A dover scegliere un colore da abbinare a quello che fu l’esordio omonimo del progetto The XX ci si trova inevitabilmente ad optare per il nero. Se imboccare la strada da solisti è una tentazione a cui in pochi riescono a resistere, ben venga se serve a dimostrare che c’è dell’altro, e in questo senso Jamie Smith di certo non ha perso l’occasione di sfoggiare il suo intero spettro cromatico.
La tavolozza è a tinte sature come quelle che campeggiano sull’artwork di In Colour, cromie squillanti eppure mai pacchiane: un esito quantomeno imprevedibile, considerato che la materia in gioco è essenzialmente Rave culture, distillata in undici tracce e diluita con estetica estremamente contemporanea.
Che Smith fosse un fuoriclasse nello stravolgere la logica di qualsiasi composizione musicale armato di estro e campionatori era chiaro da tempo. Dopo aver fatto sfoggio delle proprie abilità sull’opera di Gil Scott-Heron (è sua la materia che nel 2011 Jamie si diverte a smembrare e ricomporre in chiave Lo-Fi in We’re New Here), è ora pronto a mettere in tavola un progetto compiuto e personale, un pastiche retrofuturista di vocazione innegabilmente Pop che mentre sibila nostalgia per l’House dei chiassosi anni 90 scivola elegante verso un variopinto avvenire sonoro. Niente peripezie dall’ascolto ostico: le sintetiche trame sonore di In Colour si arrampicano sui beat in un gioco di giustapposizioni raffinate ma ammiccanti, lungi dal suonare pretenziose.
L’attitudine DIY esplode sin dall’incipit con l’essenza Jungle di “Gosh”, per lasciar spazio all’EDM sofisticata e terribilmente catchy di “Sleep Sound”.
Al fianco di Smith nell’intagliare alcune delle sue gemme di indietronica ci sono gli alfieri fidati. Il timbro suadente di Romy Madley-Croft suona a tinte cupe sulla ritmica Hip Hop di “See-saw” (nella cui produzione c’è lo zampino di Four Tet) e ammicca inevitabilmente al sound alla The XX in “Loud Places”. Quello di Oliver Sim impreziosisce e fluidifica i vellutati beat di “Strangers in a Room”.
Unico episodio che recide il morbido fil rouge che percorre il disco è la stridente “I Know There’s Gonna Be (Good Times)”, in cui la presenza di Young Thug spinge il risultato finale verso derive Rap invadenti e un po’ scontate. In compenso, la doppietta finale (“The Rest is Noise”, “Girl”) chiude perfettamente il cerchio, cristallizzando la cifra stilistica della personalissima rilettura di Smith della club culture d’oltremanica.
La riproducibilità esclude il beatmaking dal novero delle arti? Potrà anche darsi, ma sembra però che tanta bellezza Pop figlia illegittima del proprio tempo farà a meno del titolo nobiliare senza crucciarsene.
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Last modified: 17 Settembre 2015