Il dubbio ha iniziato a friggerci nella testa qualche giorno fa, quando abbiamo letto un post del nostro meraviglioso direttore in merito allo stupefacente concerto degli Stones a Roma. Riccardo Merolli si chiedeva, infatti, se tutta quella moltitudine di persone che ha colmato il Circo Massimo si consacrasse alla musica live anche durante il resto dell’anno. È quello il pubblico dei concerti italiani? Quella degli Stones è la stessa platea che va ad origliare gli Zu, Bologna Violenta o artisti ancor più misconosciuti tanto da riempire al massimo un pub con trenta persone di cui venti amici e parenti? Quella stessa platea è in grado riconoscere che lo show strettamente musicale dei Rolling Stones al Circo Massimo è stato ben più che discutibile, tra stonature di Mick e riff mono nota messi a cazzo di cane da un Keith Richards il cui unico atto veramente artistico negli ultimi anni è stato rompersi la testa cascando da una palma di cocco? Del resto gli Stones non hanno mai brillato per perizia strumentistica neanche quando erano meravigliosamente creativi e prolifici, figurarsi ora che si tengono in piedi con gli spilli, tanto che anche il loro batterista si è più volte gloriato del fatto di non aver mai imparato a suonare il suo strumento. Gli Stones hanno fatto la storia del Rock; trent’anni fa, però, riuscendo a diventare la faccia sporca dei Beatles, quella dei cattivi ragazzi, quella col fascino della ribellione. Ora stanno al Rock quanto il pisello di un settantenne sta all’erezione: se avviene ancora è un evento ma non è certo una grande scopata. Nella loro carriera la cosa più brillante che hanno fatto è rimanere fedeli a se stessi, cercando, più che nuovi stili musicali, di incarnare l’anima del Rock, creando un prodotto, un’idea, un desiderio forte: chiunque sogni di essere una rockstar desidera far una vita alla Mike Jagger, no?! Tempo fa eravamo andati a vedere un docufilm su un loro concerto e dopo un’ora ci saremmo stracciati la pelle di dosso per quanto fosse incartapecorito e senza vis pugnandi il live. Ora, che senso ha trovarsi tutti in un punto, postare delle foto tutti insieme e vedere un loro concerto dai maxi schermi? Quel pubblico è o no lo stesso misero pubblico dei concerti “poveri”? Se il pubblico è lo stesso dei concerti dei club, perché queste esibizioni “minori” sono sempre più indigenti e vuote, a patto che non si parli de Lo Stato Sociale (oh mio dio)? Forse gli spettatori non sono gli stessi ma il nostro resta un dubbio, non abbiamo alcuna certezza.
Probabilmente per tanti di quelli che sono stati a Roma il 22 giugno, gli altri 364 giorni dell’anno sono composti di altro, di radio commerciali, di vecchi cd polverosi, di famiglie da mantenere, di esiguo tempo libero, di lavori stressanti, di stanchezza perenne. Può darsi che, come l’auto nuova e buona o il vestito da cerimonia da sfoggiare solo in occasione del matrimonio di una parente che pensavi sarebbe morta single (zitella non si dice), quel concerto sia un’occasione unica di quelle da “ora o mai più”. Chissà, magari la musica c’entra meno di quello che possiamo supporre, ma da qui nasce un altro dilemma. Vi è mai capitato di far ascoltare qualcosa di una band nascente a qualcuno che vi ha poi mortificato amaramente per ritrovarvi quel qualcuno, anni dopo, sotto il palco di quella stessa band? Quanto questi episodi possono dirsi sporadici e quanto sono rappresentativi di una certa realtà? Prendiamo due nomi qualsiasi, Muse e The Black Keys. Per i primi: ci hanno regalato un biglietto del concerto dell’anno scorso a Roma e abbiamo apprezzato lo spettacolo più in poltrona quando abbiamo visto il dvd girato all’ Olimpico che quando eravamo presenti a cento metri dal palco; del resto l’audio era quello di uno stadio e la visuale era quella degli schermi; tanto valeva mettersi in poltrona e mettere il disco sull’impianto di casa. Al concerto, abbiamo saputo dopo, c’era una nostra amica la quale aveva visto in sequenza Negramaro, Tiziano Ferro e Jovanotti e dei Muse conosceva solo l’ultimo disco (per noi comunque molto figo, ma strapassato dai media). Non servono altre parole.
Sui secondi c’è poco da dire, erano un’ottima band Blues Rock di nuovo millennio ma chissà dove sarebbero senza il singolone “Lonely Boy”. Erano dei cazzo di bluesman da paura e ora ti senti tradito da brani come “Fever” che mentre suona ti pare di ascoltare in lontananza la voce di Dan Auerbach: ”cazzo come godo, ve lo sto ficcando nel culo per bene e la cosa vi piace un casino” e giù una bella risata. Non è questione di snobismo; ora che sembrano piacere a tutti, sei TU a non cagarli perché semplicemente a te frega della musica e oggi la loro fa abbastanza schifo. Arriviamo al dunque, perché tutto questo? Noi non lo sappiamo ma qualche idea ce la siamo fatta. Punto 1) il pubblico, ormai è palese, è fatto di pigri che non vogliono ascoltare cose nuove o meglio non voglio essere loro ad andarle a cercare quindi si appisolano davanti alla tv, di fronte al volante e lasciano fare tutto alle radio e alle televisioni che ormai hanno tanti di quegli interessi di tipo commerciale che l’ultima cosa che hanno a cuore è farvi ascoltare e apprezzare sconosciuti artisti con due palle cosi. Punto 2) è tutta una questione di marketing ed etichette; quando quella band che ci piaceva tanto all’esordio passerà a una major, non tirerà più fuori cazzutissimi pezzi blues ma singoli sintetici e ballabili da infilare alle feste, in pubblicità, nei videogiochi, nei film, a Studio Aperto. Quella stessa band smetterà di fare quello che gli pare e suonerà con l’intento di piacere alle masse ed ecco appunto il punto 3) il popolo (ovviamente non il 100%) che riempie i concerti degli Stones non è quello che ascolta Captain Beefheart o i Deadburger ma quello che balla sulle note di “Lonely Boy” perché non ha interesse ad andare a fondo alle cose confondendo spesso intrattenimento e musica ed allora il punto 4) forse non tutti hanno la percezione della differenza tra spettacolo e concerto e, come dice Umberto Palazzo, oltre le diecimila persone non è più un concerto; il problema è che le masse sembrano essere molto più interessate all’happening e alla condivisione dello stato che alla musica ma difficilmente lo ammetteranno; piuttosto li troverete tutti con i cellulari a riprendere metà esibizione e poi tutti a ripetere quanto è stato fantastico, le luci, la gggente, il sudore, la notte e nessuno a dirmi come diavolo hanno suonato i vecchietti; solo a farmi notare che “io c’ero” ed eccoci al punto 5) siamo una generazione di mitomani, egocentrici, esibizionisti e presenzialisti e se ci diranno che è il concerto del secolo noi dovremo esserci e raccontare quanto sia stato figo, non importa se sia vero o meno. La stessa sera del concerto degli Stones eravamo anche a Ferrara a vedere una band neozelandese, molto quotata da tutta la stampa mondiale e con due album che hanno fatto il pieno in tutte le chart americane e inglesi: The Naked and Famous. Concerto esagerato per qualità e innovazione musicale. Quante persone pensate che ci fossero? Duecento. Ripeto: due volte cento.
Ovviamente questo non è un discorso per chi è nel circuito, fa rete, crea relazioni e si sbatte ogni giorno per ciò in cui crede. La storia della pillola rossa e la pillola blu in Matrix. Se il tuo obiettivo è fare soldi con la musica inevitabilmente stai cercando un compromesso tra te e la massa, stai schiacciando il tuo desiderio sul piano della realtà, e la realtà si misura in denaro. Per fare soldi devi vendere dischi, il tuo spettacolo, devi incarnarti nell’immaginario del Rock, diventare un’icona e alla fine un prodotto da smerciare nel supermercato del mainstream così che tu possa essere riprodotto in ogni dove. Questo, però, è un modo riduttivo di vedere le cose perché gli Stones non lo hanno fatto per soldi. Lo hanno fatto per la gloria ed oggi la gloria te la da lo spettacolo, allo stesso modo dei soldi. Gloria, quindi, gloria eterna ai Rolling Stones!
Innegabilmente la gloria ci porta dritti alla parola d’ordine per i live di quest’estate che sembra essere “riesumare”; sì perché oltre agli Stones, il bel paese è stato calpestato nel giro di una decina di giorni sia dagli Aerosmith sia dai Motorhead, per citarne alcuni. Avendo glissato sui primi ci siamo concessi l’opportunità di andare ad ascoltare i secondi. Una concessione pagata amaramente da uno show che ha rasentato l’impresentabilità e la decenza almeno un paio di volte. Niente contro il trio britannico e quello che hanno rappresentato per il Rock and Roll mondiale, ma certe performance dovrebbero vietarle o censurarle. Bisognerebbe avere la consapevolezza di alzare le mani e arrendersi all’evidenza che gloria e vecchiaia non sempre sono un binomio felice. Lo diciamo con rammarico, ma se al posto della versione in carne ed ossa di Lemmy avessero messo un cartonato, magari ben fatto in 3d, nessuno si sarebbe accorto della differenza, immobile, rigido, voce, chi ha detto voce? No, perché oltre a rantoli e grugniti non abbiamo sentito altro, fatta eccezione per una decina di parole tra cui fuck, rock & roll e drummer. Al quale vanno aggiunti due begli assoli, batteria prima e chitarre dopo, piazzati a regola per prendere tempo e fare una bella pausa. Ammettiamo, in questi frangenti, di aver provato una certa tristezza mista a sconforto nel vedere una band che forse avrebbe fatto meglio a cedere il posto e un po’ di visibilità a qualche giovane promettente, e rimanere semplicemente vivi nei ricordi dei fan, circondati da quell’alone aureo e mitico che il tempo inspessisce. Tra l’altro aldilà del romanticismo musicale, oramai fuori moda, vedere la markettona ben esposta di un marchio di sidro sulla chitarra di Phil ci ha davvero creato un certo prurito, certe cose te le aspetti da Miley Cirus e non dai Motorhead! Fossimo stati in prima fila, con la nostra magliettina del disco, adulante verso i nostri idoli, ci saremmo sentiti un po’ presi in giro, ma forse nessuno ci ha fatto veramente caso. Quello dei Motorhead è solo un buon esempio, che cade a fagiolo per dimostrare le evidenti conseguenze dell’avvento dell’accanimento terapeutico, verso certe band iconiche, messo in atto a volte da booker e organizzatori. Nessuna colpa alle band che come artisti vivono della loro musica e colgono tutte le opportunità che il mercato gli offre, ma non sempre le scelte fatte sono le migliori possibili, bisognerebbe evitare il più possibile le miopie musicali, che guardano solo al passato senza volgere lo sguardo e le orecchie in avanti verso la buona musica che ci circonda.
Detto questo, certo non mettiamo in dubbio che in mezzo al pubblico degli Stones o di chiunque altro “big” ci siano grandi persone, attente alla musica emergente e live oltre che ai superconcerti, individui da sempre fan di queste band, uomini critici, poco influenzabili e non neghiamo che un live degli Stones possa essere stato anche un grande spettacolo da vedere oltre che un live discutibile; ammettiamo anche che una band come gli Stones possa essere inserita nell’olimpo dei più grandi di sempre perché non è loro che critichiamo, anzi, ne abbiamo una stima immensa. Non abbiamo neanche alcun interesse a generalizzare e non possiamo dare niente per certo perché dovremmo andare ad analizzare cose più grandi di quanto non siano le pretese di quest’articolo. Quello che diciamo è: alzate il culo ogni tanto che magari dietro casa vostra suona qualcuno che ha più cose da dire del Mick Jagger di oggi, anche se non ha abbastanza soldi da chiudere con i fuochi d’artificio. Con una macchina del tempo noi vorremmo assistere al primo live dei Ramones piuttosto che all’ultimo. E voi?
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Last modified: 20 Febbraio 2019