Lana Del Rey – Ultraviolence

Written by Recensioni

Il sadcore hollywoodiano del suo sophomore è una dichiarazione d’intenti.

[ 17.06.2014 | Polydor | glamcore, blues, songwriting ]

È un pomeriggio di giugno del 2012. Il grosso isolato intorno all’Irving Plaza di New York City è circondato da svariate centinaia di persone, una moltitudine colorata in coda che arriva fino alla vicina Union Square, dove giungo trafelata per non perdermi lo showcase di Patti Smith, nella grande libreria Barnes & Noble che guarda sulla piazza, sorpresa al mio arrivo nel trovare la folla dal lato opposto. Mi avvicino a chiedere informazioni ad una tipa dai dreadlock rosa. Ci vorranno altre cinque o sei ore prima che la performance di Elizabeth Grant a.k.a. Lana Del Rey abbia inizio, ma loro sono già tutti qui. Born to Die è uscito soltanto da pochi mesi ma la strada per il successo sembra già una comoda passeggiata in discesa.

Lana Del Rey avrebbe avuto vita comoda se avesse voluto essere una pop star. Miss Grant però è ambiziosa, e pianifica questo secondo disco con il preciso intento di scampare il pericolo di essere scambiata per tale, profilatosi all’orizzonte dopo il debutto con una major. Di Born to Die raccoglie l’intuizione azzeccata, quel sound inedito che qualcuno ha definito “Hollywood sadcore”, e tralascia tutti gli altri umori su cui viaggiava lunatico il disco di esordio. Recluta poi Dan Auerbach, in doppia veste di chitarrista e produttore: il frontman dei Black Keys calca la mano sugli arrangiamenti, spolverando un velo di blues, ma meno di quanto ci fosse da aspettarsi, seguendo piuttosto i canali scelti dalla cantautrice e conferendo, anche fosse solo con la propria presenza, il marchio di fabbrica indie al prodotto finale.

La Del Rey è molto meno ingenua di quello che vorrebbe farci credere. È sempre perfettamente consapevole delle sue mosse, quando sceglie i personaggi di cui circondarsi, il colore dello smalto, i tweet che scomodano Lou Reed, i riferimenti rapidi e indolori al cinema d’autore o ai poeti beat con cui decora le liriche dei suoi brani. Il range di ispirazioni che Lana ci tiene a sottolineare si estende infatti ben oltre il mondo della musica indipendente, a partire dallo stesso titolo, che cita quella “old ultra violence” di Alex in “Arancia Meccanica”. D’altronde “ultraviolence” in lingua inglese è diventato vero e proprio sinonimo di “rape”, stupro. I testi della nuova Lana narrano di un unico lungo melodramma in cui amore e violenza sembrano inscindibili. “He hit me and it felt like a kiss”, mugola nella title track, altra citazione autorevole, stavolta chiamando in causa l’R&B delle Crystals

Il problema sta nel fatto che Lana si è accuratamente confezionata un’ottima occasione per poi sciuparla.
La prima parte dell’album è un ricco assaggio di tutte le facce che potrebbe assumere questo sadcore glitterato e opulento, oltre che una dimostrazione convincente delle sue doti da contralto con ampia estensione vocale. Cruel World inaugura in riverberi energici e conturbanti quel mood vintage che è poi la spina dorsale del progetto Del Rey, in cui tutto appare slavato dai toni pallidi di un filtro Instagram. Ultraviolence è fatta di archi e sussurri, sulla scia di quel filone sognante che parte da Young and Beautiful, soundtrack del remake de “Il Grande Gatsby” e consacrazione di Lana Del Rey alle colonne sonore. Sembra di sentire i vocalizzi di quella Suzanne Vega di Solitude Standing, ma è chiaro che non c’è la stessa introspezione: quando il timbro ammaliante di Lana chiede “give me all that ultraviolence”, quello che ne viene fuori è piuttosto una Etta James dei giorni nostri (negli anni 60 il suo “I just wanna make love with you” dev’essere suonato altrettanto scandaloso). I cori angelici ed effettati di Shades of Cool, le chitarre acustiche di Brooklyn Baby, il ritmato impasto sonoro di West Coast che sembra uscito da uno spy movie anni 70: ogni brano è una diversa e interessante declinazione della sua malinconia teatrale e sontuosa.

Da questo punto in poi però il disco prosegue con qualche sforzo, tra sonorità che si adagiano pigre sul ben fatto delle tracce precedenti e testi che si fanno più banali, e senza molte altre storie torbide da raccontare si attestano sul già abbondantemente sviscerato tema della disperazione che si cela dietro allo sfarzo dello star system. Se da un lato si ha l’impressione che la Grant non sia riuscita pienamente nello sviluppo di quello che sembrava configurarsi come una derivazione inedita e glam dello slowcore, dall’altro appare abbastanza chiaro che questo universo dorato di cui finisce ogni volta per parlare sia il suo habitat naturale. Lana Del Rey è pura incarnazione dell’American way of life, un aspetto inevitabilmente essenziale della cultura a stelle e strisce, ma senza alcuna ricerca di contenuti tradizionali da rielaborare, come in altre cantautrici americane sue coetanee (penso a Johanna Newsom): è piuttosto una ironica postura in cui lei sembra perfettamente a suo agio, un canto ammaliatore di sirena che trasporta l’ascoltatore nei luoghi mitici del sogno americano, dalla lasciva California alla fervente New York degli anni 70, e glieli lascia assaporare.

Conclude l’edizione standard una struggente reinterpretazione di The Other Woman di Jessie Mae Robinson, cara anche ad un certo Jeff Buckley (“io e Jeff abbiamo molte più cose in comune di quanto pensiate”, sembra dire lei con la sua consueta aria alla Jessica Rabbit che finisce sempre per convincere un uomo di qualsiasi assurdità). La deluxe edition include invece altri tre brani che divergono dal tracciato precedente in accenni elettronici e risultati orecchiabili ma decisamente meno interessanti.

A me piace pensare che quest’algida diva contemporanea si faccia in realtà delle grandi risate quando vede il mondo credere al suo show da drama queen. Mettetevi comodi perché ho la sensazione che il suo spettacolo fatto di pillole, gossip e lustrini durerà almeno un altro paio di decenni.

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Last modified: 16 Dicembre 2019