Quattro lunghi anni di attesa: un’eternità per gli appassionati, un sollievo per gli avversi. I disillusi come me, invece, restano nel limbo dell’indecisione. Era il 2010 l’ultima volta che i miei padiglioni ebbero un incontro ravvicinato con gli Interpol. Ricordo che l’omonimo album non riuscì a far vibrare nessuna delle mie corde. Forse una sola, quella della rabbia. Il disco sembrò segnare definitivamente la fine della band o quantomeno era una concreta prova dell’inizio del declino. Il talento sembrava esser svanito, la passione, l’interesse, tutto quanto. Non erano più gli Interpol. Contemporaneamente c’era il Paul Banks in giro per il mondo sotto lo pseudonimo di Julian Plenti ed era quanto bastava per poter pensare che all good things come to an end. Poi accorgersi che era soltanto un’eclissi…
È l’8 settembre dell’anno 2014 quando mi ritrovo nuovamente faccia a faccia con i “ragazzi” newyorkesi. E come una vecchia storia finita male merita sempre risposte, così ho cercato le mie in El Pintor. E le ho trovate. Un disco che sembra voler chiedere scusa per gli errori passati. Sin dal primo capitolo si respira aria di Turn on the Bright Lights, quasi come a rispolverare vecchie foto. Foto che trovano, inevitabilmente, tracce di usura, rovinate dagli anni, ma che ce la mettono davvero tutta per apparire nitide e chiare come allora. È fortemente percepibile il recupero di personalità della band, il ritorno della musa, la nuova dedizione. Appena percepibile l’evoluzione stilistica, dai bassi messi lievemente all’angolo e dall’estrema attenzione alle lunghe chitarre Indie che si articolano in riff non troppo complessi, ma ottimamente apprezzabili. Si percepisce qualche capello bianco e qualche ruga in più, ma nel complesso il disco sembra essere un ritorno alle vecchie abitudini, al vecchio stampo, con l’accortezza di aggiungere qui e lì qualche tratto dell’esperienza accumulata lungo il percorso. Senza dubbio l’episodio di maggior rilievo è il primo, “All the Rage Back Home”. Sarà che è quello a più alto contenuto Interpol, sarà che è stato il primo singolo o che è stata la colonna sonora di tutta quanta la propaganda, ma è inevitabile respirare aria di casa, lanciata via dalla cassa a suon di bassi. Citazione positiva anche per “Tidal Wave”, nono capitolo dell’opera, che si propone l’obiettivo di portar via l’ascoltatore attraverso un’alternanza incessante di rullanti e casse, che si staglia su un riff perpetuo e su una voce malinconica. Si percepisce la voglia di andar via, insieme al maremoto (appunto tidal wave) cantilenato per tutta la durata della traccia. La stessa malinconia è palpabile direttamente in “My Desire” ed in altri capitoli, ma d’altra parte ciò non fa che confermare il ritorno osservato.
In definitiva il disco suona come un disco di perdono, una lettera di scuse a suon di musica. Funziona bene, scorre senza crepe e sa ben farsi apprezzare, seppur nessun capitolo riesca a far riemergere antichi splendori. Inevitabile da parte mia il punto a favore per la riaccesa speranza e per la capacità di back to origin dimostrata. D’altra parte siamo innanzi ad artisti dalla spiccatissima personalità e professionalità. Certo, probabilmente El Pintor non riuscirà a donarci tesori come “Pioneer to the Falls”, “Obstacle 1”, “Take You on a Cruise” o quante altre se ne possano citare. Ma questo d’altronde ce l’aspettavamo già.
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Last modified: 20 Febbraio 2022