro
Last modified: 25 Febbraio 2013
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