Vivisezione del dolore, valvola di sfogo o evitabile divertissement? Il debutto solista di Alan Sparhawk è un disco unico nel suo genere, il ritorno di un’arte che vuole soddisfare solo il proprio creatore.
[ 27.09.2024 | Sub Pop | elettronica, post-trap, avant-garde ]
Partiamo dalla fine.
È uscito un disco di Alan Sparhawk che non è il disco che assoceremmo abitualmente al suo nome, al suo volto, ai Low, alla sua storia musicale e personale. In un presente alternativo sarebbe visto come un lavoro pazzo, “di rottura”, il gioco di un musicista ormai al tramonto della sua carriera, il tentativo di appropriarsi di suoni e linguaggi giovani che non gli appartengono, il signor Burns vestito da teppista che entra in presidenza.
Torniamo all’inizio.
I Low nascono nel 1993, quando Alan e Mimi Parker erano già sposati. In quasi trent’anni di carriera hanno imbastito una discografia tanto sterminata quanto camaleontica, composta da 13 album in studio e una valanga di EP e sette pollici a corollario di ogni fase, di ogni cambiamento.
Quella che nel 2021 pubblica HEY WHAT è una band molto diversa da quella che nel 1994 faceva uscire I Could Live In Hope, eppure resta la stessa.
In mezzo c’è tutta la crescita di Alan e Mimi come coppia e individui, la loro continua ricerca, i vari partner musicali che li hanno accompagnati in questa avventura, che stava continuando con la bandiera dello slowcore in fiamme, il genere di cui sono diventati paladini seppellito sotto il magma ribollente di Double Negative.
Nel mezzo, il nero.
Mimi Parker viene a mancare il 5 novembre 2022 per un tumore, all’età di 55 anni. Credere che Alan sia rimasto lacerato da questo avvenimento penso sia usare un eufemismo. I Low ovviamente non esistono più da quel giorno, la coda di The Price You Pay (It Must Be Wearing Off) che si accartoccia su sé stessa, i piatti della batteria di Mimi in fadeout per l’ultima volta.
Dopo un anno, Alan viene convinto a tornare a suonare dal vivo: saranno set di cover e materiale inedito. Nessun brano dei Low, ed è giusto così.
Tornato a casa dopo il tour, trova i figli Hollis e Cyrus a improvvisare dei freestyle con degli amici con una drum machine e un microfono, e, come farebbe ogni bravo padre, fornisce loro un synth e un effetto per pitchare la voce, per dare loro degli strumenti nuovi con cui sperimentare. La curiosità è troppo forte, e così questo setup arrangiato diventa lo scheletro su cui nascono le canzoni di White Roses, My God, il primo disco solista di Alan Sparhawk.
Non è un album su Mimi Parker, o almeno non solo su di lei. È però un disco che, dietro soluzioni inconsuete e a tratti anche bambinesche, mostra una fragilità e un modo per superare il dolore che si tramutano in coraggio, improvvisazione, esplorazione. Non è un disco per tuttə perché è un disco solo per Alan, che poi potrà risuonare o meno in altri individui, ma non è quello l’obiettivo primario.
Un flusso di coscienza.
Nei suoi 34 minuti di durata, White Roses, My God presenta un Alan completamente nascosto, camuffato dietro al vocoder, alla drum machine e ai synth prestati ai ragazzi che volevano solo improvvisare un po’. Quasi un modo per esorcizzare il dolore, come quando corriamo in bagno per evitare che i colleghi ci vedano piangere, ma poi torniamo alla scrivania con gli occhi pesti e le guance rosse.
Non è neanche una scelta così discontinua rispetto alla cronologia dei Low, che su Double Negative e HEY WHAT avevano flirtato sempre di più con elettronica e suoni sintetici, andando spesso a sporcare e distorcere proprio quelle meravigliose voci capaci di disegnare melodie scintillanti anche nel frastuono.
È sicuramente una conclusione affrettata, ma mi piace pensare che White Roses, My God ci abbia aperto un portale per una proto-incarnazione dei Low che non avremo mai modo di ascoltare, a cui manca la voce pulita di Mimi a fare da contraltare ai vagiti sintetici di Alan.
L’approccio è stato comunque quello dell’urgenza, quasi improvvisata. Giocare con i suoni finché qualcosa non funzioni. Girare manopole finché tutto non acquisisca senso.
Ed è qualcosa che si sente, e ha una duplice chiave di lettura, probabilmente a seconda del percepito di ognunə di noi: c’è chi odierà questa cosa, e penserà che questo è un disco che nemmeno doveva essere pubblicato, che questo sia l’ennesimo giochetto da musicista affermato, che ok la sofferenza ma se lo poteva risparmiare. Altri riusciranno a collegare White Roses al trascorso di Alan, a leggere tra le sue righe intricate (e letteralmente quasi invisibili, almeno i testi della sleeve del vinile), a vederci un tentativo di catarsi e di esorcismo per un dolore che non sempre riesce ad essere “solo” astratto (ma anche fisico: nei videoclip pubblicati finora, il più delle volte abbiamo Alan che cammina, cammina, cammina).
Gli undici brani sono una specie di flusso di coscienza dove la voce pitchata di Alan disegna melodie aliene sopra tappeti di synth e drum machine più psych-trap, una versione fricchettona di The Collective di Kim Gordon, tanto per intenderci.
L’urgenza che si trasforma in pura indipendenza.
Parlare dei singoli brani avrebbe poco senso: avete capito il leitmotiv, e raccontarvi che a me Can U Hear, Station e Not the 1 sono quelli che piacciono di più avrebbe poco senso. È un gioco di incastri melodici, vibrazioni giuste, quanto vi viene voglia di muovere il culo mentre li ascoltate (il mio primo ascolto è stato in piedi, tutto di fila, mentre era in filodiffusione in un negozio di dischi e io stavo spulciando tra i vinili: alla fine sono rimasto dentro per tutti e 34 i minuti e alla fine l’ho acquistato, rapito).
Se ha poco senso parlare dei singoli brani, ha più senso fare una piccola digressione sui testi: il più delle volte sono (o sembrano?) sciocchi, buttati lì, frasi che suonavano bene una dietro l’altra, a volte anche una frase sola per un intero pezzo (I Made This Beat, super danzereccia). Altre volte invece aprono uno squarcio profondo come una tela di Fontana, ad esempio Heaven (“It’s a lonely place if you’re alone / I wanna be there with the people that I love”) oppure Feel Something (“Can you feel something here? / I want to feel something here / Can you help me feel something here?”).
I paragoni si sono già iniziati a sprecare: dalla già citata Kim Gordon ai 100 Gecs, da Trans di Neil Young fino a 808s & Heartbreak di Kanye West.
La realtà è che White Roses, My God suona davvero unico nel suo genere: un gesto di libertà creativa che nasconde un grido di dolore, che ci riporta ad un momento in cui l’arte non ha più come fine ultimo la classifica, il capolavoro, il 10/10, bensì l’urgenza, il prendere qualcosa dal proprio petto e trovare il modo di infilarlo in un disco di canzoni, qualcosa che risuoni prima di tutto con sé stessə e poi bene se funziona anche per altre persone.
È anche per questa ennesima lezione sul vero significato del termine indipendenza che dobbiamo ringraziare ancora una volta Alan Sparhawk.
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Last modified: 2 Novembre 2024