GNOD – Spot Land

Written by Recensioni

A gran sorpresa, il ritorno dell’acclamato collettivo è un morbido blend di ipnotiche suggestioni ed estatico misticismo.
[ 31.05.2024 | Rocket Recordings | experimental rock, space rock, psychedelic rock ]

Ormai lo sappiamo: è difficilissimo, oserei dire impossibile, capire cosa aspettarsi all’annuncio di un imminente nuovo album firmato GNOD.

Con oltre quindici anni di instancabile attività alle spalle, il collettivo stanziato a Manchester e guidato dall’inesauribile estro creativo del suo fondatore Paddy Shine ha abituato i propri ascoltatori più assidui ad una formula mai fissa e costante, ma in perpetua evoluzione attraverso una continua ricerca sonora. Attraverso un processo di transizione fra generi musicali e fonti di ispirazione, sempre puntuale e accurato, al sicuro da ogni possibile tendenza del momento, i GNOD hanno saputo ottenere e conservare nel tempo una solida posizione fra le attuali punte di diamante nell’ambito della sperimentazione e della psichedelia.

Spot Land ha origine da una sessione di registrazioni durata solo quattro giorni, nell’agosto del 2023 a Rochdale. Ad accompagnare il citato Paddy Shine, addetto anche alla cabina di regia per produzione e mix, altri quattro musicisti si alternano a rotazione su ogni traccia: Alex Macarte, Raikes Parade, AI Wilson e Chris Haslam.

Bisogna fare un passo indietro e cambiare prospettiva per svelarne il mistero, allontanarsi dal sound che caratterizzava il più recente Hexen Valley o l’iconico JUST SAY NO TO THE PSYCHO RIGHT-WING CAPITALIST FASCIST INDUSTRIAL DEATH MACHINE.

Nessuna esplosione di noise ipercontaminato, quindi, nessuna traccia di riff iperbolici o ripetitive ossessioni in pesante chiave doom. Spot Land è un piacevole accenno di ritorno ad origini più soft – che in qualche modo potrebbe rimandare alle vie intraprese nella collaborazione con i White Hills, datata 2011, o ancora a The Somnambulist’s Tale del 2008. Non una mera sintesi del passato, bensì un rinnovato, rimodulato desiderio di spostare il piede dall’acceleratore e fare confluire tutto quanto già sperimentato in un’inedita soluzione.

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Sono canti intonati da monaci benedettini quelli che, del tutto inaspettatamente, sentiamo elevarsi dalle iniziali note dell’opener Peace At Home. Le incantevoli voci campionate arricchiscono una texture psichedelica fatta di morbide percussioni e ammalianti chitarre in una mini-suite di quasi otto minuti e sono così evocative e potenti da trasformarsi in una nostalgica metafora di un lontano ricordo già vissuto. Chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare viene quasi spontaneo immaginare di trovarsi all’interno di un’imponente cattedrale, sentirsi piccoli ammirandone la vastità.

Nella frenesia di un mondo tristemente condannato a correre, in cui pare sempre necessario sapere in che direzione si deve andare, ci si lascia facilmente affascinare dal’ipnotica lentezza di un pezzo come Luz Natural; un palese invito a fare un respiro profondo e immergersi in una dimensione parallela nella quale è consentito perdersi.
E anche se la successiva Dream On – sostenuta da quel giro di basso così magnetico – concede un intermezzo più oscuro e groovy, l’incantesimo non viene mai spezzato. La successione delle cinque tracce disegna un flusso continuo, fra indecifrabile mistero, estatiche visioni e un senso di libertà senza precedenti.

È chiaramente percepibile – soprattutto negli astratti soundscapes di Kapal Bhati, fra voci ignote, echi di Popol Vuh, suoni e rumori che si fondono e sovrappongono – l’influenza delle più recenti esperienze di Paddy Shine nei Moundabout, progetto collaterale fondato insieme a Phil Masterson. Appare abbastanza evidente che quest’album rappresenti in qualche modo un percorso strettamente personale, una tappa di passaggio per giungere a nuove possibili evoluzioni future. Forse una fase transitoria più improvvisata che pianificata, ma sicuramente necessaria, naturale, senza apparenti forzature.

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Esiste una parola ben precisa, quasi impossibile da tradurre appropriatamente, che la lingua giapponese utilizza per descrivere la luce del sole che filtra fra le fronde di un albero: komorebi. Se mi chiedessero di definire Spot Land con un solo, unico termine, ecco; molto probabilmente la mia scelta ricadrebbe su questa parola.

È un album che ci lascia una sensazione complessa e malinconica, come la consapevolezza di aver contemplato un momento unico e fuggevole. Strizziamo gli occhi guardando verso l’alto e la realtà che conosciamo svanisce in un caleidoscopio di colori; talvolta indefiniti, altre volte meravigliosamente vividi, come quelli che campeggiano sulla bellissima copertina del disco.

Quella timida luce che si fa largo fra i fitti rami di un’intricata foresta si dissolve lentamente in una nebulosa memoria, le figure dipinte da quegli spazi illuminati non si ripeteranno mai due volte allo stesso modo, non torneranno mai uguali in nessun luogo e nessun tempo. E saremo lieti di avere vissuto un momento così, in una fugace finestra di perfetta armonia con l’universo e tutto ciò che ci circonda.

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Last modified: 30 Maggio 2024