Senza risultare mai ridondante, il nuovo album del duo di Chicago riesce a suonare al tempo stesso piacevole e ricercato.
[14.03.2025 | Quindi | post-rock, slowcore, ambient, electronic]
Milk, Weeds, Glass, Miles, Pink. I titoli dei brani che leggiamo scorrendo la tracklist dell’ultimo, eponimo album dei Dead Bandit sono un elogio al minimalismo. Un minimalismo pulito, statico, concetti appoggiati ordinatamente come oggetti su un tavolo, a comporre una natura morta da ammirare e ridipingere secondo la propria interpretazione, in infiniti possibili modi differenti.
La collaborazione già avviata fra il cantautore di Chicago Ellis Swan e il polistrumentista canadese James Schimpl arriva con questo nuovo lavoro al suo terzo capitolo, sempre sotto l’ala protettrice dell’etichetta fiorentina Quindi Records (del precedente Memory Thirteen, uscito poco più di un anno fa, si era parlato qui).
Le atmosfere sono più diradate e rarefatte che mai, sospese e fluttuanti proprio come quella nebbiolina grigia che avvolge come un mantello la tetra foresta raffigurata in copertina.
Protagonista è indubbiamente un sound ricercato, ricco di sfumature, come un nuovo e inedito vocabolario, ricco di nuovi termini e modi di esprimersi: un post-rock di chiara matrice 90s (qualcuno ha per caso detto Duster?) che si fonde senza timore con ambient, drone, slowcore ed elettronica.

Suoni che diventano immagini.
È una graduale introduzione quella che le prime tre tracce intendono creare: un ascolto che sin dal primissimo impatto accoglie, avvolge, affascina.
Le soffuse armonie di Milk, il nostalgico fuzz delle chitarre di Weeds e il dub subacqueo di Glass sembrano volerci prendere per mano e trascinarci in una dimensione parallela, fatta di paesaggi astratti senza confini ben definiti.
Le atmosfere oniriche dei tre brani appena citati traslano leggermente la propria rotta su territori shoegaze in Half Smoked Cigarette. Se fino ad ora le emozioni erano state chirurgicamente calibrate, arrivati a questo punto è un sentimento deliziosamente malinconico a prevalere.
Più ci si addentra a fondo fino a raggiungere il cuore dell’album, più ogni singolo dettaglio acquisisce forma e diventa vivo, pulsante, intriso di sensazioni contrastanti: il suono diventa immagine, luce, ombra, diapositiva.
È il caso della sinistra Buttercup e della sua gemella, la successiva Pink, due pezzi scuri e sfuggenti dall’anima impenetrabile, ai quali fa da perfetto contraltare l’eterea Amer Picon: una satura nube elettronica che pare provenire direttamente dallo spazio.
Suggestioni cinematiche e texture raffinate sono sempre ben presenti ed evidenti fra gli elementi alla base della cifra stilistica dei Dead Bandit. Se vogliamo citare un pezzo in particolare su tutti, la scelta ricade su Spidery Ways, su quell’equilibrio ben studiato e messo in atto fra tensione e dispersione.
In costante equilibrio.
Un equilibrio che è forse una delle due vere colonne portanti dell’intera opera, insieme all’interessante e per nulla banale contaminazione fra svariati generi: le due caratteristiche che la rendono degna di nota e la fanno spiccare nella fitta giungla (non sempre così gradevole da attraversare) delle numerosissime pubblicazioni in ambito post-rock e affini.
Sebbene sia ormai pacifico che sul tema non sia rimasto molto da inventare né da imparare, non è detto che la ricerca musicale debba per forza approdare alla scoperta di qualcosa di nuovo a tutti i costi.
Se il vostro obiettivo è semplicemente quello di trascorrere tre quarti d’ora abbondanti in compagnia di un disco piacevole, senza troppe pretese di innovazione, direi che potreste tranquillamente fermarvi qui: chiudere gli occhi e senza porvi troppe domande godervi un po’ bellezza, ormai abbastanza rara da scovare sul pianeta Terra.
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Last modified: 12 Marzo 2025