(1993, Creation Records)
Siamo in molti a giudicare Souvlaki un capolavoro, ma come capolavoro ha un che di inconsueto: non racconta o cattura il proprio tempo; piuttosto il tempo lo sospende, lo annebbia. Il secondo album degli Slowdive è proprio l’album del sospeso, di un etereo allucinato che non trova spazio che in se stesso, senza per questo negare accesso dall’esterno.
Gli Slowdive nascono a Reading alla fine degli anni 80, e si inquadrano presto in quella scena tutta britannica – e soprattutto inglese – che verrà poi definita ‘The scene that celebrates itself’: un gruppo di ragazzi poco più che adolescenti cresciuti a Garage e Psych Rock che si conoscono e supportano a vicenda. Il movimento si fa spazio in un territorio arido in cui il termine ‘Shoegaze’ veniva usato in maniera derisoria: gli shoegazer ‘borghesi’ sarebbero stati scavalcati a breve dall’accessibilità working class del Britpop e dalla dirompenza del Grunge d’oltreoceano, ma non prima di aver regalato alla prima metà degli anni 90 alcuni tra gli album più belli del decennio, tra i quali spiccano proprio Loveless dei My Bloody Valentine e Souvlaki degli Slowdive.
L’approccio degli Slowdive è però più delicato di quello di Kevin Shields: piuttosto che soffocare le voci nei muri di suono, è proprio l’incontro di voci di Neil Halstead e Rachel Goswell a sostenere le linee melodiche e gli intrecci di chitarre che si disperdono nel feedback. Com’è d’obbligo per poter fare dell’ottimo Shoegaze, quella di Halstead è una voce quasi monocorde, al limite dell’annoiato – una dote che gli tornerà utile nello Slowcore dei Mojave 3 – mentre quella soave, eterea di Rachel Goswell eleva quello degli Slowdive al Dream Pop per eccellenza, confermandosi in assoluto una delle voci più belle del panorama Rock, strumento centrale in brani come “Machine Gun” e “Souvlaki Space Station”.
In brani come “When the Sun Hits” è ancora più palese la forte sinergia tra Halstead e Goswell, la cui relazione si era appena conclusa: possiamo così aggiungere Souvlaki alla lista dei grandi breakup album in cui entrambe le parti sono lì a raccontare la rottura, ed è forse proprio per questo che i testi non vengono annegati completamente, anzi, raccontano delicatamente i tormenti rassegnati da quella fine in brani come “40 Days” e “Dagger”, in cui ricorre quasi la stessa frase (I said I love the way that you smile / She whispers while I’m sleeping: ‘I love you when you smile’). L’album, scritto quasi completamente da Halstead dopo un isolamento volontario di due settimane successivo alla rottura, si affida anche ai testi per creare suggestioni e ambientazioni in modo sinestetico, spesso affidandosi a parole chiave e temi ricorrenti: Souvlaki diventa tridimensionale nei suoi continui richiami a verbi di movimento quasi privi di agenzia (‘floating’, ‘sinking’, ‘falling’, ‘dancing’), continui riferimenti agli atti del guardare, dell’ascoltare, agli stati mentali, anche quelli al limite dell’inconscio. Ed è anche grazie ad una tale potenza lirica ed evocativa che Souvlaki sembra quasi scivolare e farsi scivolare addosso, un luogo non-luogo dove i gesti della vita mondana sono ricordi lontani e nuvolosi – sospesi, appunto.
Pare che per Souvlaki gli Slowdive volessero addirittura Brian Eno alla produzione, accordo mai portato a termine ma da cui vennero fuori “Here She Comes” e “Sing”, uno dei brani più atipici del disco, quasi precursore delle virate più ambient del successore Pygmalion che sarebbe uscito poi nel 1995. Nel frattempo lo Shoegaze, scavalcato dal Britpop e dal Grunge ma anche a causa della saturazione creativa di una scena molto piccola, aveva ormai fatto il suo corso: gli Slowdive si sciolgono subito dopo la pubblicazione di Pygmalion, dedicandosi ad altri percorsi, tra cui proprio i Mojave 3 nel caso di Rachel e Neil.
Nei due decenni a venire, soprattutto nell’ultimo, saranno moltissime le band che si ispireranno agli Slowdive per costruire un sound sognante su tappeti di riverberi. È il fenomeno Nu Gaze: da un lato frutto di un Dream Pop più sognante nel caso di Wild Nothing, DIIV, Beach Fossils (in un brano dei quali compare anche Goswell), The Radio Dept.; dall’altro distorsioni più spinte dalle influenze hardcore come nel caso di Nothing, Whirr, Title Fight o addirittura The Soft Moon – senza escludere le chiare influenze su band italiane come Be Forest. e Brothers in Law. Ed è proprio mentre le orecchie dell’Indie si stavano riabituando a quelle distorsioni di chitarra tra il Noise e il sognante che gli Slowdive hanno sorpreso tutti annunciando una data al Primavera Sound Festival nel 2014: un set bellissimo, seguito da una reunion e dall’annuncio di un side project di Goswell – i Minor Victories con Stuart Braithwaite e i fratelli Lockey – e finalmente, dopo 22 anni, ‘eponimo, che scala le classifiche di fine anno nel 2017, dimostrando il talento di una band sempre al pieno delle proprie potenzialità nonostante i quasi vent’anni di silenzio. Una band ormai immortale e fuori dal tempo – proprio come Souvlaki.
1993 2018 Album Alt Rock Ambient Anni 90 anniversari musicali anniversario articolo Brian Eno britpop claudia viggiano Creation Records Garage Rock gold friends grunge Kevin Shields Loveless mbv mojave 3 Musica My Bloody Valentine neil hailsted Psych Rock Pygmalion Rachel Goswell Rockambula Shoegaze Slowcore Slowdive Souvlaki venticinque anni
Last modified: 15 Marzo 2019