1997, Pacific Northwest. A vent’anni di distanza da quello che potremmo considerare l’anno di platino della storia della musica contemporanea, risulta impossibile non notare il filo che lega molte di quelle produzioni: Either/Or di Elliott Smith, Dig Me Out delle Sleater-Kinney, Perfect from Now On dei Built to Spill nascono tra Seattle e Olympia, in quella striscia di terra del Pacifico nordoccidentale, da quella cerchia ristretta che solo negli anni 90 ha dato i natali al Grunge, all’Indie Rock e al movimento Riot Grrrl. Lo dice anche Carrie Brownstein nell’autobiografia “Hunger Makes Me a Modern Girl”: tra un concerto DIY in garage e un negozio di dischi, era impossibile non conoscersi a vicenda, fare qualche live insieme o addirittura frequentarsi.
Tra i più giovani della scena di Seattle, i Modest Mouse iniziano a far parlare di sé con This Is a Long Drive for Someone with Nothing to Think About, un album aspro e arrabbiato prodotto da Up Records che, solo un anno dopo, il 18 novembre 1997, pubblica quello che sarà il loro capolavoro e uno degli album più esemplificativi degli anni 90: The Lonesome Crowded West – un disco che appartiene al suo tempo, lo racconta, e sia tematicamente che musicalmente definisce ed ispira narrative che a vent’anni di distanza rimangono molto più che attuali.
Qualche anno fa, Pitchfork dedicò un intero documentario alla nascita dell’album. Nella seconda metà degli anni 90 Isaac Brock si era trovato in mezzo ad un processo accelerato di urbanizzazione della periferia di Seattle, processo che nel suo piccolo rifletteva quello che stava succedendo in molte periferie d’America, che definisce col neologismo mallfucked. Negozi su negozi, il consumismo come status sociale, il capitalismo più spietato che si trasforma in psicosi di massa: questi i punti di partenza di The Lonesome Crowded West che, però, con la scrittura fenomenale di Brock è molto più che una critica alla deumanizzazione dell’America tutta, ma diventa soprattutto una riflessione tridimensionale sull’intersezione tra l’uomo, il tempo e lo spazio.
The Lonesome Crowded West è un album che nasce durante il tour dell’album precedente, sulle strade d’America, finendo per definire la sua geografia già nel brano di apertura “Teeth Like God’s Shoeshine”: From the top of the ocean / from the bottom of the sky / I get claustrophobic; quegli spazi diventano confini fisici e mentali che brani il cui ritmo dettato marzialmente dalla batteria di Jeremiah Green come “Truckers Atlas” raccontano in forma di viaggio, prestandosi anche come colonne sonore per lunghe traversate in auto: I don’t feel and I feel great / I sold my atlas by the freight stairs / I do lines and I crossed roads / I crossed the lines of all the great state roads. La dualità tra interno ed esterno è onnipresente nella scrittura di Brock, una scrittura che rimane sempre estremamente vivida e lucida nonostante la voluta logorrea e la rabbia che pervade le prime produzioni dei Modest Mouse: in apertura, il consumismo sposa la psicosi in “Take ’em all for the sense of happiness that comes from hurting deep down inside”; negli accenni Western di “Cowboy Dan” la psicosi è quella dell’uomo che sfida Dio ma che finisce per essere inerme di fronte al mondo (Every time you think you’re walking, you’re just moving the ground); in “Polar Opposites” la posizione è più intima e confessionale: I’m trying to drink away the part of the day that I cannot sleep away.
Quel che è ancora più interessante è il modo in cui i testi incontrano la voce e la musica, perché (a parte qualche ospite come Dann Gallucci alla chitarra) l’album è il prodotto di tre strumenti. La voce di Brock è ossessiva, acida, una versione esasperata di Black Francis dei Pixies, che rispecchia perfettamente le sfumature psicotiche di brani come “Doin’ the Cockroach”, ma che sa anche reinventarsi in una nostalgia mai melensa come in “Trailer Trash” (And I know that I miss you, and I’m sorry if I dissed you). La chitarra fa da specchio alla voce, disegnando linee sghembe e cattive come in “Shit Luck” ma rendendosi spesso imprevedibile, come nei rallentamenti di “Cowboy Dan” o “Lounge (Closing Time)2, abbracciando il Punk così come il Folk e l’Americana nelle loro versioni meno ripulite (“Bankrupt on Selling”). Il dinamismo dell’album è in quella imprevedibilità di esecuzione, ancorata ad una sezione ritmica in cui la batteria è sempre in tiro e le linee di basso di Eric Judy sono ricche e groovy ma anche robuste e Hardcore.
The Lonesome Crowded West nasce dall’intersezione di molti generi e finisce per contribuire a inventare quel genere tutto americano che stava nascendo in quegli anni e che prese il nome di Indie Rock – quello originale. Un genere che nel 1997 non era una novità, ma che proprio in quel momento stava uscendo dalle scene locali per diventare un fenomeno di massa, perlomeno negli Stati Uniti. Il secondo album dei Modest Mouse è un disco volutamente imperfetto in cui tutti gli elementi si incontrano alla perfezione in un prodotto che è musicalmente e tematicamente figlio del suo tempo, ma che per gli stessi motivi è anche profetico ed estremamente attuale: il revival Indie Rock e DIY degli ultimi anni è figlio dei Pavement e dei Built to Spill, sì, ma nella musica e soprattutto nella scrittura è anche il fratello minore dei Modest Mouse più arrabbiati – è innegabile l’influenza di Brock sul liricismo cinico e vivido di Car Seat Headrest ma anche, andando indietro di qualche anno, sulla voce e la penna di Gareth David dei Los Campesinos!; innegabile è anche l’influenza dei temi di The Lonesome Crowded West come concept album, temi che sono rimasti ancorati alla società americana così come alle narrative di band anche fuori dal genere, come i Protomartyr nel loro album più recente, Relatives in Descent. Quello di The Lonesome Crowded West è stato un arco ad ascesa graduale – uno di quegli album che acquistano il titolo di ‘capolavoro’ col tempo, quando ci si rende conto della loro superiorità rispetto al nuovo, e a cui si ritorna ogni volta come fosse la prima.
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Last modified: 15 Marzo 2019