La solita Lana, tra brani memorabili e monotonia stilistica.
[ 19.03.2021 | Polydor / Interscope | songwriting ]
Indiscutibilmente unica, Lana Del Rey è riuscita nell’impresa di togliersi presto di dosso l’immagine antipatica di bella senza talento, nonostante qualche esibizione live non troppo convincente agli esordi.
È riuscita ad incantarci con il suo fare sexy ma senza fare di questo suo fascino prerogativa della sua arte. Al contrario, è riuscita a distinguersi sia per prolificità, sia per uno stile in grado di dare al cantautorato femminile nuova linfa, scegliendo di attraversare il pop più articolato, quello da camera, il dream pop ma anche la psychedelia e il sadcore con un mix di sensualità, malinconia e dolcezza.
Nonostante tutto questo e nonostante tra i suoi tanti lavori è facile pescare brani ormai indiscutibilmente nella storia della musica contemporanea, non è mai riuscita nell’impresa di regalarci un disco davvero notevole nel suo complesso, fermandosi come apice creativo a quel Norman Fucking Rockwell! del 2019. Amata a dismisura e al contempo odiata ed additata come una delle più sopravvalutate cantautrici degli ultimi decenni, Elizabeth Woolridge Grant tira dritto e continua a sfornare brani che faranno di lei quello che scopriremo essere solo col tempo.
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Il nuovo disco non apporta novità significative, pur mostrandosi quasi più solare che in passato; dolce, per certi versi, ed anche con un pizzico di spregiudicatezza vocale che ne fa un’opera leggermente più interessante rispetto alle ultimissime uscite. Si tratta sempre e comunque di canzoni semplici, incentrate sulla sua voce, sulla melodia costruita su tappeti soft rock e, nonostante la gradevolezza di un ascolto abbastanza agevole, Chemtrails Over the Country Club non fa altro che dare torto sia ai più grandi estimatori di Lana che ai suoi più feroci detrattori.
È la prova che non siamo davanti ad un contenitore tanto bello quanto vuoto, ma al contempo che il talento dell’americana è profondamente solcato dai limiti già mostrati nel corso degli anni e che si manifestano anche nei momenti in cui pare più ispirata. L’utilizzo della materia folk americana, della surf music, del blues e la voglia di ergersi a degna erede di Joni Mitchell, qui coverizzata in chiusura di album, tanto quanto il tentativo di modernizzarsi attraverso l’uso dell’autotune (un uso a dire il vero leggero e quasi impercettibile) non bastano a creare qualcosa che possa superare ciò che di bello la Del Rey ci ha già mostrato in passato.
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Chemtrails Over the Country Club finisce per suonare come un noioso sunto della sua carriera, in cui nulla è davvero orrendo e nulla davvero fantastico in antitesi a quelle che paiono essere le reazioni consone dei suoi ascoltatori sempre tesi verso l’estremizzazione del giudizio ma che, purtroppo, sembra confermare l’idea che le potenzialità del sound sperimentato in Norman Fucking Rockwell! non abbiano ormai alcun futuro percorribile.
La scelta dei suoni crea atmosfere leggiadre e sensuali perfette per la sua voce e le melodie assolute protagoniste, ma l’idea è che tutto sia confezionato ad arte per non far altro che mantenere intatto il ruolo di elegante icona pop, conquistato negli anni. La timbrica, per quanto affascinante, non ha molto che possa renderla davvero immortale e rimanderà il giudizio al gusto personale. Sullo stile, per certi versi unico, restano i dubbi su quanto Lana Del Rey debba al lavoro in studio piuttosto che alla natura e a ciò che le ha donato e alla lunga, la noia e la ridondanza prenderanno il sopravvento.
Dobbiamo rassegnarci all’idea che Lana Del Rey non sia altro che questo: una stella del panorama pop che non è intenzionata ad osare più di quanto debba; un’artista con una voce ammaliante ma non peculiare al punto da farci usare parole più grosse del dovuto ed in grado di realizzare di tanto in tanto ottimi brani in un mare di noia. Tutto questo e nulla più.
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Last modified: 13 Aprile 2021