I Have a Physical Body That Can Be Harmed, il mantra noise dei Thank

Written by Recensioni

Spigoloso e ammiccante, il quartetto di Leeds conferma tutta la stravaganza rumorosa che lo contraddistingue fin dagli esordi.
[ 08.11.2024 | Big Scary Monsters | noise rock, synth punk, post-punk ]

Non incuriosirsi circa una band che è stata descritta come “una specie di folle incrocio tra i Pissed Jeans e Lady Gaga” è piuttosto complicato. È infatti così che Loud and Quiet definì i Thank in un’intervista di un paio d’anni fa, fatto che già di per sé sarebbe sufficiente per far capire che ci si trova al cospetto di un gruppo non esattamente convenzionale.
Del resto, già a giudicare dal dubbio gusto estetico (parere del tutto personale, ci mancherebbe) che caratterizza le loro copertine, i tipi in questione ci tengono relativamente a passare per un gruppo standard, qualunque cosa voglia indicare tale termine.

Formatisi nell’ambito dei Chunk Studios, un vecchio magazzino alla periferia di Leeds che fungeva da sala prove ma anche e soprattutto da crocevia per tutta la scena alternativa e underground della città, fin dal 2018 i Thank si fanno largo a suon di singoli ed EP a dir poco stuzzicanti.
È però con l’album di debutto Thoughtless Cruelty (2022) che il quartetto ha fatto il vero salto di qualità a livello di notorietà, un’ascesa che ha portato questo nuovo lavoro ad essere uno dei più attesi dell’anno in ambito noise punk.

Prodotto da Rob Slater (uno che di noise se ne intende, vedi il lavoro fatto con i Blacklisters), I Have a Physical Body That Can Be Harmed rompe subito gli indugi con un pezzo, Control, che è perfetto per intercettare il ventaglio artistico del quartetto. Il pathos creato dalla lunga intro monopolizzata dal cantato irrequieto e sardonico di Freddy Vinehill-Cliffe viene sconquassato da un’esplosione distorta e prepotente che mette plasticamente in mostra tutta la potenza di fuoco che il gruppo di Leeds custodisce nel proprio arsenale.

© Summer Crane
Noise woke.

Rabbioso ma non violento, impegnato ma non pedante, il disco affronta in maniera dissacrante anche temi piuttosto attuali.
È il caso di Woke Frasier, esplicativa fin dal titolo: se dal punto di vista musicale si nota una certa vena dance-punk che nel finale sfocia in una notevole bordata rumoristica, il testo (ed il videoclip annesso) si fa beffe della paura dell’ideologia woke in seno a gran parte della destra conservatrice (o repubblicana, per chi vive negli USA). In questo senso, “The Simpsons have gone woke” è davvero una frase potenzialmente cult.

E, a proposito di violenza sonora, Do It Badly è un vero toccasana per ogni amante della musica “storta”, oltre che un brano che avvicina una volta di più i Thank ai vari USA Nails, DITZ, i già citati Blacklisters (ma anche a quei matti dei mclusky, tanto per citare una band un po’ più datata), tutti nomi che di recente abbiamo amorevolmente trattato qui.
Retto da un giro di basso avvolgente e penetrante e servito da schitarrate taglienti che ne aumentano ulteriormente il tono drammatico, il pezzo esplode in un boato sonico e sguaiato che fa venire alla mente gente che cade a terra e birre che volano chissà dove. In altre parole, tutto quello che dovrebbe succedere durante un concerto noise degno di tale nome.

L’incursione a metà tra stoner e doom che propone The Spores è poi una sorpresa non da poco: un riffone dall’incedere elefantiaco e pesante e una sezione ritmica poderosa compongono l’impalcatura perfetta per sorreggere un cantato di ozzyana memoria, roba che a momenti viene da chiedersi se non si è finiti per sbaglio su una raccolta di rarità dei Black Sabbath.

Taglienti e al tempo stesso ammiccanti.

In generale, la seconda metà del disco si concede qualche passaggio un po’ più accomodante e orecchiabile, virando maggiormente su versanti post-punk e art punk.
È il caso di episodi come l’ammiccante Barely e Perhaps Today, che propongono una versione vagamente “pop” del quartetto, che in ogni caso, da perfetto stratega delle tracklist, non manca comunque di piazzare tra i due la tirata hardcore noise di Dead Dog in a Ditch.

In piena osservanza del detto dulcis in fundo, con la conclusiva Writing Out a List of All the Names of God si torna sul luogo del misfatto, per una perfetta rivoluzione astronomica: un suono distorto, angolare, spigoloso, cacofonico che è il passe-partout ideale per addentrarsi appieno nel mondo estetico e musicale della band di Leeds.

Con la sua anima tagliente e al tempo stesso ammiccante, I Have a Physical Body That Can Be Harmed conferma quanto di buono si è detto dei Thank in questi anni. Un lavoro diretto e sorprendentemente variegato, che può attrarre sia coloro che si nutrono di spigoloso noise punk che chi spulcia compulsivamente le uscite del venerdì alla ricerca di nuovi nomi della scena post-punk contemporanea da snocciolare in una eventuale discussione musicale.
Se appartenete ad una delle due categorie di cui sopra, l’ascolto è fortemente consigliato.

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Last modified: 8 Novembre 2024