In perfetto equilibrio fra shoegaze, trip hop, noise e dream pop, il secondo album della giovane band irlandese spicca per originalità e attitudine alla sperimentazione.
Sono originari di Dundalk, città irlandese a metà strada fra Dublino e Belfast, e la loro musica è impetuosa e sferzante come il freddo vento che tira sulle scogliere mozzafiato dell’isola di smeraldo.
Dopo l’ottimo debutto nel 2018 con Wednesday, pubblicato per l’etichetta indipendente Pizza Pizza Records, si sono fatti strada affiancando nomi di tutto prestigio (dai The Cure ai connazionali Fontaines D.C.) in svariati tour.
Tornato il 27 maggio scorso 2022 con Heart Under, secondo album in studio e primo pubblicato via Partisan Records, il quintetto irlandese ha dimostrato di potersi scrollare definitivamente di dosso l’etichetta di “ennesima band shoegaze” grazie alla sua coraggiosa e infinita capacità di sperimentare e spaziare fra i generi più disparati.
Parliamo dei Just Mustard, band evidentemente apprezzabile dai fan più affezionati di My Bloody Valentine e Slowdive, ma anche di Portishead e Mazzy Star.
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Il punto di forza di questo nuovo lavoro sta nella sua abilità di abbracciare diverse atmosfere senza mai perdere il proprio personalissimo sound identificativo. L’impressione è quella di essere di fronte ad un vero e proprio filo conduttore che collega tutti i brani, caratterizzato dal contrasto fra la voce angelica e suadente di Katie Ball e l’universo sonoro creato dagli altri quattro componenti della band (David Noonan e Mete Kalyon alle chitarre, Rob Clarke al basso, Shane Maguire alla batteria).
Un universo fatto di dissonanze, white noise, stridori e sinistre vibrazioni che non sarebbero affatto fuori luogo nella colonna sonora di un film horror; l’effetto finale sull’ascoltatore è infatti proprio quello di un surreale incubo tramutato in suono, un’innocente bambina in una stanza buia faccia a faccia con un mostro invisibile, una sirena che con il suo canto ammaliante inghiotte le sue vittime in un abisso senza fine.
Il post-rock oscuro e romantico del brano d’apertura 23 è la perfetta introduzione che ipnotizza l’ascoltatore conducendolo in un cupo universo, per poi puntualmente risvegliarlo con il beat serrato e le inquietanti distorsioni di Still e farlo smarrire nuovamente nell’ossessiva ripetitività delle strofe di I Am You: “change my hair, change my dress, change my head”, un interrogativo su un’identità incerta e sospesa riprodotto in loop fino allo stremo.
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L’occhio del ciclone dell’intera opera è rintracciabile probabilmente in Seed, uno dei brani più brillanti e degni di nota, che stordisce con un cantato acuto e straziante e regala qualche apparente attimo di calma prima del suo finale decisamente intenso.
Mirrors, forse l’episodio più melodico del disco, sconfina piacevolmente nel dream pop fra armoniosi cori e una pulsante linea di basso. Atmosfere eteree e sognanti che tornano a far capolino anche nella conclusiva Rivers, i cui ultimi versi di chiusura (“swimming, swimming”) rispecchiano alla perfezione le sensazioni provate durante l’ascolto dell’intero album: un’immersione in un oceano profondo, gelido e saturo di suoni e rumori.
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Last modified: 10 Dicembre 2022