Il Brit pop e una dura gavetta hanno molto in comune per questa band Milanese negli anni a ritroso della loro formazione musicale; ma infatti si sente, nulla tradisce una perfezione maniacale da tanto di cappello che scorre dentro la lista sonora messa a conquistare l’interesse per “The Passion”, il bel disco degli Inland Sea, il disco che arriva per piacevolizzare questa estate rovente e poco balneare e per farci conoscere una formazione che descrive la musica con una dolcezza pop di ballate, malinconie e hook canaglieschi “The gift” su tutti con un affresco potente di canzoni che fanno innamorare immediatamente e trattare questo lavoro con la confidenza intera di una amicizia inaspettata.
Belle chitarre piene di vento, una voce “inglese” incontestabile ed un insieme liberatorio di alternativo retrò che verso gli anni Novanta del bel sound d’Albione ci si butta a corpo morto e gli riconosce quel primato rivoluzionario di aver cambiato la storia con poco, solamente aggiungendo grazie e gentilezza in un contesto che usciva dagli Anni Ottanta con le ossa rotte e i capelli scompigliati ed intricati da troppo gel; The Passion e le sue nove tracce escono da quei sentieri poppyes per inoltrarsi – con naturalezza – in quelle sensazioni insaziabili che mescolano oculatamente gli interrogativi trascinanti di Thom Yorke, pixel di McCartney e la poetica pindarica di un Chris Martin dei Coldplay, una felice combine dove c’entri dentro e ti lasci incantare come sopra una giostra di “bello” fintanto ti gira la testa e che comunque vuoi ricominciare da capo il giro.
Tracce dicevamo che non intralciano – anzi – arricchiscono l’ascolto contemporaneo di certa musica, tastiere, archi, chitarre, fiati e quella “ottima flemma” British che anche se sembra retrò, involuta, è invece un inno alla poesia, poesia che guarda in avanti e non si fa intimorire dagli urli e gli schiamazzi amplificati che molti fanno passare per “nuove tendenze”, il loro compito è farci assaggiare la grazia elettrica ed allora ecco che pezzi come la Beatlesiana “Hushing the whisper”, quella deriva sugli U2 di “The crossing”, il soliloquio intimo che si sottolinea in “Weak”, magari il capolino che gli Stereophonics fanno in “Soul weather” o i Radiohead tra gli archi di “Blind”, diventano inni personali per un intendere riflessivo e pacato di una musica, di un disco che restando stilisticamente fermo a quasi vent’anni fa, si fa notare e piacere come un disco di “ultima generazione” da tenere stretto al petto per sognarci sopra.
Last modified: 20 Giugno 2012
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