Considerati come gli ultimi reduci dell’avanguardia italiana di fine millennio, i fiorentini continuano a stupire, sfornando ad ogni buona occasione un disco che somiglia al meglio della loro vasta produzione.
(foto di Lorenzo Desiati)
Nonostante l’anno non sia dei migliori, anche questa volta per Vittorio Nistri e soci è arrivata, appunto, l’ennesima buona occasione per regalarci un’opera fuori dal comune, lontana dai cliché della musica italiana mainstream.
Lo abbiamo virtualmente incontrato per parlare del loro album La Chiamata ma anche per provare a fare il punto della situazione in Italia.
Ciao Vittorio; come stai?
Per quanto riguarda musica, affetti e spirito… bene, grazie, Silvio. Sotto altri aspetti… il 2020 ha portato problemi non leggeri, ma li sto superando.
Iniziamo a parlare dei Deadburger. Band o collettivo? Idea o azione? Chi sono i Deadburger?
Nati come band dalla classica line-up a 5, i Deadburger si sono da tempo trasformati in un laboratorio di sperimentazione permanente, a formazione aperta. Idea o azione? Entrambi, abbiamo sempre cercato di realizzare le nostre idee. Non sempre ci riusciamo, ma ci proviamo.
Il vostro album d’esordio è l’omonimo del 1997 ed anch’esso era una miscela di generi che possiamo definire avanguardistica. Eppure, col passare degli anni, i Deadburger sembrano veder crescere la loro voglia di sperimentare. Sono passati oltre vent’anni; cosa è cambiato da allora?
È vero, la voglia e il piacere di sperimentare sono vivi e forti oggi più che mai. La cosa che più entusiasma me e Simone Tilli (che per La Chiamata è stato il più stretto partner creativo) è che, dopo tanti anni che facciamo musica, continuiamo a scoprire cose nuove (almeno per noi) e a fare cose diverse da tutto quanto abbiamo fatto in precedenza.
Cos’è cambiato rispetto a vent’anni fa? Si è ristretto il numero di ascoltatori interessato a proposte sperimentali (la fruizione su web, così rapida, e tutta di superficie, non è congeniale a musiche che richiedano un tipo di ascolto più attento). Per contro, mi sembra che si sia intensificato il rapporto tra ascoltatori e artisti. Riceviamo in privato lettere bellissime da persone che hanno comprato l’album. È la ricompensa maggiore per tutto l’impegno e la fatica che un progetto come Deadburger richiede.
Quali sono le principali differenze, se ci sono, tra sperimentare nei Novanta e farlo oggi?
Le tecnologie a disposizione sono enormemente cambiate; pensa che il primo album dei Deadburger fu fatto con un registratore a bobine! Adesso i musicisti hanno a disposizione sterminate possibilità di generazione e manipolazione suoni. E proprio perché è fin troppo facile, adesso, giocare coi suoni, credo che oggi abbia meno senso focalizzare la sperimentazione prioritariamente sul suono. La sperimentazione oggi deve investire le idee compositive, la struttura dei brani, gli eventuali concept dietro ai brani, ecc. Chiedersi non quali suoni usare, ma perché.
In realtà i primi Deadburger, al di là dei cambi di formazione, non erano molto affini a quelli che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni. Considerando che, a quei tempi, eravate sulla bocca di tutti almeno in ambito underground, vi sentite artisticamente più liberi oggi o lo siete sempre stati allo stesso modo?
Direi che lo siamo sempre stati allo stesso modo. Nei primi anni di attività del gruppo finimmo “sulla bocca di tutti” solo perché, per pura casualità, l’ambito della ricerca che portavamo avanti in quel periodo coincise con il boom dell’electrorock di Nine Inch Nails & C. Non ci eravamo prefissi di seguire alcun trend, e non esitammo a distaccarcene quando, nel giro di pochi anni, l’electrorock ci parve diventare “maniera”, e perdere carica innovativa. Abbandonammo quel mondo e cominciammo a sperimentare in altre direzioni.
Tieni presente che nessuno di noi vive di sola musica, il che comporta ovvie penalizzazioni (dovendo portare avanti anche un lavoro in settori al di fuori della musica, i tempi di realizzazione dei progetti musicali sono necessariamente lunghissimi), però comporta anche un aspetto positivo: possiamo cercare di realizzare la musica che ci sentiamo dentro, la musica nella quale crediamo, senza alcun compromesso.
Nelle vostre opere avete spesso mischiato varie arti: fantascienza, letteratura, musica, fumetto, cinema. C’è mai stato un momento in cui avete pensato di farla più semplice per arrivare ad un pubblico più grande?
Mi riallaccio alla risposta precedente: pagando le bollette con lavori al di fuori della musica, abbiamo sempre potuto fare esattamente la musica in cui crediamo. Ciò che può essere ostico per alcuni non lo è per altri; abbiamo un pubblico non grande ma che ci segue con passione, del quale siamo felici, al quale siamo grati. È proprio una connessione tra spiriti affini. Non avrebbe senso per noi snaturare la nostra musica per arrivare a un pubblico diverso.
Quanto alla mescolanza tra arti, rispondo a titolo personale: non mi è mai riuscito pensare alla musica come un’isoletta sulle nubi, separata dal resto. Per me la musica è parte della realtà, e dunque può benissimo intersecarsi con qualunque altro aspetto della realtà stessa. Può intersecarsi, certamente, con altre forme d’arte; ma anche con società, politica, tecnologia, esperienze autobiografiche… Tutte queste cose sono presenti nella musica dei Deadburger. Non è un giochino citazionista, non è un esercizio intellettuale, non è una tendenza a fare le cose “meno semplici”; per me è, semplicemente, vita. Proprio perché la vita è un continuum, non una sequela di compartimenti stagni.
Cosa ha significato, per voi e per la musica tutta, il passaggio da analogico a digitale?
Il potersi permettere cose che prima erano appannaggio esclusivo solo dei grandi studi di registrazione o di pochi artisti di successo.
La pubblicazione de La Fisica delle Nuvole rappresenta in parte la chiave di volta. Una sorta di consapevolezza stampata su disco delle potenzialità, del volere, dello stile, dell’idea di arte dei Deadburger oggi. Quanto è stato importante per voi quel triplo disco del 2013?
Molto, è stato una sorta di manifesto programmatico. Tre album distinti, ciascuno con un suo mondo sonoro diverso dagli altri, ma con in comune lo stesso nucleo di emozioni, sentimenti, idee. È stato un modo di esprimere quello che secondo noi è lo spirito della sperimentazione. Cercare di reinventarsi sempre, rimanendo sempre sé stessi. Coerentemente a tale spirito, La Chiamata è 100% Deadburger, eppure non assomiglia a nessuno dei nostri lavori precedenti.
Perchè sette anni, poi, per arrivare a La Chiamata? Cosa stavate facendo e cosa stavate aspettando?
I nostri tempi di realizzazione sono lunghissimi, per almeno cinque motivi. Il primo è che dobbiamo conciliare l’attività musicale con una in tutt’altro campo (io per primo, se dovessi vivere di musica, sarei sotto un ponte da un pezzo).
Il secondo è che tutti noi portiamo avanti, oltre ai Deadburger, una miriade di altri progetti e collaborazioni. Per esempio, in questi anni, io ho collaborato con Maisie, Forbici di Manitù, Nickelodeon/InSonar, e ho portato avanti la realizzazione di altri tre album, che potrebbero vedere tutti la luce nel 2021: l’esordio di una nuova band superpsych, di nome Ossi, insieme a Simone Tilli; un album 100% strumentale insieme allo sperimentatore fiorentino Filippo Panichi; e il restauro dei vecchi nastri della mia band degli anni ’80, Overload, in vista di una ristampa su Spittle Records.
Terzo motivo: sperimentare significa procedere per esperimenti. Cioè prove, tentativi, errori, correzioni e illuminazioni. Dietro a ogni canzone de La Chiamata ci stanno centinaia e centinaia di ore di lavoro. Sono capace di passare una notte insonne su una parte di dieci secondi, finché non arrivo a catturare l’espressività, l’intenzione, il suono che avevo in mente.
Quarto motivo: la grande cura dedicata ad artwork, booklet, confezione, ecc. Ci tengo molto, è anche un modo per ringraziare chi ancora, nell’era della Liquidità imperativa, si ostina a comprare dischi in forma fisica.
Quinto motivo: il mercato musicale sta vivendo un paradosso, i dischi vendono sempre meno ma (a causa dell’abbattimento dei costi di registrazione) ne escono sempre di più, e non di rado poco curati perché “tanto vendono poco”. Vorrei tirarmi fuori da questo meccanismo. Vorrei pubblicare qualcosa solo quando sono convinto al 100% del risultato, quando sento di avere dato il massimo delle mie capacità e possibilità.
Che cosa distingue, dal punto di vista dell’autore, le due opere?
La Fisica delle Nuvole era un trip nell’inner side (il nostro mondo interiore: inconscio, sogni, emozioni, visioni). I tre dischi del cofanetto, pur nelle loro diversità, erano altrettante declinazioni di una attitudine psichedelica. Per questo erano in larga misura incentrati su suoni evocativi/onirici, quali viola, chitarra acustica e flauto. Persino il forno a microonde era usato con spirito astratto e space oriented.
La Chiamata è invece un faccia a faccia con l’outer side. La realtà esterna, con la quale ci scontriamo frontalmente ogni giorno – con tutte le sue difficoltà, le sue asperità, le sue ingiustizie. Per questo il nuovo album è incentrato su suoni decisamente più materici e concreti. Zero archi. Quasi nessuna chitarra acustica. E al loro posto: sax urlanti, chitarre elettriche ‘straight in the face’, contrabbassi percossi per far sentire bene il legno che vibra e, soprattutto, una grande onda d’urto di tamburi (tutti i brani de La Chiamata sono a doppia batteria. mentre nel cofanetto delle Nuvole un buona metà dei brani era senza batteria alcuna).
Nel loro insieme, le due opere del dittico esprimono una visione anti-escapista della psichedelia e dell’arte in genere. Viaggiare dentro di sé non per evadere dalla realtà, ma per riattivare le sinapsi assopite… “ricaricare le batterie”… e tornare poi ad affrontare, con più lucidità e determinazione, i tanti ostacoli che la vita reale pone davanti a ciascuno di noi.
Abbiamo parlato ampiamente del vostro ultimo album nella recensione qui su Rockambula e ho visto che tanta della stampa specializzata ha speso molte parole. Parlaci tu del disco ma di quello che nessuno ha detto a proposito de La Chiamata.
Beh, potrei dire che… ripensando alla discografia Deadburger nel suo complesso, mi rendo conto che ha assunto, proprio grazie a La Chiamata, il senso di un ciclo compiuto. Non è stata una cosa premeditata; si è venuta a configurare così in modo spontaneo, tassello dopo tassello.
Il gruppo è nato nella seconda metà dei ’90, ovvero gli anni della diffusione di massa del web e della connessione perenne. All’epoca pensavamo che questo avrebbe portato enormi progressi non solo tecnologici, ma anche ‘umanistici’: ad esempio nel diffondere la cultura, nel dare voce agli ultimi, nel propagare informazioni attendibili, nella possibilità di approfondire senza svenarsi economicamente, nell’allargare le coscienze individuali e collettive, nello stimolare lotte contro le ingiustizie, ecc. I primi due album del gruppo (1997 e 1999) erano espressione di questo clima e queste speranze.
Bastarono però pochi anni per capire che le cose non sarebbero andate come speravamo. Già nel terzo album (2003) affioravano dubbi e disillusioni, e il quarto (2007) era immerso in un pessimismo totale. Il progresso tecnologico c’è stato, ed immenso (io per primo non sarei più in grado di lavorare senza un PC… né lo vorrei!) ma, sotto il profilo ‘umanistico’, il web ha mostrato di avere due facce… e quella numericamente prevalente è andata in direzione opposta alle nostre aspettative.
La cultura è a portata di clic per chiunque, ma pochi ne approfittano (essere colti sta diventando un disvalore sociale). La voce dei cretini e dei disinformati ha acquisito la stessa rilevanza di quella dei raziocinanti e degli informati. Le informazioni corrette ci sono, ma disperse in un mare magnum di fandonie o propaganda. La possibilità di approfondire esiste, ma il trend dominante è di segno opposto (passare bulimicamente da una cosa ad un’altra, senza soffermarsi più di pochi secondi su ciascuna). La dimensione ossessivamente egoriferita dei social (parola che, per inciso, cela un inganno epocale: sentirsi “sociali” standosene da soli di fronte ad uno schermo) restringe le coscienze, e mina il senso di appartenenza a classi sociali o collettività. Le disparità sociali e le ingiustizie sono in aumento, nella quasi generale rassegnazione, mentre il malessere che creano viene il più delle volte incanalato e sfogato verso bersagli “altri” (immigrazione, vaccini, complotti, mascherine, ecc).
Di fronte a queste considerazioni, è arrivata La Fisica delle Nuvole: un viaggio interiore per “fare ordine” nei sentimenti e nelle idee, e “ricaricarsi”. E una volta “ricaricati”, è arrivata La Chiamata. Che è un invito al cambiamento. A ridimensionare gli eccessi della digitalizzazione delle nostre vite. A fare meno cose ma più approfonditamente. A cercare di documentarsi da fonti ragionevolmente affidabili. A riscoprire il senso di collettività (le conseguenze dell’attuale “the age of self” sono sotto gli occhi di tutti). A tornare a battersi collettivamente contro le ingiustizie, tenendo presente che un milione di persone in un corteo qualcosa possono ottenere, mentre un milione di clic su una petizione on line no. Ecc ecc.
In questo senso La Chiamata porta a compimento un ciclo, e la scelta della doppia batteria assume un ulteriore significato. I Deadburger hanno sempre amato le poliritmie, e nei primi due album (quelli del periodo di convinzione nelle “magnifiche sorti e progressive” della rivoluzione digitale) le realizzavamo sovrapponendo più patterns di batterie elettroniche. A partire dal terzo album, abbiamo accoppiato batteria elettronica e batteria vera. E ne La Chiamata abbiamo cancellato le batterie elettroniche, e impostato le poliritmie su accoppiate di batteristi veri. In piena sintonia con l’invito a ridurre, almeno un poco, la percentuale di virtualizzazione delle nostre esistenze.
Lasciamo stare per un attimo la musica dei Deadburger e guardiamo fuori dalla finestra. Che rapporto avete con gli artisti e le loro opere che oggi riempiono le classifiche italiane ma anche con il mondo finto alternativo denominato erroneamente “indie italiano”?
Certamente trovo poco sintonia con la maggior parte del cosidetto “indie italiano” attuale. Ci sono luminose eccezioni (ad esempio trovo geniale Iosonouncane, e in Niccolò Contessa aka I Cani avverto profondità e spessore) ma nella maggior parte dei casi mi sembra musica “wanna-be-mainstream”, quando non una versione updated di quella che, in altre ere, veniva chiamata “musica leggera”. Beninteso: è una scelta lecita, e richiede comunque una sua forma di talento. Forse è solo sbagliato volerla etichettare come “alternativa”. Diciamo che, se questa è l’alternativa, a me interessa “l’alternativa all’alternativa”.
Si suppone che l’obiettivo di chi fa musica sia arrivare a più persone possibile. Motivo per cui molti finiscono per snaturarsi e cedere a ciò che il mercato richiede. Non sembra una cosa che a voi interessi molto, però. A che serve, quindi, un disco come La Chiamata ai Deadburger? E a cosa serve al pubblico del 2020?
Io credo che il criterio puramente quantitativo (“arrivare a più persone possibile”) si attagli soprattutto alla musica mainstream. Chi ha scelto di esprimersi in altri ambiti sonori ha già messo in preventivo, ed accettato, di non poter raggiungere la stessa quantità di persone cui arrivano Ed Sheeran o Fedez. È sempre stato così (dubito che, per esempio, Terry Riley abbia mai aspirato a raggiungere il pubblico degli stadi), e oggi più che mai.
La domanda “a cosa serve al pubblico del 2020” sembra presupporre che “il pubblico” sia un monolite compatto. Invece esistono diversi tipi di pubblico. C’è un pubblico generalista, che nelle scelte cinematografiche si limita ai blockbuster, in quelle musicali agli hits, e nella lettura… a niente. E poi ci sono nicchie di pubblico con gusti diversi: certamente più piccole, ma altrettanto legittime. Persone che trovano interesse e piacere anche in un film “d’arte”, in un album che magari richieda due o tre ascolti per entrarci dentro, in un libro, una rivista, una mostra.
Un disco come La Chiamata sta creando connessioni, sta raggiungendo il “suo” pubblico, che è numericamente limitato (non a caso, l’album è stato stampato in soli 500 esemplari) ma caloroso e remunerativo come pochi. Lo tocchiamo con mano dalle lettere bellissime che ci arrivano in privato.
Parliamo invece di TV e nello specifico di X-Factor. Perché esiste ancora?
Perché è coerente con i tempi. Il meccanismo ad eliminazione tra i concorrenti è in linea con lo spirito attuale del mondo del lavoro (per inciso, questo è uno dei temi sviluppati nel booklet de La Chiamata). Il fatto di avere una esibizione di pochi minuti per “vincere o perdere” è in linea sia con la tendenza ad abbreviare i tempi di riflessione e analisi (come nei social, dove la velocità di reazione conta assai più che la ponderatezza di ciò che si scrive) sia con il trend a “semplificare a prescindere” (lo stesso trend che si aspetta che opinioni su argomenti di grande complessità possano venire articolate nei 280 caratteri di Twitter). Anche il focus prioritario sulla tecnica invece che sui contenuti mi pare assolutamente in linea con l’epoca.
Non so se sei al corrente ma uno dei finalisti sta facendo impazzire tutti con musica cantautorale sperimentale che detto a te fa molto ridere. Lo stesso pubblico che di solito schifa ciò che non è allineato ora impazzisce per Naip. Perché? È questo il potere della Tv?
Non sapevo niente di Naip perché non guardo X-Factor. All’inizio mi documentai un minimo sulla trasmissione (ricordo che mi imposi anche, come “verifica”, di ascoltare, dall’inizio alla fine, l’album dei Bastard Sons Of Dioniso!)… dopo di che, non ho più sentito il bisogno di dedicargli altro tempo. Non è snobismo, e che la vita è breve, e non mi basterà per sentire tutta la musica che mi piace, per stare quanto vorrei con le persone che amo, ecc. Non vedo motivo di sottrarre ore preziose a tutto questo, per dedicarle a cose che non mi appartengono.
Ciò premesso… mi hai incuriosito, e sono andato su Youtube a vedere Naip. L’ho trovato interessante come musica e fortissimo come “tenuta del palco” (con quell’aspetto ordinario e tranquillo, che a sprazzi esplode in improvvise scariche ultracinetiche, come se entrasse in corto circuito). Essendo abituato a valutare un artista sulla base di un’opera compiuta piuttosto che di un singolo pezzo, aspetterò, per un giudizio più attendibile, che Naip pubblichi un album full length; sicuramente lo sentirò con piacere e curiosità.
È un bene per la musica? Il fine (far ascoltare qualcosa di diverso e magari interessarli) giustifica i mezzi (mercificazione e spettacolarizzazione dell’arte) oppure quel pubblico, a telecamere spente, tornerà a schifare il diverso?
Credo che sia sempre una buona cosa quando un artista riesce a portare un pubblico generalista ad interessarsi a proposte diverse dai trend dominanti. Questo potrà, almeno per una parte degli ascoltatori, costituire uno stimolo ad un allargamento di interessi musicali.
Un esempio per me da manuale di band che ha schiuso nuovi orizzonti al suo pubblico sono stati vent’anni fa i Radiohead. Dopo aver raggiunto il successo con una veste sonora tipicamente indie rock, e con le tematiche adolescenziali di Creep e Pablo Honey, fecero una prima svolta “adulta” con Ok Computer, per poi virare decisamente sullo sperimentale con Kid A e Amnesiac; e così facendo, traghettarono i gusti di almeno parte del loro pubblico verso tutt’altre lande musicali.
Parliamo un po’ di musica di altri. Il 2020 non è solo X-Factor, trap, rap, indie. C’è tanta buona roba di tutti i tipi, nel mondo. Ne parlo qui, nella mia classifica. Tu hai qualche nome da consigliarci, italiano e non?
Nella tua classifica c’è già tanta roba bella e che ho apprezzato, dagli Horse Lords ai Clipping a Fiona Apple. Aggiungo al volo qualche altro titolo che mi ha colpito.
- Military Genius – Deep Web: dopo Fiona Apple, un altro album di canzone d’autore con istanze sperimentali (amo in particolare il brano Focus).
- Aksak Maboul – Figures: una delizia per chi, come me, amava il Canterbury Sound
- Shackleton & Zimpel – Primal Forms: Shackleton è una garanzia, anche questo lavoro (elettronica + clarinetto) è coinvolgente per atmosfere e invenzioni
- Ghostpoet – I grow tired but dare not fall asleep: il miglior disco trip hop in cui mi sia imbattuto da non so più quanti anni.
- Patrizia Oliva – Celante: un audace album di pop sperimentale a base di sole voci, con in apertura un brano magico (Larila).
- The Third Mind – s/t: il brano Journey in Satchidananda è stato il mio trip psichedelico preferito dell’anno.
Perchè l’italiano medio che poi fa fare numeri ai musicisti non riesce a guardare oltre i confini nazionali?
In parte per la lingua. In parte, forse, per pigrizia.
Umberto Palazzo scrive che la pop music italiana di oggi verrà ricordata come musica per vendere vestiti. Siamo messi davvero così male? C’è una via d’uscita percorribile e attuabile o siamo destinati a questo?
Nella pop music italiana attuale non mancano affatto eccellenze di poesia (ad esempio Paolo Benvegnù e Cesare Basile) e originalità (ad es. Ooopopoiooo, Maisie, Mariposa, Klippa Kloppa). Molti non se ne accorgono perché (e questo non è un problema solo italiano ma universale) la fruizione su web, fisiologicamente rapidissima, viziata dalla ricerca di consenso immediato, tende a premiare proposte più epidermiche, che non richiedano un ascolto in profondità. Mi auguro che prima o poi subentri una reazione a questo pensiero unico. Che una nuova generazione di ascoltatori torni ad apprezzare anche lentezza e profondità. Lo sciamano de La Chiamata invoca anche questo.
Chiudiamo tornando al vostro disco. A chi è rivolto, chi dovrebbe ascoltarlo e soprattutto, marchetta doverosa, come può acquistarlo e ascoltarlo?
La Chiamata si rivolge a chi ama il rock non convenzionale. A chi, appassionato di songwriting, sia disponibile a verificare se può esistere una canzone d’autore “altra”. Ma anche a chi non segue la musica sperimentale perché la reputa “fredda” o “pallosa”; credo che questo album mostri che la sperimentazione può anche essere calda e comunicativa come il rock più sanguigno. Si rivolge inoltre a chi, come lo sciamano nel centro commerciale del concept, sente il desiderio di un cambiamento (e qua non mi riferisco alla musica).
L’album può essere acquistato contattando Snowdonia o Audioglobe. Oppure in selezionati negozi di dischi (ad es, a Firenze, “Twisted” in Borgo San Frediano). Può essere comprato anche su Bandcamp, che propone sia la versione digitale che quella fisica; mi permetto di consigliare quest’ultima, essendo in questo lavoro artwork e booklet curati quanto la musica.
Ultima domanda. Artisticamente parlando:
1) Se potessi tornare indietro di vent’anni, cosa cambieresti, faresti di diverso o non rifaresti con i Deadburger?
2) Se potessi esprimere un desiderio e cambiare qualcosa oggi?
3) Se potessi guardare nel futuro, cosa vorresti vedere per i Deadburger e cosa per la musica italiana?
1) Mi considero soddisfatto degli album del gruppo solo a partire dal quarto (C’è ancora vita su Marte, 2007). Trovo i lavori precedenti validi come composizioni, ma il suono, se potessi tornare indietro, lo farei differente. Era troppo pieno, come un panino esageratamente farcito. Sfoltirei molte tracce, e darei il giusto risalto a quelle rimaste. Togliere è molto più difficile (e utile) che aggiungere; mi ci sono voluti un sacco di anni per capirlo.
2) Agli inizi della loro attività i Deadburger vivevano tutti nella stessa città, avevano tutti gli stessi obiettivi, e provavano regolarmente in cantina. Col passare del tempo, siamo finiti in città diverse (da Grosseto a Berlino) e in vari casi sono (legittimamente) subentrati obiettivi o scelte di vita differenti. Ritengo il livello artistico degli attuali Deadburger nettamente superiore a quello degli inizi, ma del primo periodo della band mi manca il piacere dell’appuntamento settimanale in cantina con gli amici. Se dovessi esprimere un desiderio, sarebbe quello di riuscire a ricreare, con Deadburger o con altri progetti, una situazione come quella, senza però sacrificare il livello di ricerca e sperimentazione raggiunto.
3) Per il futuro ho tanti progetti (sia con Deadburger che con altre storie) che non mi basterebbero due vite per realizzarli. Alcuni sono già in avanzato stato di preparazione, altri sono agli inizi, altri sono ancora da iniziare e chissà se partiranno mai. La musica per me è la porzione di “avventura” nella mia vita; il piacere di reinventarsi ogni volta, la sfida di provare a realizzare sogni apparentemente impossibili (lo era anche La Chiamata), la gioia di collaborare con musicisti splendidi; spero che il futuro mi consenta di proseguire a farlo.
Alla musica (e alla società) italiana auguro entusiasmo, coraggio, voglia di cambiare.
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Last modified: 2 Marzo 2021