Questa settimana sta facendo il giro della rete il link a un blog in cui si riporta un lunghissimo sfogo di un giovane musicista ritrovatosi nella condizione di ricevere, durante un’esibizione, un bigliettino in cui il proprietario del locale comunicava che fosse meglio smettere per l’eccessivo volume. I musicisti che hanno avuto modo di leggere questo contributo, ovviamente, hanno iniziato un indignato passaparola sui social network, spesso rincarando la dose raccontando simili esperienze di vita vissuta. Più che indignarsi, però, sarebbe il caso di individuare il reale problema o i problemi che stanno alla base di questi tipi di comportamenti, tenendo conto dello showbiz, della cultura musicale, della considerazione di cui gode la dimensione live in Italia, del grado di competenza e rispetto reciproci che si instaura, mediamente, tra l’organizzatore di un evento e l’artista.
Checché se ne dica in giro, l’ignoranza dei gestori dei locali, spesso additata come principale problema, non è certo stata prodotta dall’indiscutibile trattamento borderline della cultura da parte della politica. Il gestore di un locale che fa live, in genere, è un appassionato di musica, magari un ex musicista o un musicista molto scarso. Il problema non dipende dal gestore in quanto essere umano, ma dal fatto che gli introiti del suo locale sono il suo pane e quindi, umanamente, ciò lo porta a considerare la musica come merce. Questo, piaccia o non piaccia, è un fatto. Accantoniamo le responsabilità politiche di chi rende un concerto una lotta alla sopravvivenza burocratica del promoter, accantoniamo i controlli a macchia di leopardo e spesso assurdi cui deve esser sottoposto. Accantoniamo pure la concorrenza sleale di taluni locali o associazioni formalmente non a scopo di lucro che invece il profitto lo fanno eccome (a cinque euro a birra per trecento persone), ma senza pagare le tasse come gli altri. Questi sono problemi politici. E per quelli oggi ci vuole la rivoluzione della ghigliottina in piazza o la pazienza di un Bonzo. Accantoniamo l’idea che un gruppo possa far schifo al gestore durante il live: se lo chiama lo ha sentito e benché ci possa essere differenza anche considerevole con il disco questa non è certo percepibile dal gestore che, come detto, ha a che fare con la musica come un pappone ha a che fare con le donne (gli sono sempre piaciute ma sfruttandole non ne capisce più la poesia).
Parliamo di volumi: la responsabilità è doppia. Spesso è ignorante il gestore che pensa che i Deep Purple possano suonare al volume di Jobim; spesso altrettanto ignorante è il musicista che per capire che ogni spazio ha le sue esigenze di volume e setup ci mette lo stesso tempo di un elettore per capire che un politico non fa i suoi interessi: trent’anni. Responsabile è il gestore che non paga il pattuito nel momento della chiusura della data o che non mette tutti i suoi mezzi a disposizione per creare le buone premesse di un live (impianto decente, palco e fonico), altrettanto responsabile è il musicista che non denunci e sputtani il gestore favorendo nome del locale e del promoter in una rete virtuale in cui tra musicisti e locali tutti oramai possono sapere tutto di tutti. Partendo dalla buona fede dell’articolo, quella è indiscutibile, la cosa che mi lascia perplesso è l’anonimato dettato dalla paura. Capisco un commerciante taglieggiato dalla mafia, ma non un musicista che rimane in silenzio per paura di non esser più chiamato. Quel locale, se si comporta male abitualmente con la band, deve esser messo nella condizione di non poter trovare band.
Una rivoluzione che ci vuole è, insomma, quella che possiamo attuare tutti quanti: come protestare all’ufficio postale, quando ti passano davanti facendo finta di niente. Per quella non c’è bisogno della ghigliottina in piazza. E neanche di tutto questo coraggio.
Angelo Violante Deep Purple Jobim La Rivoluzione Possibile
Last modified: 19 Settembre 2013