L’indie di inizio millennio è in gran forma e, come in questo caso, a volte anche piacevolmente in controtendenza rispetto alla bulimia da cui sembrano essere affetti i progetti più giovani, quelli che per quanto apprezzabili probabilmente se non sfornassero un disco all’anno finirebbero rapidamente nel dimenticatoio. Dei Grizzly Bear invece, nonostante ne siano trascorsi cinque da Shields, ci ricordiamo esattamente ogni nota, e fortuna vuole che lo stesso valga per molte altre formazioni (The National e Fleet Foxes, tanto per citarne un paio) che come Edward Droste e soci usano prendersi il tempo necessario per la gestazione dei propri lavori, per poi tornare in scena con album saturi, dove nessun brano è superfluo o meno significativo dei singoli scelti per trainarlo.
La scrittura di Painted Ruins è stata un lavoro corale e ponderato, durato ben due anni, per la prima volta senza il contributo della Warp. Quella dei Grizzly Bear continua ad essere pop music fatta da una band anti-pop, dove per pop si intende la permanenza felice in territori melodici e la devozione alla strumentazione tradizionale coniugata al presente contemporaneo, e dove l’attitudine anti-pop si manifesta sotto molti aspetti, dal bisogno fisiologico di rimettersi in gioco ogni volta introducendo elementi di novità all’assenza di veri e propri frontman da idolatrare.
D’altronde gli umori di queste undici tracce non danno adito a nessuna forma di poptimism. Anche se lontano dal potersi definire schierato politicamente, non sempre le ‘rovine dipinte’ di quest’album sono interiori e personali; è noto il fatto che Ed sia stato un sostenitore di Bernie Sanders, e spesso tra le metafore di Painted Ruins si scorge il senso di precarietà che affligge l’America di oggi, come nell’incedere sinistro di “Aquarian” (Every moment brings a bitter choice / The knowledge you can’t win with what remains). Altrove invece il disappunto sembra rivolto espressamente all’ambiente musicale: quel Were you even listening? nell’opener “Wasted Acres” che lascia pensare che lo spreco di cui parla Daniel Rossen sia in realtà quello di un mondo discografico dai ritmi forsennati che precludono la possibilità di un ascolto consapevole. Forse non è un caso il fatto che il brano in qualche modo sembri congedarsi dal sound di Shields, con l’aria lounge e le linee vocali melliflue di una “Sun In Your Eyes” più pacata, che non esplode mai, per lasciare spazio alle novità già dalla componente funky in “Mourning Sound”. Anche l’immediatezza delle liriche suona decisamente inedita ma non pregiudica il fascino di brani dai costrutti sonori evocativi e perforanti come il lungo reiterato outro di “Three Rings”.
Alla consueta filosofia dell’accostare folk adulterato a percussioni imperanti si aggiunge molta più elettronica che in passato (anche se spesso in realtà è la chitarra di Dan a suonare come un synth), che prende le distanze dalla solennità degli arrangiamenti del suo inquieto predecessore e si riallaccia invece alla felicissima formula di Veckatimest, in un disinvolto equilibrio tra fruibilità e sperimentazione: la malinconica ballad disturbata da elementi psych che è “Neighbors”, i cori estatici e le atmosfere rarefatte tonificate da un drumming persistente in “Systole”, i riff acidi nel refrain di “Sky Took Hold” annientati poi da una matassa di ronzii che si affloscia su se stessa.
La meticolosità nel comporre è palese ma mai pedante, necessaria a questo chamber pop che è difficilmente prevedibile eppure suona sempre autentico e schietto, che si traduce in un album che è figlio del suo tempo, nei temi così come nel sound targato Grizzly Bear, ormai inconfondibile ma in grado di rinnovarsi ogni volta.
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Last modified: 3 Aprile 2019