Jonathan Clancy, canadese trapiantato a Bologna, è un girovago. Nel suo peregrinare ha visto tanti luoghi diversi, assorbendone le influenze culturali e musicali. Già in tour con Settlefish e A Classic Education, ha uno stile riconoscibile e allo stesso tempo riconducibile a centomila altri artisti. C’è un cantautorato alla Neil Young, tanto per cominciare, incupito da un costante rimando al Glam Punk e alla New Wave e reso moderno nel senso indie del termine. Quindi chitarrine plin plin e voci spesso e volentieri sullo sfondo del pezzo. Al primo ascolto sembra un’irritante accozzaglia di roba registrata alla perfezione. Al secondo giro del disco, piace. Vicious si apre con “Safe Around the Edge”, uno scanzonato brano Post Punk dal sapore più americano che inglese. “Miss Out These Days” è sinteticissima, a causa delle tastiere in apertura. Ha un tono molto più meditativo e riflessivo della precedente e si trasforma presto in una canzoncina super Indie tenuta in piedi solo da voce e chitarra. “Gold Diggers” è vintage: gradevole nella resa, sembra un rivisitazione della musica leggera anni 50, confluendo quasi per direttissima in “Hunting Men”, più quadrata e dritta delle precedenti, banale, se vogliamo, ma caratterizzata da un bel dialogo intessuto tra la componente ritmica e quella melodica. Il disco cambia di nuovo tono con “Slash the Night”, in cui Clancy strizza l’occhio ai Radiohead. Come un cerchio, si torna alle sonorità Glam dell’inizio in “Run Wild”, a cavallo tra la scanzonatura Punk e le atmosfere decadenti della New Wave. “Machines” è costruita in modo volutamente artefatto, con un’introduzione eterea che dà l’impressione che il brano evolverà in una certa direzione quasi Trip Hop: la sensazione iniziale viene subito disattesa però e la canzone si trasforma in una ballata veloce di stampo cantautorale, ma su un tappeto elettronico. Vicious prosegue piacevolmente, ma senza lasciare particolare traccia dietro di sé. “Avenue” si rivela da subito per essere la canzone depressa del disco: voce e chitarra creano un’atmosfera parecchio buia e malinconia su cui si muove un testo essenziale e ripetitivo, come conducesse a una sorta di trance. “Crystal Clear” è un vero e proprio tributo agli anni ’80, mentre “Zenith Diamond” è puro Punk. “Castle Sand Ambient” è la traccia che più mi ha colpito: qui le sperimentazioni si esasperano e le iniziali sonorità acustiche si espandono a macchia d’olio tra riverbero e noise, elegantemente dosati, come se si applicasse alla lettera la lezione dei Sonic Youth. Il disco poteva finire qui, ma Clancy si gioca un’ultima traccia (a mio avviso sbagliando): è la debolissima “Progress”, caratterizzata da un ritornello ben poco incisivo e pregevole forse per la sonorità Garage inglese che appare per la prima volta in questo lavoro discografico. Nel complesso è un disco che si sente, ma molto probabilmente non si compra. Si scarica, ma si ascolta una volta e si cestina per non occupare spazio nell’hard disk. Ben fatto, indubbiamente, ma incapace di aggiungere nulla di particolare a quanto è già stato detto in musica. Almeno negli ultimi quarant’anni.
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Last modified: 20 Febbraio 2022