Le chiacchiere di una calda mattina siciliana a Ypsigrock.
In quel di Castelbuono abbiamo incontrato le Pillow Queens, band dublinese alla prima esibizione in Italia. Con noi Pamela Connolly (voce, chitarra, basso) Rachel Lyons (batteria/seconda voce) e Cathy McGuinness (chitarra, seconda voce) in una stanza con vista su Piazza Regina Margherita. Non era presente il quarto elemento del gruppo, Sarah Corcoran (voce, chitarra, basso), che è arrivata un po’ dopo.
photo credits: K.V.A. – Keep Vinyl Alive
[ITA]
Come vi sentite prima di esibirvi in una nazione dove non avete mai suonato prima?
Rachel: È molto emozionante. Sembra ovvio perché non abbiamo mai suonato in Italia prima!
Pamela: Uno dei migliori vantaggi è poter andare in posti dove non siamo mai state e siamo fortunate che non sarà giusto una toccata e fuga. Possiamo restare un po’ prima di andare via e ciò è ottimo.
Cathy: Poi non capita tutti i giorni di poter fare colazione con i croissant al pistacchio!
Cosa pensate della attuale scena musicale irlandese di cui fate parte?
P.: La scena al momento è tanto stimolante, lo era già un pezzo prima della pandemia ma è ancora molto valida. Ci siamo sentiamo fortunate ad essere parte di questa scena perché è molto amichevole. E lo è, credo, perché l’Irlanda è molto piccola e ci sente come in famiglia.
C.: Si, probabilmente è perché è un Paese così piccolo. La scena è molto eclettica a livello di genere, c’è anche una buona scena pop. Abbiamo suonato all’All Together Now a Waterford lo scorso weekend e la maggior parte della gente è venuta a vedere gli show delle band irlandesi. C’erano artisti internazionali, ma anche tanti ottimi artisti locali.
Personalmente ho scoperto la vostra musica guardando “Other Voices”. Quanto è importante per voi band irlandesi?
C.: Noi tutti siamo cresciuti conoscendo Other Voices, guardando Other Voices, e scoprendo i nostri musicisti preferiti tramite Other Voices. Per me è stato sempre: “Se riesci a suonare ad Other Voices, sei parte del gioco”. È stato uno step fondamentale, una specie di medaglia al valore.
P.: È stata una di quel tipo di cose che volevamo fare, che volevamo spuntare dalla lista. La vera cosa splendida è stata che sin dagli inizi della band, Other Voices è stato presente sullo sfondo. Uno dei nostri primi concerti ad un festival è stato all’Electric Picnic, nel palco gestito da Other Voices.
Poi abbiamo suonato durante il programma e poi ancora quello che abbiamo sempre voluto fare: suonare nella chiesa di Dingle (sede di molte sessions di Other Voices, ndr). Creano un forte legame con gli artisti. Non si tratta solo di festival, è molto di più.
R.: Si prendono cura della valorizzazione delle band. So che non sono tecnicamente dei promotori ma incentivano. È davvero carino e ne siamo tutti lusingati.
Sulla vostra pagina Instagram c’è un video in cui cantate l’inno nazionale come riscaldamento pre-concerto. È stata una gag o è una routine?
P.: Credo fosse una specie di gag. Eravamo lontani da casa durante il tour americano. Molto di questo video è stato a causa della stanchezza per via di viaggi anche di 12 ore per raggiungere ogni città, per cui non c’erano le energie che avremmo dovuto avere prima di andare sul palco. Tutti sanno che l’inno nazionale prima di una partita esalta e ti tira su. Questo è quello che volevamo. Ha funzionato.
C.: Probabilmente ci stavamo esibendo per le altre band. È stato come un “facciamoli ridere, facciamo un po’ di animazione”.
Avete collaborato con la Lonely Planet come speciali guide turistiche per la città di Dublino. Non è molto comune vedere una band indie rock in questo ruolo. Com’è stata questa esperienza?
R.: Lonely Planet ci ha lasciato libere di fare quello che volevamo, loro poi si sono occupati della produzione. Abbiamo improvvisato senza sapere come potesse andare. Adesso i produttori sono nostri amici. È stata una cosa davvero carina e genuina.
P.: La gente viene a Dublino e dice “oh, devo vedere il Book of Kells” e fare solo cose standard. Io consiglio di vedere cose e posti diversi che probabilmente non sono ben conosciuti in quanto sono luoghi dove vanno i locals. Non è un video prettamente turistico ma abbiamo mostrato alcuni dei nostri posti preferiti.
Il vostro primo album In Waiting è uscito durante la pandemia nel 2020 e Leave the light on solo lo scorso aprile. Quanto l’esperienza della pandemia è presente nel secondo album?
P.: Proviamo a dire alla gente che Leave the light on non è un album riferito alla pandemia, ma non credo fosse possibile evitarla visto le circostanze in cui è stato scritto e come lo abbiamo concluso. Molto lavoro è stato fatto in una breve fase di tempo, quando abbiamo avuto l’opportunità di stare insieme per la prima volta. Penso che tu possa sentire nell’album che per noi è stato quasi difficile scrivere perché non c’erano esperienze. Non potevi andare al pub e tornando a casa dire “oh, che serata terribile”. Per la maggior parte del tempo eravamo sole a fare le stessa cose ogni giorno. Quindi gran parte della scrittura del nuovo album è solo sedersi, guardarsi dentro e pensare più al passato piuttosto che al presente. È lì che forse è presente la pandemia.
C.: Dici che c’è molto del passato ma c’è anche molto del futuro. È stato divertente il fatto di aver provato a non trattare il presente in quanto il presente era noioso.
La vostra musica è piena di empatia e di onestà. Questo ogni tanto può essere fastidioso per le vostre personali dimensioni private?
P.: C’è un livello di vulnerabilità che mettiamo nella nostra musica che non deve essere necessariamente messo anche nella nostra vita di tutti i giorni. È una cosa molto catartica da fare, un po’ per evitare l’autocombustione. Non direi fastidioso ma è piuttosto scoraggiante quando scriviamo musica vulnerabile, musica sui nostri sentimenti e le persone la scompongono e vogliono sapere esattamente di cosa si tratta. Sento che diciamo molto nella nostra musica, lasciatela lì.
R.: È piuttosto fastidioso però. Quando le persone vengono da te, chiedendoti e dicendo: scomponilo, spiegami, dimmi esattamente cosa significa.
C.: Quello che vogliamo è rappresentare voi e una canzone che significhi qualcosa per voi.
Quindi quella empatia è per voi più un’arma o uno scudo?
C.: È una cosa catartica. È quasi una terapia.
P.: Ma direi anche un’arma, perché vogliamo usare questi sentimenti a volte negativi per creare qualcosa di positivo. Penso che pochissime persone che fanno musica non attingano da diversi aspetti della loro vita. Penso che sarebbe quasi impossibile senza essere un po’ vulnerabile.
Non vi chiederò il significato della canzone ma ho una domanda su Child of Prague. In Irlanda c’è questa tradizione di mettere la statua del Gesù Bambino di Praga fuori dalle case nei giorni dei matrimoni per invocare il bel tempo. Perché avete scelto questa metafora?
C.: Sarah ha scritto il testo, quindi penso che questo sia quello che potrebbe risponderti. Penso che in Irlanda ci sia molta iconografia religiosa. Ci sono molti riferimenti a Gesù e a Dio. Sento che è molto facile andare direttamente alla metafora religiosa perché è nel nostro sangue.
P.: È una cosa così strana avere questa statua che devi mettere fuori e ha un significato davvero sentito. C’è tanta superstizione. In realtà non viene dalla Bibbia, è solo una cosa superstiziosa. Penso che Sarah abbia usato l’abitudine della superstizione e del suo significato mettendoli altrove, che è ciò che facciamo normalmente quando si tratta di storie religiose e iconografia. Usiamo quel linguaggio e quell’immaginario, lo collochiamo su qualcosa di completamente diverso e lo usiamo come veicolo per raccontare un’altra storia. Quella storia potrebbe essere un sentimento di disperazione o amore nella sfera privato che non ha nulla a che fare con la religione.
Quindi in generale come è il vostro rapporto con la religione? È qualcosa che accettate?
P.: Penso sia diverso quando ne parliamo individualmente. Portiamo molto l’iconografia religiosa, ma non lo facciamo mai in senso negativo o positivo. Lo stiamo solo usando. È qualcosa che è abbastanza inevitabile, che probabilmente puoi relazionare al fatto di crescere in un paese cattolico.
Permea la lingua, la struttura della giornata, il sistema educativo. Forse non sei praticante o nemmeno credi ma vivi in un paese culturalmente cattolico. Quindi è per questo che è presente anche nella nostra musica. Non credo che stiamo cercando di fare alcuna dichiarazione sulla religione. Quando lo facciamo è più come la lotta di quattro donne queer in questo tipo di ambiente, ma quando si tratta della nostra musica non esiste una visione positiva o negativa della religione.
C.: Personalmente dico negativa. È una domanda complicata perché penso che la religione e la sua idea siano piuttosto belle e affascinanti. Ho studiato teologia anni fa e penso che sia una cosa interessante, ma la religione è profondamente intrecciata con la politica. Ha un enorme impatto sulla nostra società. Penso che non entri necessariamente nella nostra musica, ma come individui e come generazione penso che ci sia molta rabbia verso la religione.
***
Ringraziamo le Pillow Queens per la chiacchierata piacevole e mai banale e per la loro genuinità.
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[ENG]
How do you feel playing in a country where you have never played before?
Rachel: It’s really exciting. It’s our first time here. It seems obvious, because we haven’t played any Italian gigs yet.
Pamela: It’s one of the biggest perks to be able to go to places we’ve never been before and we are very lucky that it’s not just in and out. We can stay a little bit before we leave, so that’s good.
Cathy: Yeah. It’s not everyday that you can have pistachio filled croissant for breakfast!
What do you think about the current Irish music scene you are part of?
P.: I think it’s super exciting the scene at the moment. It was exciting for a while right before the lockdown but it’s still so strong. I think that we are very lucky that this is the scene that we are in, because it’s so friendly. And it is, I suppose, because Ireland is so small. It feels more like a family scene.
C.: It’s probably because it’s such a small country. I would say it’s quite eclectic in terms of genre, there’s a good pop scene too. We were at the All Together Now festival in Waterford last weekend and most of the people went there to see local Irish acts, because there were amazing international ones but there were so many Irish artists too.
Personally I discovered your music watching Other Voices. How important is it for you Irish bands?
C.: I think we all grew up knowing Other Voices, watching Other Voices and discovering our favourite musicians via Other Voices. For me it was always like “when you get to play in Other Voices you’re in the game”. It was definitely a monumental step, a kind a badge of honour.
P.: It was one of those kind of things that we wanted to do, something we wanted to tick off the list. The real cool thing is that, since the beginning of the band, Other Voices has been a figure in the background. One of our first festival gigs was in the Other Voices tent at Electric Picnic and then we got to play Other Voices for the first time and we eventually did what we’d always wanted to do, which is playing in the church in Dingle. There’s this really strong connection that they make with artists. It’s not just a festival, it’s just something more.
R.: They care about artist development as well. I know technically they are not developers, but they foster bands. It’s really nice and it’s really flattering for us all.
In your Instagram page there is a video of you singing the Irish Anthem as a warm up before the gig. Was it a gag or routine?
P.: I guess it was kind of a gag. We were away from home during the American tour. A lot of it is because of how tired we got before shows because we travelled even 12 hours to get to each place, so we didn’t have the energy that we should have right before the gigs. Everybody knows that the national anthem before a match absolutely hypes you up, so that’s what we wanted. It did the job!
C.: We were probably somewhat performing for the other bands. It was like: “let’s make them laugh, let’s entertain them.”
You collaborated with Lonely Planet as special local guides in Dublin. It’s not so common seeing and indie rock band in this role. How was that experience?
R.: Lonely Planet left us pretty free to do what we wanted and they dealt with the production. It was like: “let’s do this, let’s make it happen”. And we’re friends with the producers now as well. It was a really nice, genuine thing to do.
P.: People come to Dublin and say “oh, I have to see the Book of Kells”. Just do all these standard things. I also recommend to see things and places around that probably are not well known, because it’s more where locals go. It was not touristy technical, but we showed some of our favourite places.
You released your first album In Waiting during the pandemic in 2020 and Leave the light on just in April 2022. How much of the pandemic experience is present in the second album?
P.: We do try to tell people: it’s not a pandemic album. But I don’t think you could avoid it because of the circumstances it was being written in and how we ended up writing it. A lot of work was done over a short phase of time, when we had the opportunity to be together for the first time. I think you can hear in the album that for us it was almost hard to write because there weren’t any current experiences. You were not going to the pub and coming home and saying like “oh, what a terrible experience”. A lot of the time we were alone experiencing the same thing every day. So a lot of the writing on the new album is just sitting and thinking about, looking inward, and thinking more about the past rather than the present. In that regard that’s where perhaps the pandemic is present.
C.: You say that there’s a lot of the past but there’s also a lot of future. It’s probably funny that we had to try not to deal present because present was boring.
Your music is full of empathy and honesty. Sometimes could it be annoying for your personal private dimension?
P.: There’s a level of vulnerability that we put in our music that maybe you don’t necessarily put in our day-to-day life. I won’t say annoying. It’s really cathartic to do, because if not you combust a little bit. I won’t call it annoying, but that it would be quite daunting when we write quite vulnerable music, music about our feelings, and people break it down and want to know exactly what everything is about. I feel we say a lot in our music, just leave it there.
R.: It’s kind of annoying though. When people come to you, asking you to break that down, explain, tell exactly what that means.
C.: What we want is to represent you and a song that means something to you.
Is that empathy a shield or a weapon for you?
C.: It think it’s like a cathartic thing. It’s a therapy almost.
P.: But it’s also I guess a weapon because we want to use these sometimes negative feelings and make something positive. I think that very few people who make music don’t draw from different aspects of their lives. I think it would be almost impossible without being a little bit vulnerable.
I will not ask you the meaning of the song but I have a question about Child of Prague. In Ireland there is the tradition to put outside the statue of the Child of Prague in the wedding days to invoke a good weather. Why did you choose this kind of metaphor?
C.: Sarah wrote the lyrics so I think this is what she might say. I think in Ireland there’s a lot of religious iconography. There’s a lot references to Jesus and God. I feel like it’s very easy to go straight to religious metaphor because it’s in our blood.
P.: It’s such a strange thing having this statue you have to put outside and that means so much. It has all this kind of superstition. It doesn’t actually come from the Bible, it’s just a superstitious thing. I think that Sarah is using the routine of the superstition and what it means putting it elsewhere, which is what we normally do when it comes to religious stories and iconography. We use that language and imagery, place it on something completely different, and use it as vehicle to tell another story. That story could be a feeling of despair or love in your private that has nothing to do with religion.
So how’s in general your relationship with religion? Is something that you accept?
P.: I think when it comes to individuals are different. We bring religious iconography quite a lot, but we never do it in a negative or positive sense. We’re just using it. It’s something that is quite unavoidable, which you can probably relate as you grow up in a catholic country. It permeates the language, the structures of the day, the education system. Maybe you’re not practising or maybe you don’t even believe but you’re living in a culturally catholic country. That’s why I think it permeates our music. I don’t think we’re trying to make any statement about religion at all. When we do it’s more like the struggle that we had as four queer women in our environment but when it comes to our music we don’t have a positive or negative view of religion.
C.: Personally negative though. It’s a complicated question because I think religion and its idea are quite beautiful and fascinating. I studied theology years ago and I think it’s such an interesting thing, but religion has deeply entwined with politics. It has a huge impact on our society. I think it would be not necessarily in our music but as individuals and as a generation I think there will be quite a lot of anger towards religion.
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Thank you to Pillow Queens for their availability and for the nice and genuine chat.
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Last modified: 13 Settembre 2022